ASSEMBLEA PLENARIA 2010
PROLUSIO DEL PRESIDENTE

 

L’ECUMENISMO IN CAMMINO.
IL PUNTO DELLA SITUAZIONE DEL MOVIMENTO ECUMENICO OGGI

S.E.R. Mons. Kurt Koch

 

Ancora prima del Concilio Vaticano II, Papa Giovanni XXIII istituì nel giugno del 1960 il Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, affidandone la guida all’allora Rettore del Pontificio Istituito Biblico ed ex padre confessore di Papa Pio XII, il padre gesuita Agostino Bea, in seguito definito a giusto titolo il “Cardinale dell’unità” ed il “Cardinale dell’ecumenismo e del dialogo”[1]. Lo stesso Papa Giovanni XXIII può essere considerato come il padre spirituale del movimento ecumenico nella Chiesa cattolica. Di fatti, per attuare le sue priorità, che aveva collegate al Concilio Vaticano II e che consistevano nel rinnovamento della Chiesa cattolica e nel ristabilimento dell’unità visibile dei cristiani[2], egli fondò con saggia avvedutezza il Segretariato per l’unità che, nel 1988, fu ribattezzato “Pontificio Consiglio” e che da allora è al servizio della ricomposizione dell’unità dei cristiani nella comunione della fede, dei sacramenti e del ministero ecclesiale. Il fatto di iniziare il mio nuovo incarico come Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani nell’anno in cui questo Dicastero può guardare a cinquant’anni trascorsi dalla sua istituzione[3] è una piacevole coincidenza, che invita a fare, nella maniera più completa possibile, il punto della situazione del movimento ecumenico oggi.

 

I. L’eredità ecumenica nella Chiesa cattolica

Con il Concilio Vaticano II, soprattutto con il Decreto sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio”, la Chiesa cattolica è entrata ufficialmente nel movimento ecumenico. Questo “punto di non ritorno” è stato riaffermato dai vari Pontefici ed è stato tradotto nella realtà concreta in più modi. Papa Paolo VI fece proprie le istanze ecumeniche del Concilio e, ancora durante il suo svolgimento, compì un passo ecumenico significativo soprattutto verso l’ortodossia con la memorabile abolizione delle sentenze di scomunica del 1054, decisa insieme al Patriarca ecumenico Athenagoras il 7 dicembre 1965.[4] Con tale atto, il veleno della scomunica è stato tolto dal mezzo della Chiesa ed il “simbolo della divisione” è stato sostituito con il “simbolo della carità”[5]. Questo evento è diventato il punto di partenza del dialogo ecumenico della carità e della verità tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, il cui obiettivo è il ristabilimento della comunione sacramentale.

Papa Giovanni Paolo II, in particolare nella sua Enciclica sull’impegno ecumenico “Ut unum sint”, ha sottolineato in maniera inequivocabile che il cammino ecumenico intrapreso dalla Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II è irreversibile. Riprendendo queste parole, Papa Benedetto XVI ha ribadito tale idea, nel suo messaggio ai delegati e ai partecipanti della Terza Assemblea Ecumenica Europea che ha avuto luogo a Sibiu, in Romania, nel 2007: “Con il Concilio Vaticano II, come ha osservato il mio venerato Predecessore Papa Giovanni Paolo Il, la Chiesa cattolica si è impegnata in modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica, ponendosi così all'ascolto dello Spirito del Signore, che insegna come leggere attentamene i segni dei tempi”.[6] Già nel primo messaggio dopo l’elezione al Soglio Pontificio, Papa Benedetto XVI affermava la sua volontà di assumere “come impegno primario” quello di “lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo” e definiva la ricerca dell’unità come la sua “ambizione” ed il suo “impellente dovere”.[7]

Queste chiare prese di posizione testimoniano che l’impegno ecumenico nella Chiesa cattolica non è un optional, ma un dovere. Sull’irreversibilità del cammino intrapreso, non può esserci dunque alcun dubbio. Lo stesso Papa Benedetto XVI lo ha mostrato chiaramente, a controprova di quanto gli è stato più volte rimproverato lo scorso anno.[8] Certamente, il Santo Padre ha posto nuovi accenti su ciò che riguarda l’ermeneutica delle affermazioni conciliari. Nel suo discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2005, egli si è lungamente soffermato sul lascito spirituale del Concilio Vaticano II ed ha rilevato la distinzione tra due diverse ermeneutiche. Da una parte, vi è “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, che considera il Concilio Vaticano II non come facente parte della tradizione viva della Chiesa ma come un momento di rottura ed afferma l’esistenza di una Chiesa pre-conciliare e di una Chiesa post-conciliare, come se non si trattasse più della stessa Chiesa. Dall’altra, vi è l’ “ermeneutica della Riforma”, che riconosce i continui sviluppi della dottrina della fede e concilia continuità con la Tradizione e rinnovamento dinamico. In questa dialettica tra continuità e discontinuità, fedeltà alla tradizione e rinnovamento, risiede per il Santo Padre la vera essenza della riforma, come egli stesso ha espresso in modo convincente a proposito del Concilio Vaticano II: “Se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa”.[9]

È con l’ermeneutica della riforma che dobbiamo leggere anche il Decreto sull’ecumenismo. Il fatto che tale documento abbia segnato per la Chiesa cattolica una nuova svolta nelle relazioni con le altre Chiese e Comunità cristiane è talmente ovvio che spesso non si osa menzionarlo. Eppure questo nuovo inizio non implica una rottura con la Chiesa pre-conciliare. Di fatti, la svolta ecumenica realizzata dal Concilio si situa in una fondamentale continuità con la Tradizione: essa non sarebbe stata chiaramente possibile se l’interesse ecumenico, pur nella sua forma embrionale, non fosse stato presente all’interno della Chiesa cattolica già molto tempo prima del Concilio Vaticano II. A tal proposito, vanno menzionate le Conversazioni di Malines (Belgio), che si sono tenute con gli anglicani dal 1921 al 1926, con il forte appoggio di Papa Pio XI. Va ricordato altresì il fatto che, all’inizio del secolo scorso, soprattutto Papa Leone XIII e Papa Benedetto XV hanno energicamente incoraggiato la Preghiera per l’unità dei cristiani, che verrà in seguito definita in “Unitatis redintegratio” “l’anima di tutto il movimento ecumenico”.[10] Un ulteriore slancio all’impegno ecumenico è stato impartito da Papa Pio XII, il quale, nella sua istruzione del 1950, elogiava espressamente il movimento ecumenico, riconducendone l’ispirazione allo Spirito Santo. Il fatto che proprio Pio XII sia stato la fonte più citata nel Concilio, al di là delle Sacre Scritture, dimostra il ruolo svolto da questo Pontefice nel preparare la strada al Concilio con le sue numerose, lungimiranti encicliche, come ha sottolineato Benedetto XVI in un volume dedicato al magistero di Papa Pacelli:[11] “Certamente la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, è un organismo vivo e vitale, non arroccato immobilmente su ciò che era cinquant'anni fa. Ma lo sviluppo avviene nella coerenza. Per questo l'eredità del magistero di Pio XII è stata raccolta dal Concilio Vaticano II e riproposta alle generazioni cristiane successive”.[12]

In un’ampia analisi del decreto conciliare sull’ecumenismo, il teologo domenicano Charles Monerod ha mostrato che non poche delle affermazioni di questo documento sono già presenti, nella loro forma embrionale, in Tommaso d’Aquino, la cui teologia “può svolgere un ruolo capitale nella comprensione delle differenze tra i cristiani e nel loro superamento”.[13] Monerod ha altresì evidenziato che solo una “ermeneutica dello sviluppo omogeneo” del decreto sull’ecumenismo può ben spiegare l’intenzione stessa del Concilio,[14] che, come ribadito esplicitamente nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen gentium”, è quella di continuare il tema dei Concili precedenti e “con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale”.[15] Anche il Cardinale Walter Kasper ha sottolineato che “il Concilio diede inizio a qualcosa di nuovo”; tuttavia “non creò una nuova Chiesa”, ma “una Chiesa rinnovata”.[16] In una nota autobiografica, egli ricordava inoltre che la sua ermeneutica del Concilio Vaticano II è stata influenzata dall’idea di uno sviluppo continuo della Chiesa. Il Cardinale Kasper ha sempre compreso il Concilio “non come una rottura, né come l’inizio di una nuova Chiesa”; questa ermeneutica “rispecchia a fondo il modo in cui il Concilio si auto-concepiva e rispecchia il suo cosciente e voluto radicamento alla Tradizione ed anche al Concilio Vaticano I”.[17]

Nel guardare a questi ultimi cinquant’anni rivisitando il lascito teologico del Concilio Vaticano II […], possiamo innanzitutto rilevare molti aspetti incoraggianti. Con soddisfazione costatiamo che anche all’interno della nostra Chiesa l’ecumenismo non è più una realtà estranea, ma viene vissuto nella quotidianità in molte chiese locali, parrocchie, comunità ecclesiali e movimenti spirituali. Questo ecumenismo di vita ha un’importanza fondamentale, poiché, senza di esso, tutti gli sforzi teologici tesi al raggiungimento di un accordo durevole sulle questioni di fede basilari tra le varie Chiese e Comunità ecclesiali risulterebbero vani. Anche a livello teologico, nel corso degli ultimi decenni, abbiamo conseguito importanti convergenze; queste sono state riassunte in tre ampi volumi (in lingua tedesca) intitolati “Documenti del consenso crescente”[18] e sono state illustrate nel volume “Harvesting the Fruits” (“Raccogliere i frutti”) del Cardinale Walter Kasper e del nostro Pontificio Consiglio, che espone i risultati del dialogo teologico con i luterani, i riformati, gli anglicani e i metodisti.[19]

 

II. L’ecclesiologia come questione chiave dell’ecumenismo

Nonostante gli innegabili successi del dialogo ecumenico, siamo ancora lungi dall’aver conseguito l’obiettivo dell’unità visibile. Piuttosto, ci ritroviamo spesso al punto di partenza del Concilio Vaticano II. Il decreto sull’ecumenismo, come leggiamo già nella sua prima frase, afferma che “Promuovere il ristabilimento dell'unità fra tutti i cristiani” è uno dei principali intenti del Concilio, che vede il fondamento teologico del compito ecumenico nel fatto che da Cristo “la Chiesa è stata fondata una e unica”. Tuttavia “molte comunioni cristiane propongono se stesse agli uomini come la vera eredità di Gesù Cristo”. Poiché questa situazione può generare l’impressione che “Cristo stesso sia diviso”, il Concilio sostiene che la separazione tra i cristiani “si oppone apertamente alla volontà di Cristo”, è “di scandalo al mondo” e “danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura”.[20]

1. Conseguenze ecclesiologiche del consenso sulla dottrina della giustificazione

Con la firma ufficiale della “Dichiarazione Congiunta sulla dottrina della giustificazione”, avvenuta il 31 ottobre del 1999 ad Augsburg tra il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e la Federazione Luterana Mondiale, si è giunti ad un consenso di fondo su una questione cruciale che aveva portato alla divisione del cristianesimo occidentale nel XVI secolo.[21] L’utilizzo dell’espressione “consenso su verità fondamentali” sta a significare che non è stato ancora raggiunto un consenso pieno sulla dottrina della giustificazione e sulle sue conseguenze soprattutto nel campo dell’ecclesiologia e del ministero ecclesiale. La Dichiarazione stessa menziona le tematiche che esigono ulteriori chiarificazioni: “Esse riguardano, tra l’altro, la relazione esistente tra Parola di Dio e insegnamento della Chiesa, l’ecclesiologia, l’autorità nella Chiesa e la sua unità, il ministero e i sacramenti, ed infine la relazione tra giustificazione e etica sociale”.[22] Certamente questa Dichiarazione rappresenta una pietra miliare sul non facile cammino del ripristino della piena unità tra i cristiani. Ma una pietra miliare non è il traguardo.[23] Accanto alle questioni ancora aperte sull’interpretazione precisa della dottrina della giustificazione stessa,[24] rimangono irrisolte le questioni attinenti all’interpretazione ecclesiologica, come ha osservato il Cardinale Walter Kasper: “Dopo la chiarificazione di questioni fondamentali della dottrina della giustificazione, sono ora prioritarie nel dialogo con le Chiese nate dalla Riforma le questioni ecclesiologiche. Per i cattolici e per gli ortodossi, esse sono essenziali per poter progredire nella questione della comunione eucaristica, alquanto urgente dal punto di vista pastorale. Ecco il punto al quale oggi ci troviamo”.[25]

Questa problematica irrisolta è ritornata con forza al centro dell’attenzione della Chiesa con la Dichiarazione sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, “Dominus Iesus”, pubblicata nel 2000 dalla Congregazione per la dottrina della fede[26]. Sebbene questo documento sia diretto contro la teologia relativistica delle religioni e contro la sua neutralizzazione della cristologia,[27] lo scontro pubblico si è concentrato sull’affermazione del capitolo quarto, secondo cui le Chiese nate dalla Riforma non sono “Chiese in senso proprio”, ma comunità ecclesiali.[28] La Dichiarazione ha sollevato un’ondata di indignazione; soprattutto la parte riformata si è profondamente risentita della definizione di “comunità ecclesiali”[29]. Sorprende allora il fatto che il Consiglio ecumenico delle Chiese, che non rappresenta certamente tutta la cristianità non cattolica ma al quale comunque appartengono circa 400 milioni di cristiani provenienti da più di 340 comunità di oltre 100 paesi, descriva se stesso come una comunità fraterna di “Chiese, confessioni e comunità ecclesiali”. Ora, sarebbe interessante sapere chi, all’interno del Consiglio ecumenico delle Chiese, viene definito come “chiesa”, chi come “comunità ecclesiale” e chi addirittura come “confessione”.

2. Le chiese riformate alla luce dell’eredità della Riforma

È bene riflettere sulla questione gettando un breve sguardo alla storia. Possiamo costatare una sensibilità diversa da quella odierna nei riguardi della parola “Chiesa” già in Lutero, che aveva un rapporto altalenante con il termine e la realtà di “Chiesa”. […] Egli, verso la fine della sua vita, affermò di non riconoscere la Chiesa cattolica come Chiesa e si espresse assai duramente nei sui confronti: “Non riconosciamo che essi (‘i vecchi credenti’) siano la Chiesa… e non vogliamo sentire cosa essi impongono o vietano sotto il nome di Chiesa; di fatti, lo sa grazie a Dio un bambino di sette anni cosa è la Chiesa”.[30] Quest’affermazione di Lutero, pubblicata negli Articoli di Smalcalda del 1537, è stata ripresa negli scritti confessionali della Chiesa protestante luterana e, pertanto, è tutt’oggi valida. D’altro canto, se leggiamo l’operetta polemica di Lutero “Contro il papato istituito a Roma dal diavolo”, dobbiamo concordare con il giudizio, certo enfatizzato ma calzante, dello storico della Chiesa cattolico, il Cardinale Walter Brandmüller, secondo il quale il No di Lutero riguardava il concetto ecclesiologico cattolico: “Questo rifiuto radicale e totale, che fuoriusciva da profondità esistenziali e che, va detto, era pieno di odio, era diretto al Papato e, insieme a lui, a tutta la Chiesa nella sua gerarchia e nel suo ordinamento sacramentale”.[31] Qui risiede la ragione profonda della chiara preferenza accordata da Lutero al termine “Comunità” rispetto a quello di Chiesa, da lui stesso definito “cieco e vago”.[32]

All’inizio del secolo scorso, lo storico della Chiesa e dei dogmi protestante Adolf von Harnack sosteneva che la Riforma ed il suo successivo sviluppo non potevano e non dovevano più orientarsi verso una concezione cattolica tradizionale. Di conseguenza: “Il protestantesimo deve operare un ripensamento, riconoscendo di non voler e di non poter essere una Chiesa come quella cattolica, di rifiutare tutte le autorità formali e di contare esclusivamente su ciò che richiama il messaggio di Dio e del Padre di Gesù Cristo e del Padre nostro”.[33] E ancora nel 1962 il famoso teologo riformato Karl Barth, autore di una “dogmatica della Chiesa”, affermava nella sua ultima lezione intitolata “Introduzione alla teologia evangelica”: “È consigliabile dal punto di vista teologico evitare, se non sempre almeno per quanto possibile, il termine oscuro e troppo connotato di ‘Chiesa’, per sostituirlo immediatamente e coerentemente con la parola ‘Comunità’”.[34] Di conseguenza, nel passato, in varie traduzioni protestanti della Bibbia, il termine “Chiesa” è stato reso con quello di “comunità”. Ad esempio, nell’edizione del 1931 della Bibbia di Zurigo si precisava per la parola “Chiesa” con una nota in calce che con tale termine si intendevano le “singole comunità”.

Lo stesso problema si ripresenta non solo se volgiamo lo sguardo al passato, ma anche se diamo un’occhiata al presente. Già durante il Concilio, il teologo cattolico Erich Przywara, a proposito delle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, parlava di un “pluriversum della Riforma”.[35] In questo pluriverso vastissimo di Comunità ecclesiali a livello mondiale, vengono compiuti solo sforzi marginali per il raggiungimento di una maggiore unità interna. Il Cardinale Kasper, nella Prolusio di una precedente Plenaria, menzionava le varie divisioni all’interno del protestantesimo globale come conseguenze dirette di una “concezione relativamente elastica dell’unità della Chiesa” e della diffusione di nuovi gruppi evangelicali e carismatici. Questa crescente disgregazione rappresenta anche per la Chiesa cattolica una nuova sfida ecumenica, poiché sempre più gruppi appartenenti al protestantesimo mondiale non si vedono più rappresentati dalle federazioni mondiali (riformate e luterane) e desiderano allacciare direttamente dei colloqui con il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Così, la Chiesa cattolica si trova faccia a faccia con il grave fenomeno della frammentazione ecclesiale e deve affrontare la questione delicata di come reagire alla varie sollecitazioni di dialogo, senza mettere a repentaglio i dialoghi già in corso con le federazioni mondiali.

Il fatto comunque che le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma si auto-comprendano oggi decisamente come Chiese deve essere considerato in modo positivo, poiché esse, di conseguenza, sono tenute a rendere conto della propria ecclesiologia dal punto di vista non solo empirico, ma anche teologico. In questo contesto, il Cardinale Kasper, nel commentare la Dichiarazione “Dominus Iesus”, ha fatto notare che le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma devono essere intese in un senso analogo a quello di Chiesa, ovvero come “Chiese di un altro tipo”.[36] Adesso sta a queste Chiese definire cosa significhi “altro tipo”. Con ciò, si rende più agevole il dibattito sulla natura della Chiesa, necessario da molto tempo, e si pone una nuova base per il dialogo ecumenico.

3. La Chiesa una e unica di Gesù Cristo e il pluralismo delle “Chiese”

Alla questione ecclesiologica si collegano molte problematiche ecumeniche tuttora aperte. Il fatto che l’ecumenismo si debba concentrare così tanto sull’ecclesiologia non è casuale. Già al tempo del Concilio Vaticano II vi era una chiara interdipendenza tra l’apertura della Chiesa cattolica all’ecumenismo ed il rinnovamento dell’ecclesiologia. Per entrambi i Pontefici del Concilio, Papa Giovanni XXIII e Papa Paolo VI, l’ecumenismo era un importante filo conduttore del rinnovamento stesso della Chiesa cattolica e della sua auto-comprensione. A questo radicamento dell’opzione ecumenica all’interno del contesto generale del Concilio e soprattutto all’interno della sua ecclesiologia, Joseph Ratzinger faceva già riferimento durante il Concilio: poiché per il rinnovamento conciliare dell’ecclesiologia è fondamentale il rapporto tra il singolare “Chiesa” ed il plurale “chiese”, tipico dell’ecclesiologia cattolica, nel senso che la Chiesa una e universale consiste nelle varie chiese particolari e da esse è costituita e, viceversa, le varie chiese particolari esistono come Chiesa una ed unica, Ratzinger osservava che in questo rapporto risiede già “il problema ecumenico nella sua interezza”.[37] Dal punto di vista ecumenico, con il plurale “chiese” non si intendono le varie chiese locali o chiese sorelle nelle quali è presente la Chiesa una e universale, ma quelle comunità ecclesiali che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica. Il fatto che nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa sia di particolare importanza il capitolo secondo sul popolo di Dio è dovuto, per Joseph Ratzinger, a motivi ecumenici, poiché l’appartenenza diversificata alla Chiesa viene espressa in maniera più adeguata tramite l’immagine del popolo di Dio che tramite quella del Corpo di Cristo.[38] E come Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, l’allora Cardinale Ratzinger osservava che “l’intero problema ecumenico” si cela anche nella famosa formula del “subsistit in”, con la quale il Concilio voleva sottolineare che la Chiesa di Gesù Cristo è presente realmente nella Chiesa cattolica come soggetto concreto nella storia e che non deve essere concepita come una realtà astratta che rimane nascosta dietro le chiese concrete e che poi si realizza nelle varie Comunità ecclesiali.[39] Lo spinoso problema ecumenico consiste quindi nell’individuare il modo in cui la Chiesa cattolica può e deve comportarsi nei confronti di questo plurale “chiese”, che esistono al di fuori di essa ovvero nell’autonomia di comunità confessionali divise.[40] Tale questione emerge sia nel dialogo con le Chiese ortodosse che, seppur in forma diversa, nel dialogo con le Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma.

a) Autocefalia o primato della Chiesa universale

La definizione che più si addice all’ecclesiologia ortodossa[41], ed in maniera analoga anche all’ecclesiologia ortodossa orientale[42], è quella di ecclesiologia eucaristica, concetto sviluppato innanzitutto dai teologi russi in esilio a Parigi dopo la prima guerra mondiale, in chiara opposizione al centralismo del papato della Chiesa cattolica-romana. Tale ecclesiologia sottolinea che la Chiesa di Gesù Cristo è presente e si realizza in ogni chiesa particolare riunita intorno al suo vescovo, nella quale si celebra l’eucaristia. Poiché la chiesa particolare che celebra l’eucaristia intorno al suo vescovo è la rappresentazione, l’attualizzazione e la realizzazione della Chiesa una in un luogo concreto, in linea di principio non può esserci nessun primato della Chiesa universale sulle chiese locali. Pertanto, al di fuori di un concilio ecumenico, non può esserci neanche un principio visibile o un organo efficace di unità della Chiesa universale, a cui vengono attribuiti alcuni poteri giuridici, come quelli che la Chiesa cattolica riconosce nel ministero petrino. Poiché ogni comunità eucaristica è Chiesa piena e ad essa non manca nulla, l’unità orizzontale tra le chiese locali non è considerata essenziale o costitutiva dell’essere Chiesa. Tale unità è certo vista come bellezza e come appartenente alla pienezza della Chiesa, ma non come suo elemento costitutivo.[43] A maggior ragione questo vale per l’unità tra le singole comunità eucaristiche ed il Vescovo di Roma. Questa indipendenza delle singole comunità eucaristiche ha però un costo: il problema centrale dell’ortodossia è infatti il concetto stesso di autocefalia ed il principio dell’autonomia nazionale ad esso collegato.

Secondo l’ecclesiologia cattolica, invece, la Chiesa è, sì, pienamente presente nelle concrete comunità eucaristiche, ma la singola comunità eucaristica non è la Chiesa nella sua pienezza. Per questo, l’unità tra le singole comunità eucaristiche a loro volta unite al proprio vescovo ed al Vescovo di Roma non è un ingrediente esterno all’ecclesiologia eucaristica, ma ne è la condizione essenziale, come evidenziato dalla menzione del nome del vescovo diocesano e del Vescovo di Roma nella Preghiera eucaristica im memento ecclesiae; tale menzione non è un’opzione che può essere tralasciata a seconda delle circostanze, ma è “espressione della comunione”, “solo all’interno della quale ha senso la singola celebrazione eucaristica nella sua dimensione più profonda”.[44] Le convergenze e le divergenze tra l’ecclesiologia ortodossa e quella cattolica emergono dunque chiaramente nelle rispettive interpretazioni dell’ecclesiologia eucaristica. La Chiesa cattolica condivide con l’ortodossia un’ecclesiologia eucaristica che prevede “la responsabilità di ciascuna comunità” nel rispondere di se stessa; tuttavia, se ne distanzia quando accentua un’ecclesiologia eucaristica che “rifiuta l’autosufficienza e richiede lo stare in unità con il tutto”.[45]

Il nodo del problema ecumenico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa risiede così nel fatto che “un’ecclesiologia legata alla cultura nazionale ed un’ecclesiologia cattolica orientata verso il concetto di universalità si trovano l’una davanti all’altra, finora in disarmonia”.[46] Questa problematica non a caso emerge nella sua maniera più acuta nella questione del primato del vescovo di Roma, e precisamente nel senso di un primato a livello di Chiesa universale e non semplicemente regionale.[47] Questo, da una parte, come osservava Papa Paolo VI, rappresenta il  “maggiore ostacolo” per la ricomposizione della piena comunione ecclesiale con l’ortodossia e, dall’altra, agli occhi dell’attuale Pontefice, costituisce anche la “maggiore opportunità” per lo stesso obiettivo, “perché, senza primato, anche la Chiesa cattolica si sarebbe da tempo disgregata in chiese nazionali e sui iuris, che avrebbero reso confuso e complicato il paesaggio ecumenico, e perché, grazie al primato, è stato possibile compiere passi vincolanti verso l’unità”.[48]

Per far avanzare le cose, sarebbe necessario, come ha sottolineato da tempo Mons. Bruno Forte, che, da una parte, la Chiesa cattolica approfondisse ulteriormente l’idea che il primato del Vescovo di Roma non è una semplice appendice giuridica esterna all’ecclesiologia eucaristica, ma è un elemento che si fonda precisamente su questa, nel senso che la rete mondiale delle comunità eucaristiche ha bisogno di un servizio a favore dell’unità anche sul piano universale.[49] Dall’altra, la Chiesa ortodossa dovrebbe affrontare con determinazione il problema dell’autocefalia, perché di fondamentale importanza per il suo futuro e per l’ecumenismo, e cercare soluzioni adeguate, al fine di recuperare la propria unità interna e la propria capacità di agire in maniera concertata. È proprio il problema dell’autocefalia a mostrare l’urgente necessità, anche sul piano universale, di un organo di unità ecclesiale, che deve essere in un rapporto di equilibrio con le responsabilità specifiche delle chiese locali.[50]

Nel dialogo ecumenico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa sull’ecclesiologia in generale[51] e sul Primato del Vescovo di Roma in particolare,[52] si sono compiuti passi incoraggianti nel corso degli ultimi decenni. Ricordiamo soprattutto il documento di Ravenna del 2007, nel quale entrambe le Chiese hanno dichiarato di comune accordo che la Chiesa ha bisogno di un Protos a livello locale, regionale e universale. Su questa base promettente, occorrerà adesso chiarire dal punto di vista storico quale era il ruolo del Vescovo di Roma durante il primo millennio di Chiesa indivisa. Tale questione è giunta ad un’impasse nel corso dell’ultima sessione della Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme, riunitasi nel mese di ottobre a Vienna, e dovrà essere dunque ulteriormente approfondita tramite uno studio sistematico sul rapporto tra primato e sinodalità nella Chiesa.

Detto questo, non dobbiamo perdere di vista l’obiettivo finale del dialogo ecumenico, che, per la Chiesa cattolica, può essere soltanto il ripristino della comunione ecclesiale visibile. Di fatti, come osservava a ragione l’allora Cardinale Joseph Ratzinger, continuare a parlare delle “nostre due Chiese” significherebbe istituire un dualismo a livello ecclesiologico, facendo della Chiesa una un “prodotto della fantasia”, “mentre per essa, essenziale è proprio la corporeità vivente”.[53] Per il superamento di questo dualismo ecclesiologico, possono essere di grande aiuto le Chiese cattoliche orientali, con le quali è stato tenuto un Sinodo dei Vescovi a Roma lo scorso autunno. Esse infatti da una parte sono vicine alle Chiese orientali dal punto di vista della teologia, della liturgia, della disciplina ecclesiale e del diritto canonico, dall’altra vivono in comunione con il Vescovo di Roma.[54] In tale senso, il loro compito particolare nel campo della promozione dell’unità dei cristiani è stato evidenziato dal Decreto conciliare “Orientalium ecclesiarum”: “Alle Chiese orientali aventi comunione con la Sede apostolica romana, compete lo speciale ufficio di promuovere l'unità di tutti i cristiani, specialmente orientali, secondo i principi del decreto sull'ecumenismo promulgato da questo santo Concilio”.[55] Il Concilio ha inoltre riconosciuto al Codice canonico delle Chiese cattoliche orientali, il CCEO, un carattere transitorio, affermando esplicitamente che “tutte queste disposizioni giuridiche sono stabilite per le presenti condizioni, fino a che la Chiesa cattolica e le Chiese orientali separate si uniscano nella pienezza della comunione”.[56] In tal senso, le Chiese cattoliche orientali svolgono un’importante funzione di ponte, aiutandoci fin da ora a respirare in maniera più intensa con due polmoni e promuovendo un “allargamento verso oriente” anche nell’ecumenismo.

b) Le Chiese riformate nella continuità o in rottura con la Tradizione

Il dialogo ecumenico con l’ortodossia può avere un impatto positivo anche per quanto riguarda il superamento dei problemi ecclesiologici legati alla divisione occidentale della Chiesa.[57] Infatti, anche l’ecclesiologia della Riforma è imperniata sulla comunità locale concreta, come appare chiaramente in Lutero stesso. Davanti alle difficoltà del suo tempo, Lutero non riusciva più a riconoscere nella Chiesa universale lo Spirito di Cristo. Tuttavia, egli non considerava Chiesa in senso teologico neppure le varie chiese nazionali protestanti, che avevano iniziato a svilupparsi già in quell’epoca, ma le vedeva piuttosto come strumenti socio-politici che, in mancanza di altre autorità, erano governati dalle forze politiche. Per questo, egli definì in termini negativi il termine “Chiesa” e attribuì al termine “comunità” il suo contenuto teologico. Sulla linea di questa tradizione, anche oggi l’ecclesiologia protestante trova il suo punto gravitazionale nella comunità locale concreta: la Chiesa di Gesù Cristo è presente pienamente nelle comunità concrete che si riuniscono nella celebrazione liturgica intorno alla Parola e al Sacramento. Nell’ormai nota definizione della Confessione Augustana, la chiesa è l’assemblea dei credenti, nella quale si insegna il Vangelo nella sua purezza e si amministrano correttamente i sacramenti. Poiché questo è ciò che avviene nelle comunità locali, non solo la Chiesa di Gesù Cristo sussiste nelle singole comunità concrete, ma la comunità locale è il prototipo per eccellenza della realizzazione della Chiesa.

Anche secondo l’ecclesiologia protestante, le singole comunità sono in un rapporto di reciproco scambio. La dimensione trans-comunitaria della Chiesa esiste implicitamente, ma è secondaria, come lo è la dimensione universale della Chiesa.[58] Infatti anche le federazioni mondiali come quella luterana e riformata non sono esse stesse chiese, ma alleanze di chiese che, al massimo, si stanno trasformando in comunità ecclesiali.  Si ripresentano così le stesse problematiche che s’incontrano nel dialogo con l’ortodossia, in forma acuita. In particolare, emerge la difficile questione ecumenica di come possano rapportarsi, da una parte, l’ecclesiologia cattolica con la sua dialettica tra pluralità di chiese locali e unità della Chiesa universale e, dall’altra, l’ecclesiologia protestante, che vede nella comunità concreta la più autentica realizzazione della Chiesa, e come sia possibile pervenire ad un solido consenso nella materia.

A complicare la situazione, si aggiunge il fatto che la dimensione sacramentale della Chiesa è un punto estremamente controverso. A differenza delle Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, la Chiesa cattolica ha un’ecclesiologia prettamente sacramentale, secondo la quale la Chiesa non è in primo luogo un’assemblea di persone professanti la stessa fede, ma è una fondazione sacramentale che è stata istituita nel Cenacolo e che si concretizza in ogni celebrazione eucaristica, come sottolineava già Joseph Ratzinger nella sua tesi di dottorato con l’espressione significativa: “La Chiesa è il popolo di Dio solo nel Corpo di Cristo e solo tramite il Corpo di Cristo”.[59] Questa differenza fondamentale ha un impatto soprattutto sulla questione ecumenica della comunione eucaristica. Per la Chiesa cattolica, l’impossibilità di celebrare insieme l’eucaristia deriva principalmente dall’ecclesiologia sacramentale, ovvero dalla convinzione, già presente nella Chiesa primitiva, che la comunione in Cristo, la comunione ecclesiale e la comunione eucaristica non sono separabili, ma intimamente unite. Con ciò, non si nega il primato di Gesù Cristo in tutti sacramenti, ma si mette in discussione l’assoluta separazione, sottolineata dai protestanti, tra il segno sacramentale ed il suo autore. Poiché per l’ecclesiologia cattolica non è concepibile che proprio nell’eucaristia si operi una tale separazione tra Gesù Cristo e la Chiesa, la Chiesa cattolica, pur accogliendo il concetto protestante secondo cui Cristo invita alla Cena del Signore, aggiunge la seguente precisazione: essendo Cristo colui che invita, tale invito, trasmesso da un ministro la cui ordinazione e la cui missione si fondano su Cristo, è di per sé un sacramento.[60]

Con ciò affiora un’ulteriore differenza. Mentre la teologia riformata definisce la Chiesa solo sulla base della Parola di Dio annunciata “pure et recte” e dei sacramenti amministrati conformemente al Vangelo ed intende la Parola di Dio come una realtà che si fa conoscere da sola e che si pone davanti alla Chiesa in maniera autosufficiente, e come autonomo correttivo,  la Chiesa cattolica concepisce e riconosce come terzo criterio dell’essere Chiesa anche il ministero apostolico: “Essa non concepisce una Parola quasi-ipostatica, autosufficiente davanti alla Chiesa”; piuttosto, la Parola vive “nella Chiesa, così come la Chiesa vive della Parola- in mutua dipendenza e relazione”[61]  

Queste tematiche ecclesiologiche devono essere al centro del dialogo ecumenico con le Chiese e le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma. In questo dialogo, sarebbe opportuno che da parte riformata si trovasse una risposta alla questione riguardante il modo in cui oggi le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma concepiscono se stesse e come la Riforma si autodefinisce: come un conto alla rovescia del tempo moderno e come stella del mattino della modernità, in quanto rottura decisiva con il passato, oppure come uno sviluppo in fondamentale continuità con mille e cinquecento anni di storia della Chiesa cristiana. È interessante notare che il Vescovo Wolfgang Huber, ex Presidente del Consiglio della Chiesa evangelica della Germania, abbia affermato che la Chiesa evangelica è la Chiesa cattolica che ha attraversato la Riforma. In questa prospettiva, le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma sono considerate in una continuità di fondo con la tradizione della Chiesa. È auspicabile che tale orientamento teologico riesca ad imporsi e che, con ciò, si possa trovare una risposta soddisfacente nella materia, anche in previsione dell’Anniversario della Riforma, che sarà celebrato nel 2017. Già nel passato, il Cardinale Kasper ha sollecitato le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma a definire il modo in cui si auto-concepiscono e a chiarire se esse considerano la Riforma come avevano fatto in fondo gli stessi riformatori[62], ovvero come “riforma e rinnovamento della Chiesa universale”, oppure ancora come un nuovo paradigma cristiano ed ecclesiologico, che si distanzia marcatamente dal mondo cattolico, a causa di una differenza di fondo permanente”.[63] Dalla risposta a tale domanda dipenderà il modo in cui potrà proseguire la discussione ecumenica sulla natura teologica della Chiesa.

 

III. L’obiettivo controverso dell’ecumenismo

La riflessione teologica sull’ecclesiologia deve essere il primo tema all’ordine del giorno nei dialoghi ecumenici. Essa può prendere come punto di partenza il terzo capitolo di “Harvesting the Fruits”, che riassume i risultati di quarant’anni di lavoro sulla questione ecclesiologica.[64] L’elaborazione di un’ecclesiologia comune potrebbe alla fine condurre ad una “Dichiarazione Congiunta” analoga a quella riguardante la dottrina della giustificazione o perlomeno ad una “Dichiarazione- In via” come quella proposta dall’ecumenista protestante Harding Meyer[65] ; in tal modo si realizzerebbe un passo decisivo verso una visibile comunione ecclesiale. Di fatti, non può esserci unità ecclesiale senza che ci sia prima un chiaro concetto teologico di ciò che è la Chiesa.[66]  

1. L’unità della Chiesa e l’obiettivo ecumenico

Pervenire ad un’interpretazione ecclesiologica comune è oggi quanto mai urgente, anche perché da essa dipende il superamento della principale impasse ecumenica, ovvero del fatto che le varie Chiese e Comunità ecclesiali non sono state ancora in grado di raggiungere un consenso sull’obiettivo ecumenico stesso, il quale è divenuto addirittura più nebuloso col passare del tempo. In questo sviluppo va individuato il carattere paradossale della situazione ecumenica odierna: da una parte, è stato possibile realizzare ampi ed incoraggianti convergenze e consensi su svariati punti; dall’altra, le differenze tuttora esistenti si condensano, oggi come ieri, nelle diverse interpretazioni confessionali di ciò che è l’unità stessa della Chiesa. Questo complesso problema che grava sull’ecumenismo deve essere affrontato seriamente una volta per tutte. Di fatti, soltanto se si ha un’idea chiara di quello che è l’obiettivo del movimento ecumenico, è possibile individuare e poi compiere i passi necessari sul nostro cammino comune.

La mancanza di un consenso sull’obiettivo del movimento ecumenico deriva fondamentalmente dalla mancanza di un consenso ecumenico sul concetto di Chiesa e della sua unità. Poiché ogni Chiesa e Comunità ecclesiale ha il suo concetto confessionale di ciò che è l’unità della propria chiesa e lo mette in pratica e si sforza comprensibilmente di applicarlo anche all’obiettivo del movimento ecumenico, esistono oggi tante idee diverse dell’obiettivo ecumenico quante sono le Chiese e le Comunità ecclesiali cristiane.[67] Nella differenza tra le varie interpretazioni confessionali di Chiesa e di unità ecclesiale risiede dunque il motivo fondamentale dell’impossibilità di passare senza attriti dalla propria ecclesiologia particolare ad un modello ecumenico compatibile di unità o di comunione. Questo accade soprattutto quando tale modello non viene discusso in maniera adeguata nei dialoghi ecumenici, perché si preferisce assolutizzare la propria ecclesiologia confessionale, generando così il sospetto di “voler imporre in maniera subdola una tipologia confessionale specifica (ovvero la propria)”.[68]

L’esperienza ci mostra chiaramente che tale tentazione è presente in tutte le Chiese ed è particolarmente evidente nel dialogo ecumenico con le Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma.[69] Queste, nella Concordia di Leuenberg siglata nel 1973, hanno messo a punto il proprio modello di comunione ecclesiale, il quale è stato realizzato concretamente all’interno della comunione protestante delle Chiese di Leuenberg.[70] Secondo questo modello, affinché sia dichiarata e realizzata una comunione ecclesiale occorre che ci sia un’interpretazione comune del Vangelo, fondata sul messaggio della giustificazione, il quale è considerato come “il criterio dell’intero annuncio della Chiesa”.[71] Sulla base della comune interpretazione del Vangelo, le Chiese di Leuenberg dichiarano di essere in una comunione intorno alla Parola e al Sacramento ed affermano il mutuo riconoscimento dell’ordinazione dei ministri rispettivi e la possibilità dell’intercelebrazione. Pertanto, la loro comunione ecclesiale è essenzialmente una comunione di pulpito e di altare tra diverse chiese confessionali.

A proposito di questo modello, Wilhelm Hüffmeier ha detto giustamente che, essendo “approvato in maniera riformatoria e attuato con successo nella Concordia di Leuenberg”, esso rappresenta “il modello protestante dell’unità ecclesiale”.[72] Effettivamente, questo modello di comunione ecclesiale è risultato efficace all’interno del mondo protestante. Tuttavia, poiché le Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma ritengono che questo modello sia adatto anche per l’ecumenismo, traspongono il proprio concetto confessionale di unità anche al piano dell’obiettivo ecumenico, cosicché in fondo è implicito che noi cattolici dovremmo diventare protestanti per poter compiere ulteriori passi nell’ecumenismo. La Chiesa cattolica, però, come quella ortodossa, rimane fedele al principio, già riconosciuto nella Chiesa primitiva, dell’inseparabilità tra comunione ecclesiale e comunione confessionale e si impegna a livello ecumenico affinché le varie Chiese si possano riconoscere infine come Chiese sorelle per giungere insieme all’obiettivo ecumenico, che consiste nell’unità visibile nella comunione di fede, di sacramenti e di ministero ecclesiale. Il vero obiettivo dell’ecumenismo, come ha espresso più volte il Cardinale Joseph Ratzinger, è dunque quello di “trasformare il plurale di Chiese confessionali separate le une dalle altre nel plurale di Chiese locali, che, nella loro varietà di forme, sono un’unica Chiesa”.[73]

2. L’abbandono dell’obiettivo ecumenico e la necessaria salvaguardia dei risultati già realizzati

Alla luce di quanto appena detto, comprendiamo quanto profondo sia ancora il problema della mancanza di un’interpretazione comune di Chiesa e di unità nella situazione ecumenica odierna. Le Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma esprimono solitamente il loro modello ecumenico di unità con la formula della “diversità riconciliata”. Questa formula, vera e bella in sé, ha però il difetto di essere oggi impiegata da tutti e mai intesa nella stessa maniera. I cattolici vedono in essa un modo adeguato per esprimere l’obiettivo dell’impegno ecumenico, nel senso che l’ecumenismo è essenzialmente un processo di riconciliazione, nel quale le varie Chiese, dopo aver rielaborato e superato tutte le divergenze che sono fonte di divisione, possono infine riconoscersi come l’unica Chiesa di Gesù Cristo e dare una forma visibile a questa unità. I protestanti, invece, spesso non vedono nella formula sopra indicata l’obiettivo del movimento ecumenico, ma un’adeguata descrizione dei risultati ecumenici già realizzati e quindi dell’odierna situazione ecumenica, nel senso che intendono la comunione ecclesiale come un’assemblea di Chiese di diverse tradizioni confessionali che si riconoscono vicendevolmente come Chiese. La Concordia di Leuenberg, infatti, non mira né a una professione di fede unitaria né all’unità visibile della Chiesa. Essa prevede piuttosto che le singole Chiese mantengano i propri responsabili, ma si impegnino a collaborare insieme e a riconoscere i rispettivi ministeri.

È inevitabile giungere così alla conclusione che le Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma abbiano rinunciato all’obiettivo ecumenico originario di un’unità visibile e lo abbiano sostituito con il concetto di un mutuo riconoscimento come Chiese, possibile fin da oggi. L’ecumenista cattolico Peter Neuner si lamenta a ragione del fatto che per molte Chiese protestanti e riformate, e addirittura per non pochi cattolici, l’obiettivo ecumenico non consista più nel ristabilimento della comunione ecclesiale, ma solo nell’intercomunione; quando questa si realizza, “tutto il resto può rimanere tale quale”.[74] È chiaro che vi è una profonda differenza tra questa visione protestante e l’interpretazione cattolica e ortodossa, secondo cui l’obiettivo ecumenico non può essere l’intercomunione, ma la “comunione, all’interno della quale trova il suo posto anche la comunione eucaristica”.[75] Tale convinzione è alla base dell’inseparabilità tra comunione ecclesiale e comunione eucaristica sostenuta dalla Chiesa cattolica-romana come pure dalla maggioranza delle Chiese cristiane.[76] La maggior parte delle Chiese cristiane infatti rimane fedele al principio, già affermato dalla Chiesa primitiva, secondo cui senza comunione ecclesiale non può esserci “una vera ed autentica comunione eucaristica” e, viceversa, senza eucaristia non può esserci “una piena comunione ecclesiale”.[77]

Le Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, al contrario, sono propense a considerare l’obiettivo ecumenico come già raggiunto con la celebrazione comune della Cena del Signore, per cui le Chiese possono continuare ad essere divise e a riconoscersi reciprocamente. Pertanto, queste non hanno più bisogno di un’unificazione, ma solo di un mutuo riconoscimento nella loro rispettiva diversità ed in parte contraddittorietà confessionale.[78] Per loro, l’unità visibile della Chiesa non sarebbe altro che la somma delle varie chiese. Viene in mente, per analogia, l’immagine di tante case monofamiliari, in cui le famiglie conducono la propria vita in maniera indipendente e si limitano ad invitarsi a pranzo di tanto in tanto. Ma quest’immagine non sembra conciliabile con l’immagine biblica dell’unico Corpo di Cristo e con la preghiera di Cristo stesso “perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Un mero pluralismo ecclesiologico basato sulla somma di diversi componenti, nel senso che tutte le realtà ecclesiali non sono altro che “cocci della vera Chiesa che esiste da qualche parte”, la quale “deve essere ora ricomposta dall’assemblaggio di questi cocci”, non può essere certamente l’icona della Trinità divina, ma riduce l’unità della Chiesa ad un “prodotto umano”, come ha fatto giustamente notare il Cardinale Ratzinger. Tale pluralismo contrasta anche con la convinzione cattolica che la vera Chiesa di Gesù Cristo “sussiste” nella Chiesa cattolica, ovvero che essa è già una realtà esistente, senza con ciò “negare agli altri il loro essere cristiani o contestare il carattere ecclesiale delle loro comunità”.[79]

Quest’idea di pluralismo ecclesiale, oggi ampiamente condivisa, è il motivo fondamentale per cui, nel movimento ecumenico, si è perso l’entusiasmo iniziale, la ferma volontà di ricercare l’unità visibile della Chiesa di Gesù Cristo nel rispetto dell’indispensabile e inalienabile diversità. Molti sembrano essersi adattati alla situazione odierna di diversità e si reputano soddisfatti del pluralismo di fatto delle varie chiese. Considerano sufficiente la diversità ‘tollerata’ che già esiste e non capiscono perché questa debba essere superata per giungere ad una vera e propria diversità ‘riconciliata’.[80] Ci troviamo oggi di fronte a due mentalità profondamente diverse. Da una parte, c’è un ecumenismo che continua a ricercare l’unità visibile della Chiesa e lavora e prega per quest’unità; dall’altra, c’è un ecumenismo che ritiene sufficiente ciò che è già stato raggiunto e si accontenta dunque di mantenere lo status quo, di confermare questa situazione con la pratica della comunione eucaristica e, per il resto, di continuare a vivere in chiese separate. C’è il forte rischio che questo atteggiamento non offra altro che una facile consolazione davanti allo scandalo della divisione della Chiesa, che è pur sempre frutto del peccato, e si presenti come un “tranquillante” ecumenico in un momento in cui in realtà avremmo bisogno di “tonificanti” per rinvigorire ed approfondire la volontà delle chiese di rendere visibile l’unità del Corpo di Cristo, già presente nella fede in Gesù Cristo, e di farla fruttificare nella vita di tutti i giorni, conformemente al grande spirito visionario ecumenico del Concilio Vaticano II.[81]

Questo cambiamento di paradigmi all’interno della vita di molti cristiani, ed anche di molti cattolici, è strettamente legato allo spirito del tempo, oggi pluralistico e relativistico, il cui dogma fondamentale asserisce che non si possa, né si debba indagare col pensiero oltre la pluralità della realtà, per non essere tacciati di totalitarismo intellettuale, anche perché la pluralità sembra essere l’unico modo in cui il tutto ci si rivela, se mai lo fa.[82] Questo abbandono del concetto che esista l’unità del reale è caratteristico della post-modernità, che “non è solo l’accettazione e la tolleranza della pluralità, ma accorda una fondamentale opzione preferenziale al pluralismo”.[83] La mentalità postmoderna è alla base soprattutto delle correnti del pluralismo religioso odierno,[84] il quale parte dal presupposto che vi sia non solo una pluralità di religioni ma anche una pluralità di rivelazioni e, di conseguenza, vede in Cristo soltanto uno dei tanti profeti e salvatori.[85] In campo ecumenico, vi è un parallelismo tra questo pluralismo religioso ed il pluralismo ecclesiologico, per cui ogni tentativo di raggiungere l’unità viene guardato con sospetto.[86] Al massimo, l’unità è concepita come il tollerante riconoscimento della pluralità e della varietà; in tale riconoscimento, si considera già realizzata la diversità riconciliata. Di fatti, il prato fiorito delle diverse chiese confessionali invita a concedersi reciprocamente crescita e prosperità; esso viene inteso come una più sensata rappresentazione dell’unità cristiana rispetto alla “monocultura” di un’unica Chiesa

 

IV. L’ecumenismo alla prova

È decisamente in questa mentalità postmoderna caratterizzata da tendenze pluralistiche e relativistiche che risiede la sfida maggiore per la ricerca dell’unità visibile della Chiesa di Gesù Cristo. L’ecumenismo cristiano, infatti, se vuole rimanere fedele al proprio obiettivo, non può adeguarsi al paradigma postmoderno, ma deve continuare a mantener vivo anche oggi, con amorevole determinazione, il desiderio di unità. Senza la ricerca dell’unità, la fede cristiana rinuncerebbe a se stessa, poiché l’unità è e rimane “una categoria fondamentale della Sacra Scrittura e della Tradizione”,[87] che professa un solo Dio, un solo salvatore, un solo Spirito, un solo battesimo ed una sola Chiesa (cfr. Ef 4,4-6).

1. Ecumenismo e missione

La ricerca appassionata dell’unità è motivata anche da un altro fatto, a cui si riferisce l’anniversario di un evento che abbiamo potuto celebrare proprio quest’anno. Cento anni fa in Scozia, ad Edimburgo, si teneva la prima Conferenza Mondiale sulla Missione, il cui scopo principale era quello di prendere coscienza di uno scandalo, per porvi rimedio: lo scandalo insito nel fatto che varie Chiese e Comunità cristiane si facevano concorrenza nella missione, minando la credibilità dell’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo soprattutto nei continenti più lontani, poiché esse, insieme al Vangelo, avevano portato alle altre culture anche la divisione della Chiesa in Europa. Dato che una testimonianza credibile dell’opera salvifica di Gesù Cristo nel mondo è possibile solo quando le Chiese riescono a risanare la loro divisione nella dottrina e nella vita, ad Edimburgo il vescovo anglicano missionario Charles Brent invitò a compiere sforzi più intensi per il superamento di quelle differenze relative alla dottrina e all’ordinamento ecclesiale che si frapponevano sul cammino verso l’unità.

Da allora, ovvero da quando si è esplicitamente riconosciuto che la divisione tra i cristiani costituisce l’ostacolo maggiore per la missione nel mondo, l’evangelizzazione è diventata uno dei temi fondamentali dell’ecumenismo. Da Edimburgo in poi, l’opzione ecumenica e l’impegno missionario sono considerati come realtà inscindibili. Ecumenismo e missione sono diventate sorelle gemelle, che si chiamano e si appoggiano a vicenda. Questo binomio corrisponde alla volontà stessa di Gesù, che ha pregato per l’unità “affinché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Con questa frase conclusiva, il Vangelo di Giovanni intende sottolineare che l’unità dei discepoli di Cristo non è un fine in sé, ma si pone al servizio dell’annuncio credibile del Vangelo nel mondo.

Lo stretto legame tra ecumenismo e missione è dimostrato anche dal fatto che, là dove viene meno lo slancio missionario, cessa anche la ricerca appassionata dell’unità dei cristiani e, viceversa, là dove ci si abitua allo scandalo della divisione o addirittura non lo si vede più come tale, non vengono più compiuti grandi sforzi missionari. La nuova evangelizzazione, tanto necessaria nel mondo odierno, può aver successo solo se viene rivitalizzato l’obiettivo originario del movimento ecumenico, ovvero l’unità visibile dei cristiani. La testimonianza cristiana deve pertanto avere una chiave musicale ecumenica, affinché la sua melodia non sia cacofonica ma sinfonica. Dall’altro canto, il movimento ecumenico anche oggi deve essere al servizio del lavoro missionario, con quella convinzione già sottolineata dal Cardinale Walter Kasper: “Se rendiamo testimonianza insieme, la nostra voce sarà più credibile”.[88]

È dunque bello e significativo che, nell’anno in cui celebriamo il Centenario della Conferenza Mondiale sulla Missione e ricordiamo il Cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Papa Benedetto XVI […] abbia creato un nuovo Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. [89] Tutte le Chiese che vivono nei territori cristiani tradizionali hanno bisogno urgentemente di un rinnovato slancio missionario, come “espressione di una nuova generosa apertura al dono della grazia”. Alla radice di ogni evangelizzazione non vi è infatti “un progetto umano di espansione”, ma il desiderio di “condividere l'inestimabile dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita”. Poiché il compito fondamentale dell’evangelizzazione è quello di avvicinare gli uomini al mistero di Dio e di introdurli in una relazione personale con Dio, il fulcro di ogni nuova evangelizzazione deve essere la questione di Dio, di cui noi dobbiamo rispondere a livello ecumenico, tenendo presente che, come ha osservato Papa Benedetto XVI, non dona abbastanza all’uomo colui che non gli dona Dio.[90]

2. L’ecumenismo dei martiri

I più credibili testimoni della fede e i più credibili esegeti del Vangelo sono senza dubbio i martiri, che hanno dato la propria vita per la fede.[91] Nella coscienza media di non pochi cristiani oggi, “martirio” e “persecuzione dei cristiani” sono temi che appartengono al passato. A queste parole si collegano soprattutto ricordi di storia. Si pensa ad esempio alla lapidazione di Stefano, raccontata dagli Atti degli Apostoli. Si ricordano le varie ondate di persecuzione che, nei primi tempi del cristianesimo, sono servite agli imperatori romani per eliminare dalla società gli atei, come erano allora chiamati i cristiani. Certamente, nella coscienza pubblica, è presente anche il XX secolo, nel quale, sotto il regime del terrore del nazionalsocialismo e del comunismo, numerosissimi cristiani sono stati perseguitati ed uccisi a causa della loro fede. Al giorno d’oggi, invece, non si parla molto di persecuzione di cristiani, sebbene la cristianità alla fine del secondo millennio e all’inizio del terzo sia diventata nuovamente una Chiesa di martiri.[92]  

Nel mondo odierno, la fede cristiana è la religione più perseguitata. Soltanto nel 2008, dei 2,2 miliardi di cristiani nel mondo, 230 milioni sono stati vittima, a causa della loro fede, di discriminazioni, soprusi, forti ostilità e perfino vere e proprie persecuzioni. Ciò significa che l’80% delle persone che vengono perseguitate oggi a causa della loro fede sono cristiani. L’Organizzazione Internazionale per i Diritti Umani giunge a questo bilancio sconcertante: “Se prendiamo come criterio gli standard internazionali dei diritti umani, la situazione di questi cristiani è spesso una vera catastrofe. Un disastro a cui tutti gli interessati si sono abituati e di cui la nostra società secolarizzata prende atto, se mai lo fa, soltanto quando eventi eccezionalmente forti fanno sì che ondate di rifugiati si riversino nel mondo”.[93]

Questo bilancio sconvolgente rappresenta una grande sfida per tutte le Chiese cristiane, chiamate ad essere realmente solidali. Tutte le Chiese e Comunità cristiane hanno i loro martiri; è giusto quindi parlare di un “ecumenismo dei martiri”. Questo porta in sé una bella promessa: nonostante il dramma delle divisioni tra le chiese, i saldi testimoni della fede in tutte le Chiese e Comunità cristiane hanno mostrato che Dio stesso mantiene tra i battezzati la comunione ad un livello più profondo tramite una fede testimoniata con il sacrificio supremo della vita. Mentre noi cristiani e noi chiese viviamo su questa terra ancora in una comunione imperfetta, i martiri nella gloria celeste si trovano fin da ora in una comunione piena e compiuta. I martiri, come Papa Giovanni Paolo II ha sottolineato chiaramente nella sua Enciclica sull’ecumenismo “Ut unum sint”, sono “la prova più significativa che ogni elemento di divisione può essere trasceso e superato nel dono totale di sé alla causa del Vangelo”. [94]

Come cristiani, dobbiamo vivere nella speranza che il sangue dei martiri del nostro tempo diventi un giorno seme di unità piena del Corpo di Cristo. Ma questa speranza la dobbiamo testimoniare in maniera credibile con l’aiuto efficace reso ai cristiani perseguitati nel mondo, denunciando pubblicamente le situazioni di martirio ed impegnandoci a favore del rispetto della libertà di religione e della dignità umana. In questo consiste l’urgente responsabilità kairologica dei cristiani, che deve essere vissuta nella comunione ecumenica.

3. Ecumenismo e spiritualità

Nella dimensione martirologica dell’ecumenismo va rintracciato il nucleo più profondo della spiritualità ecumenica, oggi assolutamente necessaria. Con ciò, giungiamo ad una prospettiva essenziale per il futuro dell’impegno ecumenico. Per illustrarla, mi riallaccio di nuovo ad Edimburgo.[95] Dalla Conferenza Mondiale sulla Missione sono nati altri due movimenti, che continuano tuttora ad accompagnare l’ecumenismo: da una parte, il “movimento per il cristianesimo pratico” che, sotto il nome di “Life and Work”, promuove un’intensa collaborazione tra le Chiese davanti alle principali sfide della società, dall’altra, il movimento “Faith and Order”, che si sforza di superare quei problemi teologici relativi alla dottrina e all’ordinamento ecclesiale che ostacolano la cooperazione pratica tra le Chiese. Come è avvenuto nel passato, così anche nel presente e nel futuro l’ecumenismo dovrà camminare sulle due gambe. Da un lato, l’ecumenismo teologico-spirituale dovrà fare le sue prove davanti alle sfide secolari; dall’altro, l’ecumenismo orientato verso un’etica sociale ha bisogno dell’ecumenismo teologico-spirituale se vorrà mantenere la propria identità cristiana.

Il problema subentra quando una delle due gambe si paralizza. E questo rischia di avvenire anche oggi, quando si tende ad accordare una preferenza alle tematiche di “Life and Work” rispetto a quelle di “Faith and Order”. Non di rado, le problematiche di etica sociale sembrano voler marginalizzare le questioni teologiche-spirituali. Anche all’interno della discussione ecumenica sull’unità della Chiesa e sul suo rapporto con l’unità dell’umanità, l’aspetto etico ha spesso il sopravvento su quello sacramentale. A ragione, l’ecumenista protestante Wolfhart Pannenberg criticava, a proposito degli sviluppi del Consiglio Ecumenico delle Chiese, il rischio insito in “un passaggio da una visione sacramentale-simbolica ad una visione etica-secolare del rapporto della Chiesa con l’unità dell’umanità”, diagnosticando così “non un surplus, ma un deficit nella teologia della storia della salvezza”.[96]

Eppure, possiamo progredire sul cammino dell’ecumenismo solo se ritorniamo alle sue radici spirituali e ricerchiamo una rinnovata spiritualità ecumenica.[97] All’origine del movimento ecumenico, vi è non a caso la pratica dell’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani, che fu inizialmente promossa da Paul Wattson, un anglicano americano che passerà in seguito alla Chiesa cattolica, e da Spencer Jones, membro della Chiesa episcopaliana, e fu estesa a tutta la Chiesa cattolica da Papa Benedetto XV e poi ulteriormente sviluppata da un appassionato pioniere dell’ecumenismo spirituale, l’Abbé Paul Couturier. In ciò non va visto semplicemente un inizio in senso storico, come un fatto accaduto nel passato e al passato circoscritto, ma un inizio che continua ad accompagnarci sul cammino, poiché anche oggi l’impegno ecumenico ha bisogno di un approfondimento spirituale, descritto dal Concilio Vaticano II come “l’anima di tutto il movimento ecumenico”.[98]

Negli ultimi anni, il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani si è dedicato a fondo a questo tema ed ha presentato i frutti del suo lavoro nel volume “L’ecumenismo spirituale. Linee-guida per la sua attuazione”.[99] Tuttavia, va riconosciuto che l’ecumenismo spirituale non ha ancora preso campo in maniera sufficiente nella vita quotidiana della Chiesa. Dobbiamo pertanto riflettere su come questo Dicastero potrà incoraggiare una nuova iniziativa per promuovere la riscoperta e la rivitalizzazione delle radici spirituali del lavoro ecumenico. Anche oggi, infatti, l’ecumenismo credibile sta o cade con l’approfondimento della propria forza spirituale e con il fatto che il dialogo della carità ed il dialogo della verità si arricchiscano vicendevolmente. In particolare, la spiritualità ecumenica ricorda ai cristiani che non siamo noi a “fare” l’unità e a concordarne il tempo e la forma, ma che possiamo solo riceverla come dono. In tal senso, si è espresso anche Papa Benedetto XVI: “Il richiamo perseverante alla preghiera per la piena comunione tra i seguaci del Signore manifesta l’orientamento più autentico e più profondo dell’intera ricerca ecumenica, perché l’unità, prima di tutto, è dono di Dio”.[100] Sta a noi, però, sforzarci di raggiungerla con quella passione che si rivela nella pazienza, la quale a sua volta, secondo le belle parole di Charles Péguy, “è la sorella minore della speranza”.

La speranza ecumenica è alimentata soprattutto dalla convinzione che il movimento ecumenico è l’opera grandiosa dello Spirito Santo;[101] saremmo persone di poca fede se non credessimo che lo Spirito porterà a compimento ciò che ha cominciato, quando, dove e come Lui vorrà. Con questa speranza, continuiamo il cammino ecumenico, passo dopo passo. E questo, davanti alle difficoltà innegabili della situazione odierna, è già molto: è esattamente ciò che ci viene richiesto. Ed è l’essenziale.

 

ENDNOTES

[1] S. Schimdt, Il Cardinale dell’unità (Roma 1987); Id., Agostino Bea, Cardinale dell’ecumenismo e del dialogo (Roma 1996).

[2] Cfr. H. J. Pottmeyer, Die Öffnung der römisch-katholischen Kirche für die Ökumenische Bewegung und die ekklesiologische Reform des 2. Vatikanums. Ein wechselseitiger Einfluss, in: Paolo VI e l’Ecumenismo. Colloquio Internationale di Studio Brescia 1998 (Brescia – Roma 2001) 98-117.

[3] Cfr. Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei Cristiani (Ed.), Unità dei Cristiani: Dovere e speranza. Per il 50° Anniversario dell’Istituzione del Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei Cristiani 1960 -2010 (Roma 2010).

[4] Cfr. Patriarcato ecumenico e Segretariato per la promozione dell’Unità die Cristiani (ed.), Tomos Agapis (Rom – Istanbul 1971). Questo volume raccoglie i discorsi e le lettere che Roma e Costantinopoli si sono scambiati dal 1958 al 1970.

[5] J. Cardinale Ratzinger, Rom und die Kirchen des Ostens nach der Aufhebung der Exkommunikation von 1054, in: id., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie (München 1982) 214-230.

[6] Benedetto XVI, Messaggio ai delegati e ai partecipanti alla Terza Assemblea Ecumenica Europea tenutasi a Sibiu, in Insegnamenti di Benedetto XVI, III 2 2007, Città del Vaticano 2008, 150-153.

[7] Benedetto XVI, Messaggio alla Chiesa Universale al termine della Santa Messa con i Cardinali Elettori nella Cappella Sistina, in Insegnamenti di Benedetto XVI, I 2005, Città del Vaticano 2006, 1-7.

[8] Cfr K. Koch, Streit um das Konzil. Stellungnahme zur gegenwärtigen Situation in unserer Kirche, in W. Beinert (ed.), Vatikan und Pius-Brüder. Anatomie einer Krise, Freiburg i. Br. 2009, 113-128. Questa visione è stata confermata da svariate voci nel campo ecumenico: K. Nikolakopoulos (ed.), Benedikt XVI. und die Orthodoxe Kirche. Bestandsaufnahmen, Erwartungen, Perspektiven (St. Ottilien 2008); W. G. Rusch (Ed.), The Pontificate of Benedict XVI. Its Premises and Promises (Michigan – Cambridge 2009); W. Thiede (Hrsg.), Der Papst aus Bayern. Protestantische Wahrnehmungen (Leipzig 2010).

[9] Benedetto XVI, Una giusta ermeneutica per leggere e recepire il Concilio come grande forza di rinnovamento della chiesa, in Insegnamenti di Benedetto XVI, I 2005, Città del Vaticano 2006, 1018-1032, cit. 1028.

[10] Unitatis redintegratio, n. 8.

[11] Cfr Ph. Chenaux (ed.), L’eredità del Magistero di Pio XII, Città del Vaticano 2010.

[12] Benedetto XVI, Un insegnamento inestimabile: Ecco il Magisterio di Pio XII, in Insegnamenti di Benedetto XVI, IV 2 2008, Città del Vaticano 2009, 635-639, cit. 638.

[13] J. Monerod, Unitatis redintegratio entre deux herméneutiques, in Revue thomiste 110 (2010) 25-71, cit. 69.

[14] Ibid 68.

[15] Lumen gentium, n. 1.

[16] W. Kasper, Das Dekret über den Ökumenismus nach 40 Jahren neu gelesen, Rapporto in occasione della Conferenza per il 40° anniversario della promulgazione del Decreto conciliare Unitatis redintegratio tenutasi a Rocca di Papa l’11 novembre 2004.

[17] W. Kasper, Die Kirche Jesu Christi – auf dem Weg zu einer Communio-Ekklesiologie, in id., Die Kirche Jesu Christi = Gesammelte Schriften., Freiburg i. Br. 2008, vol. 11, 15-120, cit. 24.

[18] Cfr H. Meyer / H. J. Urban / L. Vischer (edd.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. Sämtliche Berichte und Konsenstexte interkonfessioneller Gespräche auf Weltebene vol. 1, Paderborn 1983; vol. 2, Paderborn 1992; vol. 3 Paderborn 2003.

[19] W. Kasper, Harvesting the Fruits. Basic Aspects of Christian Faith in Ecumenical Dialogue, Londra 2009.

[20] Unitatis redintegratio, n. 1.

[21] Cfr. B. J. Hilberath / W. Pannenberg (Hrsg.), Zur Zukunft der Ökumene. Die “Gemeinsame Erklärung zur Rechtfertigungslehre”  (Regensburg 1999); E. Pulsfort / R. Hanusch (ed.), Von der “Gemeinsamen Erklärung” zum “Gemeinsamen Herrenmahl”? Perspektiven der Ökumene im 21. Jahrhundert (Regensburg 2002).

[22] Dichiarazione congiunta sulla giustificazione per fede, n. 43.

[23] « Avec la signature du Document, nous avons atteint une pierre milliaire mais nous ne sommes pas parvenus au terme du chemin. La pleine unité visible des chrétiens et leur communion n’est pas encore un fait.» Così W. Kasper, Un motif d’Espérance: La Déclaration commune sur la doctrine de la Justification, in id., L’Espérance est possible, Langres 2002, 59-76, cit. 70.

[24] Cfr K. Lehmann, Einig im Verständnis der Rechtfertigungsbotschaft? Erfahrungen und Lehren im Blick auf die gegenwärtige ökumenische Situation, Bonn 1998; J. Ratzinger, Wie weit trägt der Konsens über die Rechtfertigungslehre?, in Communio. Internationale Katholische Zeitschrift 29, 2000, 424-437; Th. Schneider und G. Wenz (edd.), Gerecht und Sünder zugleich? Ökumenische Klärungen, Freiburg i. Br. / Göttingen 2001.

[25] W. Kasper, Situation und Zukunft der Ökumene, in Theologische Quartalschrift 181, 2001, 175-190, cit. 186.

[26] Cfr. M. Gagliardi (ed.), La Dichiarazione Dominus Iesus a dieci anni dalla promulgazione (Torino 2010).

[27] Cfr G. L. Müller (ed.), Die Heilsuniversalität Christi und der Kirche. Originaltexte und Studien der römischen Glaubenskongregation zur Erklärung “Dominus Jesus”, Würzburg 2003 ; Ch. Kardinal Schönborn, “Dominus Iesus” und der interreligiöse Dialog, in: E. Kapellari / H. Schambeck (ed.), Diplomatie im Dienst der Seelsorge. Festschrift für Nuntius Erzbischof Donato Squicciarini (Graz 2002) 113-123; M. Stickelbroeck, Christus und die Religionen. Der Anspruch der christlichen Offenbarung im Hinblick auf die Religionen der Welt, in J. Kreiml (ed.), Christliche Antworten auf die Fragen der Gegenwart. Grundlinien der Theologie Papst Benedikts XVI, Regensburg 2010, 66-103.

[28] Cfr M. J. Rainer (ed.), “Dominus Jesus”. Anstössige Wahrheit oder anstössige Kirche? Dokumente, Hintergründe, Standpunkte und Folgerungen, Münster 2001.

[29] Papa Benedetto XVI vede in questa definizione, che comunque può essere sempre migliorata, il tentativo di “cogliere la particolarità della cristianità protestante e di esprimerla in positivo”. Secondo il Concilio Vaticano II, infatti, “la Chiesa in senso proprio sta […] là dove esiste l’episcopato nella successione sacramentale degli apostoli e con ciò l’Eucaristia come sacramento celebrato dal vescovo e dai sacerdoti”. Dove questo manca, “c’è un’altra realtà, un nuovo modo di intendere la Chiesa”. Il termine “comunità ecclesiale” vuole dunque indicare che “sono Chiese in maniera diversa; che non sono, come esse stesse affermano, Chiese inserite nella grande tradizione antica, bensì scaturite da una nuova concezione”. Cfr. Benedetto XVI, Luce del Mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald (Città del Vaticano, 2010) 140.

[30] Die Bekenntnisschriften der evangelisch-lutherischen Kirche, Göttingen 1976, 459.

[31] W. Brandmüller, Die Reformation Martin Luthers in katholischer Sicht, in id., Licht und Schatten. Kirchengeschichte zwischen Glaube, Fakten und Legenden, Augsburg 2007, 102-120, cit. 111.

[32] WA 50, 625.

[33] Briefwechsel mit Adolf v. Harnack und ein Epilog, in E. Peterson, Theologische Traktate = Ausgewählte Schriften I, Würzburg 1994, 175-194, cit. 182.

[34] K. Barth, Einführung in die evangelische Theologie, Zürich 1962, 35.

[35] E. Przywara, Römische Katholizität – All-christliche Ökumenizität, in J. B. Metz et al.. (ed)., Gott in Welt. Festgabe für Karl Rahner, Freiburg i. Br. 1964, vol. II, 524-528.

[36] W. Kasper, Situation und Zukunft der Ökumene, in: Theologische Quartalschrift 181 (2001) 175-190, cit. 185.

[37] J. Ratzinger, Das Konzil auf dem Weg. Rückblick auf die zweite Sitzungsperiode des Zweiten Vatikanischen Konzils, Cologna 1964, 51.

[38] J. Ratzinger, Einleitung, in Konstitution über die Kirche. Lateinisch-Deutsch, Münster 1966, 7-19, soprattutto 12-13.

[39] J. Ratzinger, Die Ekklesiologie der Konstitution Lumen gentium, in id., Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio, Augsburg 2002, 107-131, cit. 127.

[40] Cfr K. Koch, Dass alle eins seien. Ökumenische Perspektiven, Augsburg 2006, soprattutto Capitolo II: Systematische Verortung des ökumenischen Kernproblems.

[41] Cfr J. Oeldemann, Orthodoxe Kirchen im ökumenischen Dialog. Positionen, Probleme, Perspektiven, Paderborn 2004.

[42] Cfr.  Ch. Lange / K. Pinggéra (ed.), Die altorientalischen Kirchen. Glaube und Geschichte (Darmstadt 2010); A. Nichols, Rome and the Eastern Churches. A Study in Schism (San Francisco 2010).

[43] All’interno dell’ortodossia, alcuni autori si dichiarano favorevoli ad un ampliamento della coscienza ecclesiale, come ad esempio il teologo ortodosso russo A. Schmemann, in Eucharistie. Sakrament des Gottesreiches (Einsiedeln 2005) 137: “Kirche ist nicht nur <quantitativ>, sondern auch <qualitativ> und ontologisch mehr als die Pfarrei; und die Pfarrei ist Kirche nur soweit sie an der Fülle der Kirche teilhat, sich selbst <transzendiert> und ihre innere und natürliche Selbstzentriertheit und Verengung auf alles spezifisch <Lokale> überwindet.”

[44] W. Kasper, Einheit und Vielfalt der Aspekte der Eucharistie. Zur neuerlichen Diskussion um Grundgestalt und Grundsinn der Eucharistie, in id., Theologie und Kirche, Mainz 1987, 300-320, cit. 316.

[45] J. Ratzinger / Benedetto XVI, Gottes Projekt. Nachdenken über Schöpfung und Kirche, Regensburg 2009, 108.

[46] W. Kasper, Ökumene zwischen Ost und West. Stand und Perspektiven des Dialogs mit den orthodoxen Kirchen, in Stimmen der Zeit 128, 2003, 151-164, cit. 157.

[47] Cfr. A. Garuti, Patriarca d’Occidente? Storia e attualità (Bologna 2007); N. Bux / A. Garuti, Pietro ama e unisce. La responsabilità personale del papa per la Chiesa universale (Bologna 2006).

[48] J. Ratzinger, Briefwechsel zwischen Metropolit Damaskinos und Joseph Cardinal Ratzinger, in id., Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio, Augsburg 2002, 187-209, cit. 203.

[49] B. Forte, Il primato nell’eucaristia. Considerazioni ecumeniche intorno al ministero petrino nella Chiesa, in Asprenas 23, 1976, 391-410. Cfr anche A. Garuti, Ecclesiologia Eucaristica e primato del Vescovo di Roma, in R. Karwacki (ed.), Benedictus qui venit in Nomine Domini, Radom 2009, 455-472.

[50] A proposito di questa controversia tra il Cardinale Kasper ed il Cardinale Ratzinger (dal 1999 al 2001), che è risultata in un considerevole riavvicinamento delle posizioni, cfr. K. Koch, Der Bischof als Bindeglied der Katholizität. Die episkopale Dimension der katholischen Ekklesiologie, in G. Augustin (ed.), Die Kirche Jesu Christi leben, Freiburg i. Br. 2010, 56-107, soprattutto 80-85. Sul tema in generale, cfr. A. Buckenmaier, Universale Kirche vor Ort. Zum Verhältnis von Universalkirche und Ortskirche, Regensburg 2009.

[51] Cfr G. Martzelos, Der theologische Dialog zwischen der Orthodoxen und der Römisch-katholischen Kirche: Chronik – Bewertung – Aussichten, in K. Nikolakopoulos (ed.), Benedikt XVI. und die Orthodoxe Kirche. Bestandesaufnahmen, Erwartungen, Perspektiven, St. Ottilien 2008, 289-327.

[52] Cfr W. Kasper (ed.), Il ministero petrino. Cattolici e ortodossi in dialogo, Roma 2004.

[53] J. Ratzinger, Briefwechsel zwischen Metropolit Damaskinos und Joseph Cardinal Ratzinger, in id., Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio, Augsburg 2002, 187-209, cit. 205.

[54] Come letture introduttive, si vedano: A. Elli, Breve storia delle Chiese Cattoliche Orientali (Milano 2010); P. G. Gianazza, Cattolici di rito orientale e Chiesa Latina in Medio Oriente (Bologna 2010); H. Legrand et G. M. Croce, L’Oeuvre d’Orient. Solidarités anciennes et nouveaux défis (Paris 2010); A. O’Mahony and J. Flannery (Ed.), The Catholic Church in the contemporary Middle East (London 2010).

[55] Orientalium ecclesiarum, n. 24.

[56] Ibid, n. 30a.

[57] Cfr W. Kasper, L’Orthodoxie et l’Église catholique. A 40 ans du Décret sur l’œcuménisme “Unitatis redintegratio”, in La Documentation catholique 86, 2004, 315-323.

[58] È sicuramente positivo il fatto che la dimensione trans-comunitaria e universale della Chiesa venga riscoperta sempre più spesso da teologici appartenenti alla tradizione protestante, come Wolfhart Pannenberg e Gunther Wenz, con chiaro riferimento alla celebrazione eucaristica. Cfr W. Pannenberg, Kirche als Gemeinschaft der Glaubenden, in id., Kirche und Ökumene = Beiträge zur Systematischen Theologie, Göttingen 2000, vol. 3, 11-22; G. Wenz, Communio Ecclesiarum, in F. W. Graf / D. Korsch (ed.), Jenseits der Einheit. Protestantische Ansichten der Ökumene, Hannover 2001, 111-124. Questa visione non è comunque rappresentativa dell’odierna ecclesiologia protestante.

[59] J. Ratzinger, Vorwort zur Neuauflage von Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, St. Ottilien 1992, XIV.

[60] Cfr K. Koch, Eucharistie und Kirche in ökumenischer Perspektive, in Schweizerische Kirchenzeitung 171, 2003, 619-631 und 640-649. Cfr anche K. Lehmann, Einheit der Kirche und Gemeinschaft im Herrenmahl. Zur neueren ökumenischen Diskussion um Eucharistie- und Kirchengemeinschaft, in Th. Söding (ed.), Eucharistie. Positionen katholischer Theologie, Regensburg 2002, 141-177.

[61] J. Ratzinger, Das geistliche Amt und die Einheit der Kirche, in: id., Das neue Volk Gottes. Entwürfe zur Ekklesiologie (Düsseldorf 1969) 105-129, cit. 106.

[62] Martin Lutero si è difeso contro l’accusa di aver abbandonato la Chiesa antica e di aver fondato una nuova Chiesa nel suo scritto “Wider Hans Worst”, nel quale sottolinea: “siamo rimasti nella vera e antica Chiesa, noi siamo la vera e antica Chiesa” e formiamo “un unico Corpo e un’unica comunità con tutta la santa Chiesa cristiana”. Nel quarto libro della sua “Institutio”, Giovanni Calvino espone una simile argomentazione. L’ecumenista protestante W. Pannenberg ha osservato a giusto titolo che i riformatori volevano il rinnovamento dell’unica Chiesa e non una nuova Chiesa e che pertanto l’emergere di nuove chiese non rappresenta il successo, ma l’insuccesso della Riforma, in quanto la realizzazione della Riforma si compirebbe in realtà solo nel ristabilimento ecumenico dell’unità della Chiesa. Cfr W. Pannenberg, Reformation und  Einheit der Kirche, in: id., Kirche und Ökumene = Beiträge zur Systematischen Theologie. Band 3 (Göttingen 2000) 173-185. Analogo è il giudizio del teologo protestante G. Wenz: “La riforma dell’unica Chiesa secondo il criterio del Vangelo riscoperto della giustificazione del peccatore e non l’istituzione di Chiese confessionali separate era lo scopo originario della Riforma. Cfr G. Wenz, Konfessionelle Theologie? Ökumenische Notizen aus protestantischer Perspektive, in: id, Grundfragen ökumenischer Theologie. Vol 1 (Göttingen 1999) 17-34, cit. 19.

[63] Cfr W. Kasper, Ökumenisch von Gott sprechen?, in I. Dalferth et al. (ed.), Denkwürdiges Geheimnis. Beiträge zur Gotteslehre. Festschrift für Eberhard Jüngel zum 70. Geburtstag, Tübingen 2004, 291-302, cit. 302.

[64] W. Kasper, Harvesting the Fruits. Basic Aspects of Christian Faith in Ecumenical Dialogue, Londra 2009, 48-158: Chapter Three: The Church.

[65] H. Meyer, Stillstand oder Kairos? Zur Zukunft des evangelisch/katholischen Dialogs, in: id., Versöhnte Verschiedenheit. Aufsätze zur ökumenischen Theologie III (Frankfurt a. M. / Paderborn 2009) 132-144.

[66] Cr W. Kasper, Kircheneinheit und Kirchengemeinschaft in katholischer Sicht. Eine Problemskizze, in K. Hillenbrand / H. Niederschlag (ed.), Glaube und Gemeinschaft. Festschrift für Paul-Werner Scheele zum 25jährigen Konsekrationsjubiläum, Würzburg 2000, 100-117.

[67] Cfr G. Hintzen / W. Thönissen, Kirchengemeinschaft möglich? Einheitsverständnis und Einheitskonzepte in der Diskussion, Paderborn 2001.

[68] F. W. Graf und D. Korsch, ׂJenseits der Einheit: Reichtum der Vielfalt. Der Widerstreit der ökumenischen Bewegungen und die Einheit der Kirche, in id. (ed.), Jenseits der Einheit. Protestantische Einsichten der Ökumene, Hannover 2001, 9-33, cit. 25.

[69] Cfr K. Koch, Kirchengemeinschaft oder Einheit der Kirche? Zum Ringen um eine angemessene Zielvorstellung der Ökumene, in P. Walter et al. (ed.), Kirche in ökumenischer Perspektive. Kardinal Walter Kasper zum 70. Geburtstag, Freiburg i. Br. 2003, 135-162.

[70] Cfr H. Meyer, ׂZur Entstehung und Bedeutung des Konzeptes „Kirchengemeinschaft“. Eine historische Skizze aus evangelischer Sicht, in J. Schreiner und K. Wittstadt (ed.), Communio Sanctorum. Einheit der Christen – Einheit der Kirche. Festschrift für Paul-Werner Scheele, Würzburg 1988, 204-230.

[71] W. Lohff, Die Konkordie reformatorischer Kirchen in Europa: Leuenberger Konkordie, Frankfurt a. M. 1985, n. 12.

[72] W. Hüffmeier, Kirchliche Einheit als Kirchengemeinschaft – Das Leuenberger Modell, in F. W. Graf und D. Korsch (ed.), Jenseits der Einheit. Protestantische Einsichten der Ökumene, Hannover 2001, 54.

[73] J. Ratzinger, Luther und die Einheit der Kirchen, in id., Kirche, Ökumene und Politik. Neue Versuche zur Ekklesiologie, Einsiedeln 1987, 97-127, cit. 114.

[74] P. Neuner, Das Dekret über die Ökumene Unitatis Redintegratio, in F. X. Bischof / St. Leimgruber (ed.), Vierzig Jahre II. Vatikanum. Zur Wirkungsgeschichte der Konzilstexte, Würzburg 2004, 117-140, cit. 139.

[75] P. Neuner / B. Kleinschwärzer-Meister, Ein neues Miteinander der christlichen Kirchen. Auf dem Weg zum Ökumenischen Kirchentag in Berlin 2003, in Stimmen der Zeit 128, 2003, 363-375, cit. 373.

[76] Cfr M. Eham, Gemeinschaft im Sakrament? Die Frage nach der Möglichkeit sakramentaler Gemeinschaft zwischen katholischen und nichtkatholischen Christen. Zur ekklesiologischen Dimension der ökumenischen Frage. Zwei Bände, Frankfurt a. M. 1986; G. Hintzen, Zum Thema “Eucharistie und Kirchengemeinschaft”, Paderborn 1990.

[77] P.-W. Scheele, Eucharistie und Kirche gehören zusammen, in Die Tagespost 59, 20 maggio 2003, 3.

[78] Questo concetto ecumenico è stato argomentato in maniera audace da E. Jüngel sulla base della teologia trinitaria. Egli intende l’unità del Dio Trino in maniera ontologica-relazionale come una comunione di reciproca alterità e, di conseguenza, concepisce in maniera analoga l’unità della Chiesa come “Wesengemeinschaft gegenseitigen Andersseins” (“intima comunione di reciproca alterità”), di modo che vede addirittura nella sussistenza trinitaria dell’unico Essere divino nelle tre Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo il legittimo fondamento dell’argomento della sussistenza dell’unica Chiesa di Gesù Cristo nelle varie chiese confessionali. Cfr. E. Jüngel, Der Glaube an die Einheit der Kirche, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung del 31 ottobre 2007. Questa analogia va giudicata come audace, poiché la molteplicità delle chiese confessionali si fonda sulle divisioni dovute alla colpa umana, divisioni che non possono certamente essere intese come il riflesso della riconciliazione tra unità e diversità presente nella comunione trinitaria.

[79] J. Ratzinger, Luther und die Einheit der Kirchen, in id., Kirche, Ökumene und Politik. Neue Versuche zur Ekklesiologie, Einsiedeln 1987, 97-127, cit. 114.

[80] B. Neumann, “Nehmt einander an, wie auch Christus uns angenommen hat” (Röm 15. 7). Bausteine zu einer Spiritualität der Ökumene, in Geist und Leben 76, 2003, 182-196, cit. 183.

[81] Cfr. K. Koch, Bleibende Aufgaben für die Ökumene aus katholischer Sicht, in: W. Thönissen (Hrsg.), “Unitatis redintegratio”. 40 Jahre Ökumenismusdekret – Erbe und Auftrag (Paderborn – Frankfurt a. M. 2005) 287-315.

[82] Cfr W. Welsch, Unsere postmoderne Moderne, Weinheim 1987.

[83] Cfr W. Kasper, Die Kirche angesichts der Herausforderungen der Postmoderne, in id., Theologie und Kirche, Mainz 1999, vol. 2, 249-264, soprattutto 252-255: Absage an das Einheitspostulat: Der pluralistische Grundzug der Postmoderne, cit. 253.

[84] Cfr R. Schwager, Christus allein? Der Streit um die pluralistische Religionstheologie, Freiburg i. Br. 1996.

[85] K. Koch, Glaubensüberzeugung und Toleranz. Interreligiöser Dialog in christlicher Sicht, in Zeitschrift für Missionswissenschaft und Religionswissenschaft 92, 2008, 196-210.

[86] Cfr M. N. Ebertz, Aufbruch in der Kirche. Anstösse für ein zukunftsfähiges Christentum, Freiburg i. Br. 2003, 17.

[87] W. Kasper, Sakrament der Einheit. Eucharistie und Kirche, Freiburg i. Br. 2004, 122.

[88] W. Kasper, Neue Evangelisierung als theologische, pastorale und geistliche Herausforderung, in id., Das Evangelium Jesu Christi = Gesammelte Schriften, Freiburg i. Br. 2009, vol. 5,  243-317, cit. 269.

[89] Benedetto XVI, Motu proprio “Ubicumque et semper”.

[90] Cfr K. Koch, Die Gottesfrage in Gesellschaft und Kirche, in G. Augustin / K. Krämer (ed.), Gott denken und bezeugen. Festschrift für Kardinal Walter Kasper zum 75. Geburtstag, Freiburg i. Br. 2008, 481-503.

[91] Cfr. H. Moll, Martyrium und Wahrheit. Zeugen Christi im 20. Jahrhundert (Weilheim-Bierbronnen 2009); P.-W. Scheele, Zum Zeugnis berufen. Theologie des Martyriums (Würzburg 2008).

[92] Cfr. R. Backes, “Sie werden euch hassen”. Christenverfolgung heute (Augsburg 2005); Kirche in Not (ed.), Religionsfreiheit weltweit. Bericht 2008 (Königstein 2008).

[93] M. Klingberg (ed.), Märtyrer 2008. Das Jahrbuch der Christenverfolgung heute (Bonn 2008).

[94] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, N. 1.

[95] Cfr W. Pannenberg, Entwicklung und (Zwischen-)Ergebnisse der ökumenischen Bewegung seit ihren Anfängen, in H. Fries et al., Das Ringen um die Einheit der Christen. Zum Stand des evangelisch-katholischen Dialogs, Düsseldorf 1983, soprattutto 17-20.

[96] W. Pannenberg, Eine geistliche Erneuerung der Ökumene tut not, in K. Froehlich (ed.), Ökumene. Möglichkeiten und Grenzen heute. Festschrift für O. Cullmann, Tübingen 1982, 112-123, cit. 118 und 120.

[97] Cfr. K. Koch, Rediscovering the soul of the whole ecumenical movement (UR 8). Necessity and perspectives of an ecumenical spirituality, in: The Pontifical Council for Promoting Christian Unity (Ed.), Information Service Nr. 115 (2004) 31-39.

[98] Unitatis redintegratio, n. 8.

[99] W. Kasper, Wegweiser Ökumene und Spiritualität, Freiburg i. Br. 2007.

[100] Benedetto XVI., Udienza generale, 20 gennaio 2010.

[101] Cfr W. Pannenberg, Die Ökumene als Wirken des Heiligen Geistes, in St. Leimgruber (ed.), Gottes Geist bei den Menschen. Grundfragen und spirituelle Anstösse, München 1999, 68-77.