2022 ASSEMBLEA PLENARIA
PROLUSIO DEL CARDINALE PRESIDENTE

 

VERSO UNA CELEBRAZIONE ECUMENICA DEL 1700° ANNIVERSARIO DEL CONSIGLIO DI NICEA (325-2025)

 

Kurt Cardinale Koch

 

1. Prospettive ecumeniche del Concilio di Nicea

Il movimento ecumenico non è una strada regale, che, larga e spaziosa, conduce direttamente a un lieto futuro. Oltre alla via principale, conosce strade secondarie, deviazioni e impasse. Certamente, sperimenta anche tempi particolarmente favorevoli. Un momento ecumenico memorabile sarà di sicuro l’anno 2025, quando tutta la cristianità celebrerà il 1700° anniversario del primo Concilio ecumenico  della storia della Chiesa, avvenuto nel 325 a Nicea. Questo importante evento presenta prospettive ecumeniche significative, già intuibili dal fatto che sia la Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio Ecumenico delle Chiese, sia il Patriarca ecumenico Bartolomeo I siano intensamente impegnati nei preparativi di tale ricorrenza. Quattro aspetti in particolare sono di forte rilevanza ecumenica.

 

a) La confessione cristologica comune

Il Concilio affrontò innanzitutto questioni dottrinali, come mostra in particolare la “Dichiarazione dei 318 Padri”, e più precisamente il credo che professa Gesù Cristo come Figlio di Dio, “consustanziale al Padre”. Naturalmente, questa formula può essere compresa soltanto alla luce della violenta disputa divampata nel cristianesimo in quel tempo, principalmente nella parte orientale dell’Impero Romano, una disputa che ruotava intorno alla questione di come conciliare la confessione di fede cristiana in Gesù Cristo quale Figlio di Dio con la fede altrettanto cristiana in un unico Dio. Tale diatriba testimonia che, all’inizio del IV secolo, la questione cristologica era diventata un “caso problematico del monoteismo cristiano”[1].

Soprattutto il teologo alessandrino Ario propugnava un rigido monoteismo conforme al pensiero filosofico del tempo, secondo il quale Cristo non può essere “Figlio di Dio” in senso proprio, ma solo un essere intermedio che Dio usa nel relazionarsi all’essere umano. Il Concilio di Nicea condannò aspramente questa posizione, come si legge nella sua lettera agli egiziani: “Si è deciso all’unanimità di condannare con anatema la sua dottrina contraria alla fede, le sue affermazioni e le sue descrizioni blasfeme, con le quali oltraggiava il Figlio di Dio.” Per dirimere la controversia ariana, i Padri conciliari rifiutarono quindi il modello del monoteismo strettamente filosofico propagato da Ario, confermando il credo secondo cui Gesù Cristo, come Figlio di Dio, è “consustanziale al Padre”. Questa confessione è diventata la base della comune fede cristiana, essendosi svolto il Concilio di Nicea in un’epoca in cui la cristianità non era stata ancora lacerata dai numerosi scismi che si sarebbero verificati in seguito.

Il credo cristologico di Nicea rappresenta una tappa importante, anche se non ancora definitiva, sulla via verso il grande credo di Nicea-Costantinopoli del 381. Di fatti, pur definendo la fede in Gesù Cristo, il Concilio di Nicea menzionò solo in termini generali la fede nello Spirito (“e nello Spirito Santo”). Soltanto con il Concilio di Costantinopoli si giunse a circoscrivere il contenuto della confessione di fede nello Spirito Santo e a formulare così il dogma della Divina Trinità come forma specificamente cristiana del monoteismo. Ma il simbolo di Costantinopoli è da intendersi come una formula vincolante della fede di Nicea, che trovò dunque la sua forma definitiva nel simbolo di Costantinopoli.

Questa confessione di fede non va sottovalutata nella sua importanza ecumenica, perché è condivisa non solo dalle Chiese orientali, dalle Chiese ortodosse e dalla Chiesa cattolica, ma è comune anche alle comunità ecclesiali nate dalla Riforma. Ciò è dimostrato anche e soprattutto dalla Confessio Augustana del 1530, che vede il suo credo radicato nelle decisioni conciliari della Chiesa primitiva e sostiene quindi che in esso non c’è nulla “che si discosti dalla Sacra Scrittura, dal credo della Chiesa universale e romana, come lo conosciamo dagli autori cristiani”[2]. Questa affermazione è di fondamentale rilevanza ecumenica, poiché il ripristino dell’unità della Chiesa richiede il consenso sul contenuto essenziale della fede, non solo tra le Chiese e le Comunità ecclesiali di oggi, ma anche tra la Chiesa di oggi e la Chiesa del passato e soprattutto la sua origine apostolica. Come ha sottolineato il teologo protestante Wolfhart Pannenberg, il credo niceno-costantinopolitano è legato in modo speciale “a una pretesa di validità nella Chiesa universale ed è stato accolto anche dalla Chiesa primitiva come vincolante per tutti i cristiani”[3]. Esso rappresenta quindi il vincolo ecumenico più forte della fede cristiana. Pertanto, è auspicabile che il 1700° anniversario del Concilio di Nicea venga celebrato congiuntamente da tutte le Chiese e le Comunità ecclesiali cristiane, e che la sua confessione cristologica venga riaffermata nella comunione ecumenica.

Occuparsi del Concilio di Nicea è importante non solo dal punto di vista storico. La sua confessione cristologica conserva anche e precisamente oggi la sua permanente attualità, sia nella situazione ecumenica sia all’interno della nostra Chiesa, dove lo spirito di Ario è tornato ad essere molto presente e dove è osservabile un forte risveglio delle tendenze ariane. Già negli anni ‘90, il cardinale Joseph Ratzinger ravvisava la vera sfida del cristianesimo contemporaneo in un “nuovo arianesimo” o, quantomeno, in un “nuovo nestorianesimo, abbastanza pronunciato”[4] Tali tendenze ariane si manifestano soprattutto nel fatto che diverse persone, persino tra i cristiani, sono sensibili a tutti gli aspetti dell’umanità di Gesù di Nazaret, ma hanno difficoltà nell’accogliere in pieno la fede cristologica della Chiesa, in quanto vedono come problematico il credo secondo cui questo Gesù è l’unigenito Figlio di Dio, presente in mezzo a noi come il Risorto. Anche nella Chiesa spesso non si riesce più a scorgere oggi il volto del Figlio di Dio nell’uomo Gesù, nel quale si riconosce soltanto un essere umano, seppur eccezionale e particolarmente buono.

In questa situazione in cui, anche nella cristianità odierna, dobbiamo costatare un’arianizzazione della fede in Cristo e, con essa, un inquietante svuotamento di significato della fede cristiana in Gesù come il Cristo nel quale Dio stesso si è fatto uomo, è urgente, per rinnovare la confessione cristologica, come ha sottolineato energicamente il cardinale Joseph Ratzinger, che la cristologia abbia il coraggio di “vedere Cristo in tutta la sua grandezza, come lo mostrano insieme i quattro vangeli nella loro dinamica unità”[5]. Dobbiamo quindi augurarci che il 1700° anniversario del Concilio di Nicea venga colto come un’occasione cairologica per riaffermare nella comunione ecumenica la sua confessione cristologica.

 

b) La questione cruciale della data di Pasqua

Oltre alla confessione cristologica, il Concilio di Nicea si occupò di questioni disciplinari e canoniche, che, presentate in venti canoni, offrono una buona panoramica dei problemi e delle preoccupazioni pastorali della Chiesa all’inizio del IV secolo. Si tratta di questioni che riguardano il clero, i conflitti giurisdizionali, i casi di apostasia e la situazione dei Novaziani, i cosiddetti “puri”, e dei seguaci di Paolo di Samosata.

La questione pastorale più importante e insieme più attuale è quella della data di Pasqua[6], che dimostra che la data di Pasqua era già controversa nella Chiesa primitiva e che quindi esistevano datazioni diverse. Alcuni cristiani, specialmente in Asia Minore, celebravano la Pasqua il 14 del mese di nisan, in concomitanza con la Pasqua ebraica, indipendentemente dal giorno della settimana; essi furono quindi chiamati quartodecimani. Altri cristiani definiti proto-paschisti, soprattutto in Siria e in Mesopotamia, celebravano invece la Pasqua la domenica successiva alla Pascha ebraica. È merito del primo Concilio ecumenico di Nicea l’aver saputo regolamentare in maniera uniforme la questione: “Tutti i fratelli e le sorelle d’Oriente che fino a oggi hanno celebrato la Pasqua con gli ebrei, d’ora in poi celebreranno la Pasqua in accordo con i romani, con voi e con tutti noi che l´abbiamo celebrata con voi fin dai primi tempi”. Purtroppo con questa decisione venne abbandonata la data comune di Pasqua tra cristiani ed ebrei, e fu fissata la celebrazione della Pasqua cristiana nella domenica dopo la prima luna piena di primavera, e quindi dopo la Pasqua ebraica.

In riferimento alla data di Pasqua, si verificò una nuova situazione nella storia del cristianesimo con la fondamentale riforma del calendario operata nel XVI secolo da Papa Gregorio XIII, che introdusse il calendario gregoriano, secondo il quale la Pasqua si celebra sempre la domenica successiva al primo plenilunio di primavera. Mentre le Chiese in Occidente calcolano la data di Pasqua secondo questo calendario, le Chiese in Oriente celebrano ancora la Pasqua secondo il calendario giuliano, che fu usato in tutta la Chiesa prima della riforma del calendario gregoriano e sul quale si era basato anche il Concilio di Nicea del 325.

Nel frattempo, sono state avanzate e discusse diverse proposte per una data comune di Pasqua. Il 1700° anniversario del Concilio di Nicea offre un’occasione speciale per riprendere questa tematica, tanto più che nel 2025 le Chiese in Oriente e in Occidente potranno nuovamente celebrare insieme la Pasqua nello stesso giorno, ovvero il 20 aprile. È dunque comprensibile che si sia risvegliato il desiderio di cogliere questo grande anniversario come un’opportunità per promuovere gli sforzi verso una comune Pasqua cristiana. Papa Francesco e Papa Tawadros II, il Patriarca copto-ortodosso, si sono espressi più volte in questa direzione.

Lo sforzo per trovare una data comune di Pasqua non è solo una priorità pastorale. Essa testimonierebbe infatti in modo più credibile la profonda convinzione della fede cristiana secondo cui la Pasqua è la festa più antica e importante della cristianità, e la fede cristiana sta o cade con la Pasqua, come la Chiesa primitiva riassumeva questa convinzione fondamentale con la frase concisa: “Togli la risurrezione, e distruggi all’istante il cristianesimo.”[7] La rilevanza cruciale della Pasqua sarebbe messa in evidenza da una data comune, che rafforzerebbe anche il cammino ecumenico verso il ripristino dell’unità della Chiesa in Oriente e in Occidente, nella fede e nell’amore.

 

c) La teoria e la prassi della sinodalità

Poiché nel Concilio di Nicea fu risolta la violenta disputa ariana intorno alla confessione cristologica e fu definita la questione pastorale-disciplinare della data di Pasqua, il Concilio testimonia anche il modo in cui vengono discusse e decise in maniera sinodale questioni controverse di fede e di disciplina nella Chiesa. Pertanto, il Concilio ha un’ulteriore importanza ecumenica, soprattutto quando si considera che vi si radunarono i primi servi di Dio “di tutte le Chiese di tutta Europa, Africa e Asia”, come riporta l’autore cristiano Eusebio di Cesarea, che fu uno dei padri conciliari e che vide nel Concilio di Nicea una nuova “Pentecoste”[8]. È quindi possibile ravvisare nel Concilio di Nicea, al livello della Chiesa universale, l’inizio della modalità sinodale di prendere decisioni nella Chiesa.

A ciò si riferisce già la parola stessa “sinodo”. “Sinodo” contiene i termini greci “hodos” (cammino) e “syn” (con), ed esprime il fatto che un cammino viene percorso insieme. Nell’accezione cristiana, la parola “sinodo” designa la via comune di coloro che credono in Gesù Cristo, il quale ha rivelato e chiamato se stesso “via”, e più precisamente “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). All’origine, la religione cristiana era quindi designata come “via” e i cristiani nella sequela di Cristo erano detti “seguaci della Via” (At 9,2). In questo senso, Giovanni Crisostomo poté affermare che Chiesa è un nome “che significa un cammino comune” e che, pertanto, Chiesa e sinodo sono “sinonimi”[9]. La parola “sinodalità” è quindi tanto antica e fondamentale quanto la parola “Chiesa”.

Il 1700° anniversario del Concilio di Nicea deve allora essere percepito anche come un invito e un’esortazione a trarre un’importante lezione dalla storia e ad approfondire oggi il pensiero sinodale nella comunione ecumenica, ancorandolo alla vita della Chiesa. Di fatti, anche l’ecumenismo avanza sulla via della ricomposizione dell’unità della Chiesa solo se viene portato avanti in maniera congiunta e, quindi, sinodale. Quanto fondamentale sia la sinodalità anche per l’impegno ecumenico è dimostrato chiaramente da due importanti documenti pubblicati di recente.

Alcuni anni fa, la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese ha pubblicato lo studio “La Chiesa verso una visione comune”, che mira a una visione multilaterale ed ecumenica della natura, dello scopo e della missione della Chiesa. Questo documento presenta la seguente affermazione ecclesiologica ecumenicamente comune: “Tutta la Chiesa è sinodale/conciliare a tutti i livelli della vita ecclesiale – locale, regionale e universale – sotto la guida dello Spirito Santo. Il mistero della vita trinitaria di Dio si riflette nel carattere sinodale o conciliare della Chiesa, e le strutture della Chiesa danno forma a questo carattere per realizzare la vita della comunità come comunione.”[10]

Questo punto di vista è condiviso anche dalla Commissione Teologica Internazionale nel suo documento programmatico “La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa”, dove si constata con gioia che il dialogo ecumenico è progredito sino al punto di riconoscere nella sinodalità una “dimensione rivelatrice della natura della Chiesa”, avvicinandosi alla “concezione della Chiesa come koinonia”, “che si attua in ogni chiesa locale e in relazione alle altre Chiese, attraverso specifiche strutture e processi sinodali”[11].

Entrambi i documenti presentano dimensioni essenziali della sinodalità della Chiesa, dimensioni che necessitano di essere approfondite. La necessità di illustrare e discutere in una prospettiva ecumenica la questione della sinodalità nella Chiesa cattolica è stata sottolineata da Papa Francesco nel 2015, durante il cinquantesimo anniversario della creazione del Sinodo dei Vescovi, istituito da Papa Paolo VI. In tale occasione, il Santo Padre ha affermato che intraprendere ed approfondire il cammino della sinodalità è ciò “che Dio aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”; il Papa ha anche espresso la sua convinzione che lo sforzo di edificare una Chiesa sinodale sia anche “gravido di implicazioni ecumeniche”[12]. Per concretizzare questa priorità nella vita della Chiesa, Papa Francesco ha avviato, al livello della Chiesa universale, il processo sinodale chiamato “Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione”, in cui anche la dimensione ecumenica svolgerà un ruolo di grande rilievo, come si legge nel “Vademecum del Sinodo”: “Il dialogo tra cristiani di diverse confessioni, uniti da un unico battesimo, occupa un posto speciale nel cammino sinodale”[13].

Nel riconoscere l’importanza fondamentale e innovatrice della sinodalità nella Chiesa, occorre tuttavia non idealizzarla, come suggerisce anche e soprattutto uno sguardo al contesto storico del Concilio di Nicea. Ciò traspare con particolare evidenza nella risposta data nel IV secolo da Gregorio di Nazianzo, quando, invitato dall’imperatore a partecipare al I Concilio di Costantinopoli, sostenne: “A dire il vero, credo che si debba fuggire da ogni Concilio di vescovi, poiché non ho mai conosciuto un esito positivo in un Concilio”. Gregorio pronunciò queste parole per i cattivi ricordi che aveva del Concilio di Nicea del 325 e soprattutto del tempo successivo al Concilio, che fu segnato da un grande caos. Un amico di Gregorio, San Basilio, famoso vescovo di Cesarea, paragonò addirittura la situazione postconciliare a una battaglia navale notturna, in cui tutti si battono contro tutti, e osservò che, a seguito delle controversie conciliari, regnavano nella Chiesa “uno spaventoso disordine, una confusione” e “chiacchiere incessanti”[14].

Si tratta certamente di giudizi molto severi, ma che mettono in evidenza un aspetto fondamentale, ricorrente in tutta la storia della Chiesa: i tempi successivi a un Concilio sono stati quasi sempre tempi particolarmente difficili. Quasi tutti i Concili hanno inizialmente provocato turbamenti negli equilibri ecclesiali e sono diventati fattori di profonda crisi. È paradossale, ma non lo si può nascondere: i Concili convocati per riaffermare la fede o per difenderla davanti alle eresie diffuse e quindi per ristabilire l’unità della Chiesa comportano anche elementi di divisione, che si fanno sentire nei tempi post-conciliari. Già dopo il Concilio di Efeso nel 431 si verificò il primo scisma, da cui emerse la Chiesa assira d’Oriente. E dopo il Concilio di Calcedonia del 451, le Chiese che non riconobbero le sue decisioni dottrinali cristologiche, e che chiamiamo Chiese ortodosse orientali, si separarono dalla Chiesa principale. Quanto alla storia recente della Chiesa, ricordiamo che dopo il Concilio Vaticano Primo, verso la fine del XIX secolo, alcuni cattolici, poi definiti veterocattolici, videro una novità pregnante nei due dogmi del Concilio riguardanti il primato della giurisdizione e l’infallibilità del Papa e decisero di rimanere fedeli, come essi stessi dichiararono, alla Chiesa antica. Di fronte a tali eventi storici, non sorprende la difficile situazione verificatasi nella Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano Secondo fino allo scisma del movimento nato intorno all’arcivescovo Marcel Lefebvre.

Naturalmente, questo è solo un lato della medaglia. Uno sguardo alla storia mostra anche che i Concili, e specialmente i grandi Concili del IV e del V secolo, sono diventati importanti fari nella vita della Chiesa e dell’ecumenismo perché hanno indicato la via da percorrere anche nel cuore delle Sacre Scritture. Allo stesso tempo, questa panoramica storica ci fa comprendere che lo sviluppo della sinodalità nella vita della Chiesa e dell’ecumenismo deve essere attuato con accuratezza teologica e prudenza pastorale. Anche questa lezione può essere appresa studiando il Concilio di Nicea.

 

d) Sinodalità e autorità

A ciò si aggiunge un’altra prospettiva, che a prima vista potrebbe essere considerata come secondaria, ma che, anche e soprattutto dal punto di vista ecumenico, è tutt’altro che insignificante: la questione delle autorità che svolsero un ruolo di primo piano nel contesto del Concilio di Nicea. Una delle condizioni storiche è il fatto che questo Concilio fu convocato da un imperatore, e più precisamente dall’imperatore Costantino. L’imperatore ravvisava un grande pericolo per il suo progetto di rafforzare l’unità dell’impero sulla base dell’unità della fede cristiana nella violenta disputa accesasi in quel tempo nella cristianità intorno alla confessione cristologica. Nel rischio imminente di uno scisma all’interno della Chiesa, l’imperatore percepiva dunque, principalmente, un problema politico; d’altro canto, era abbastanza lungimirante da comprendere che l’unità della Chiesa doveva essere realizzata e protetta non in modo politico, ma religioso. Per unire le fazioni avverse, l’imperatore Costantino convocò il Primo Concilio Ecumenico nella città di Nicea in Asia Minore, nelle vicinanze della residenza imperiale di Nicomedia.

La storia successiva mostra che alcuni imperatori promossero l’eresia di Ario. Questo fu in particolare il caso di Costanzo, figlio dell’imperatore Costantino, che perseguì una politica risoluta di rifiuto del credo del Concilio di Nicea e fece persino approvare da un sinodo convocato a Costantinopoli la formula dogmatica che professava Cristo “simile al Padre secondo la Scrittura”. Al contrario, l’imperatore Teodosio, che veniva dall’Occidente, si basò nuovamente sul Concilio di Nicea nella sua politica religiosa e lo confermò come unica base valida per l’unità della Chiesa. Una situazione simile si produsse di nuovo nell’VIII e nel IX secolo nella controversia intorno alle icone, quando alcuni imperatori bizantini si schierarono dalla parte degli iconoclasti e altri difesero i sostenitori delle icone.

A causa di questa costellazione, nella Chiesa in Oriente e in Occidente si sono sviluppate diverse concezioni del rapporto tra Chiesa e Stato. In una storia lunga e complicata, la Chiesa in Occidente ha dovuto imparare e ha imparato che la separazione tra Chiesa e Stato, con un partenariato tra le due realtà, è la forma adeguata del loro rapporto. Al contrario, nella Chiesa in Oriente, si è affermato uno stretto legame tra governo statale e gerarchia ecclesiastica, definito solitamente “sinfonia” tra Stato e Chiesa. Esso trova espressione soprattutto nei concetti ortodossi di autocefalia e territorio canonico, spesso associati a tendenze nazionalistiche.

La “sinfonia” tra Stato e Chiesa caratterizza tuttora la situazione della Chiesa in Oriente; tuttavia, essa è sempre più gravata da pesanti ipoteche, come dimostra oggi la problematica posizione del Patriarca russo ortodosso Kirill davanti alla guerra in Ucraina decisa da Putin. Tale atteggiamento ha giustamente spinto il direttore dell’Istituto per l’Ecumenismo Johann Adam Möhler di Paderborn, Johannes Oeldemann, a chiedersi se questo modello tradizionale sia giunto alla sua fine storica con la guerra in Ucraina: “Il modello ‘bizantino’ di sinfonia tra Stato e Chiesa è screditato dall’atteggiamento del capo della Chiesa russa in misura tale da non potersi più rivelare praticabile nel futuro”[15].

In ogni modo, questa questione va affrontata nei dialoghi ecumenici, non solo con le Chiese ortodosse, ma anche con le Chiese e le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, soprattutto quando esse vedono se stesse come Chiese di Stato, come nel caso, ad esempio, della Chiesa d’Inghilterra e di varie Chiese luterane nel nord Europa. Ricordiamo che questo tipo di rapporto tra Stato e Chiesa ebbe origine con Martin Lutero, che si distanziò dall’autorità del papato romano, cercando sempre più rifugio e sostegno presso le forze politiche e che, con il passare del tempo, non poté più sottrarsi all’influenza dei principi locali, e alla loro strumentalizzazione per interessi personali.

Questi esempi intendono semplicemente mostrare che le varie Chiese hanno sviluppato tradizioni molto diverse nel loro rapporto con lo Stato. Spesso il contesto è quello di controversie all´interno di una stessa comunione ecclesiale, come nel caso di molti conflitti tra diverse Chiese nazionali ortodosse, a volte sullo sfondo di discussioni teologiche e, in particolare, ecclesiologiche, che influiscono anche sulle relazioni ecumeniche. Eppure, la questione del rapporto tra Chiesa e Stato è uno dei temi meno affrontati nei dialoghi ecumenici; essa richiederà un´attenzione ecumenica speciale nel futuro. E dovrà essere inserita all’ordine del giorno tra i temi ecumenici, sulla via verso il grande anniversario del Concilio di Nicea del 2025.

Va da sé che una simile discussione deve essere condotta nel segno della libertà religiosa. In uno spirito di apertura ecumenica, ogni Chiesa è chiamata a rendere conto se il suo rapporto con lo Stato è regolato in modo tale da corrispondere al principio della libertà religiosa. Le Chiese cristiane, nella comunione ecumenica, possono infatti adoprarsi in maniera credibile in favore della libertà religiosa per tutti i cristiani e per tutte le comunità ecclesiali, come per tutte le religioni, soltanto se il loro rapporto con lo Stato è conforme al principio della libertà religiosa.[16]

 

2. Sinodalità e primato

La riflessione sul rapporto tra sinodalità e autorità, nel Concilio di Nicea e nei successivi sviluppi storici all’interno delle diverse tradizioni ecclesiali, ci conduce naturalmente alla questione del rapporto tra sinodalità e primato, in riferimento soprattutto al primato del Vescovo di Roma. A ciò ci fa pensare anche il fatto che già nel Concilio di Nicea l’elenco dei nomi degli oltre 250 vescovi riuniti fu fornito dai legati della Sede Apostolica, che poi confermò anche i decreti conciliari nel processo di compilazione. È importante riconoscere che primato e sinodalità sono inscindibilmente legati. Come Papa Francesco ha più volte sottolineato, non si tratta di due principi in contrapposizione che dovrebbero essere mantenuti in equilibrio, ma di due realtà che si costituiscono e sostengono a vicenda, al servizio della comunione: “Come il primato presuppone l’esercizio della sinodalità, così la sinodalità include l’esercizio del primato.”[17]

 

a) Questioni teologiche nel dialogo con le Chiese d’Oriente

In merito alla questione dell’interazione tra sinodalità e primato in una futura unità della Chiesa, ci sono importanti presupposti comuni nel dialogo con le Chiese d’Oriente. Che il Vescovo di Roma sia “il primo fra pari” è accettato senza problemi anche dall’ortodossia, nella misura in cui essa riconosce che il Vescovo di Roma è il protos, come già stabilito nel Concilio di Nicea. Anche nella visione cattolica, ovviamente, il Vescovo di Roma è “il primo”; in quanto tale, egli ha tuttavia “funzioni e compiti specifici”[18]. Allora sorge spontanea la domanda: in cosa consistono esattamente queste funzioni e questi compiti?

Tale domanda non può essere evitata nel dialogo ecumenico. Come abbiamo visto, nel corso della storia l’imperatore ha svolto un ruolo rilevante nel preservare l’unità della Chiesa, soprattutto nelle assemblee conciliari. Tuttavia, poiché non c’è più un imperatore nella cristianità odierna (e probabilmente solo pochissimi cristiani se ne rammaricano), occorre chiedersi chi può e deve assolvere oggi queste specifiche funzioni. Da un punto di vista ecumenico, si potrebbe presumere che al Vescovo di Roma spetti almeno “quello che fu riconosciuto all’imperatore per lungo tempo, per aspetti di centrale importanza”[19]. Naturalmente, ciò include il fatto che il primato del Vescovo di Roma è da intendersi non solo come un segno rappresentativo di onore e di carità, ma anche come un potente servizio all’unità della Chiesa e quindi come “primato pastorale avente autorità giuridica”[20].

Questa tematica deve essere affrontata e approfondita nel dialogo ecumenico. Tuttavia, passi avanti realmente costruttivi potranno essere realizzati soltanto se entrambi gli interlocutori saranno disposti a imparare gli uni dagli altri. I problemi che dovranno essere discussi con chiarezza sono già stati evidenziati sinteticamente dal gruppo di lavoro cattolico-ortodosso Sant’Ireneo nel suo studio “A servizio della comunità”: “Le Chiese devono soprattutto adoperarsi affinché venga raggiunto un migliore equilibrio tra sinodalità e primato a tutti i livelli della vita ecclesiale, attraverso un rafforzamento delle strutture sinodali nella Chiesa cattolica e attraverso l’accettazione da parte della Chiesa ortodossa di un certo primato all’interno della comunione mondiale delle Chiese.”[21]

Da un lato, la Chiesa cattolica deve ammettere di non aver ancora sviluppato, nella sua vita e nelle sue strutture ecclesiali, quel grado di sinodalità che sarebbe teologicamente possibile e necessario.

Questo vale soprattutto al livello regionale della vita della Chiesa. Essa è fortemente sviluppata nelle Chiese ortodosse, in quanto i Metropoliti continuano a esercitare l’importante responsabilità che competeva loro già nei primi secoli, e in relazione alla quale furono prese decisioni significative già nel Concilio di Nicea e nel Concilio di Costantinopoli. Diversamente, la Chiesa cattolica deve colmare molte carenze al livello regionale delle province ecclesiastiche e delle regioni ecclesiastiche, come ha affermato espressamente Papa Francesco: “Dobbiamo riflettere per realizzare ancor più, attraverso questi organismi, le istanze intermedie della collegialità, magari integrando e aggiornando alcuni aspetti dell’antico ordinamento ecclesiastico.”[22] Alla luce di ciò, risulta evidente che un nesso credibile tra il principio primaziale-gerarchico e il principio sinodale-comunale nella vita della Chiesa cattolica agevolerà notevolmente il futuro dialogo ecumenico con l’ortodossia, come ha affermato giustamente il Cardinale Walter Kasper: “Senza dubbio, il rafforzamento della sinodalità sarebbe il contributo maggiore della Chiesa cattolica al riconoscimento del primato.”[23]

D’altro canto, ci si può aspettare che, nel dialogo ecumenico, le Chiese ortodosse imparino che un primato, anche al livello universale della Chiesa, non contraddice il principio della sinodalità, ma è teologicamente legittimo e necessario. Le tensioni intra-ortodosse, emerse con particolare evidenza soprattutto prima e durante il “Santo e Grande Sinodo” di Creta del 2016[24], dovrebbero far comprendere la necessità di riflettere su un ministero di unità anche al livello universale della Chiesa, un ministero che dovrà situarsi all’interno di una Chiesa sinodale. Ciò presuppone naturalmente un ripensamento autocritico dei principi ortodossi dell’autocefalia e del territorio canonico, ai quali spesso sono state, e sono tuttora, associate tendenze nazionalistiche.

Da parte cattolica, dovrebbe essere ulteriormente approfondito un aspetto che non è stato sufficientemente esplorato nei dialoghi ecumenici, ma che risulterà molto proficuo per i futuri sviluppi, ovvero il fatto che il primato del Vescovo di Roma non è solo un’appendice giuridica e ancora meno un’aggiunta puramente esteriore all’ecclesiologia eucaristica, ma si fonda proprio su tale ecclesiologia, in quanto la Chiesa si presenta come una rete mondiale di comunità eucaristiche e necessita pertanto di un potente servizio di unità anche al livello universale.[25] Il primato del Vescovo di Roma, in ultima analisi, è da intendersi proprio alla luce di questa rete eucaristica mondiale, alla quale Papa Benedetto XVI ha sempre fatto riferimento, anche e precisamente da un punto di vista ecumenico.[26]

La radice essenziale del legame inscindibile tra il primato e l’Eucaristia si trova già nel Nuovo Testamento, in quanto, nel Vangelo di Luca, Gesù conferisce a Pietro il compito speciale di rafforzare i suoi fratelli proprio durante l’Ultima Cena (cfr. Lc 22,32), che rappresenta anche il fondamento del dono dell’Eucaristia alla Chiesa. Poco tempo dopo, anche sant’Ignazio d’Antiochia esprime questo legame quando, nella sua lettera ai Romani del 110, descrive la Chiesa di Roma con la sua cattedra del Vescovo come la Chiesa che ha “il primato nell’amore”. Al riguardo, è importante ricordare che nella Chiesa primitiva la parola “amore” – “agape” - si riferiva anche e specificamente al mistero dell’Eucaristia, nella quale si sperimenta con particolare intensità l’amore di Cristo per la sua Chiesa.

In questa luce eucaristica, il Vescovo di Roma adempie la sua speciale responsabilità soprattutto vivendo “il primato nell’amore” e unendo nell’Eucaristia tutte le Chiese locali del mondo in una Chiesa universale, permettendo così di sperimentare la Chiesa come communio ecclesiarum. Il ministero del Vescovo di Roma è quindi da intendersi come un primato nell’amore in senso eucaristico, un primato che mira all’unità nella Chiesa, consente e difende la comunione eucaristica e impedisce in modo credibile ed efficace che un altare si contrapponga a un altro altare, come fu clamorosamente il caso, per citare un esempio storicamente significativo, nella disputa tra Optatus di Milevi e i donatisti[27]. Una simile visione del ministero del Vescovo di Roma evidenzia che la sinodalità e la collegialità sono alimentate dall’Eucaristia, che sinodalità e primato possono vivere in armonia anche al livello universale della vita ecclesiale e che un’ecclesiologia eucaristica e un’ecclesiologia universale non si escludono a vicenda, ma, al contrario, si esigono e si promuovono reciprocamente.

 

b) Sfide ecclesiologiche nel dialogo con le comunità protestanti

Quando si tratta della questione del riconoscimento di un primato del Vescovo di Roma, le condizioni di partenza nei dialoghi ecumenici con le Chiese e le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma sono diverse. Ciò emerge anche dalla costatazione che all’interno del protestantesimo oggi non esiste un consenso sul fatto che possa o debba esserci, per ragioni teologiche, un primato a livello universale della Chiesa. Alcuni teologi, come Wolfhart Pannenberg, considerano teologicamente necessario un servizio all’unità dei cristiani nella fede apostolica, anche al livello della Chiesa universale e in relazione a tutta la cristianità[28]; ma altri riconoscerebbero un ministero unitario al livello universale della Chiesa solo per ragioni pragmatiche, non per ragioni ecclesiologiche; altri ancora ritengono il ministero papale incompatibile con l’ecclesiologia protestante.

Ciò mostra già che il giudizio teologico sulla necessità di un primato al livello universale dipende dalle rispettive ecclesiologie. Mentre teologi come Wolfhart Pannenberg diventano sempre più consapevoli della dimensione sovra-congregazionale e universale dell’essere Chiesa, molti teologi nella tradizione della Riforma individuano nell’assemblea locale dei fedeli la realizzazione prototipica della Chiesa. Ad esempio, secondo il Votum sulla convivenza regolamentata delle Chiese di diverse confessioni, pubblicato dal Consiglio della Chiesa evangelica in Germania con il titolo “Comunione di chiese secondo la visione protestante”, la Chiesa una, santa, apostolica e cattolica esiste “necessariamente nella forma di singole comunità di fedeli”, che sono “la realizzazione primaria della Chiesa cattolica”. Nella misura in cui le singole comunità sono in contatto tra loro, esiste sicuramente una dimensione sovra-comunitaria. Tuttavia, essa è di scarsa rilevanza, il che è ancora più vero per la dimensione universale della Chiesa. Ad esempio, le Federazioni luterane e riformate del mondo sono federazioni di Chiese, ma non sono Chiesa al livello universale: esse sono al massimo in via di trasformazione da Federazioni di Chiese a Comunità di Chiese. In questa ecclesiologia protestante va ravvisato il motivo per cui non esiste una teologia universalmente riconosciuta del ministero del vescovo, nella misura in cui questo ministero è inteso come “un ministero da pastore in una funzione di guida della Chiesa”[29], e certamente non esiste alcuna teologia in merito a un ministero universale della Chiesa. Al fine di promuovere e approfondire il dialogo ecumenico con le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma su un primato al livello della Chiesa universale, è innanzitutto necessario un chiarimento teologico dell’ecclesiologia riguardo al rapporto tra Chiesa locale, regionale e universale.

A ciò si aggiunge un’altra sfida. Poiché, nelle comunità protestanti, è prevista una forte partecipazione dei battezzati, la Chiesa cattolica può imparare molto da loro nel rivitalizzare la dimensione sinodale nella propria Chiesa. Allo stesso tempo, però, sarà bene sottolineare la differenza di fondo tra sinodalità e parlamentarismo: mentre il processo democratico serve principalmente a determinare le maggioranze, la sinodalità è un evento spirituale che mira a trovare, sulla via del discernimento, un’unanimità sostenibile e convincente nella fede e negli stili di vita da essa derivanti del singolo cristiano e della Comunità ecclesiale. Pertanto il sinodo, nelle parole di Papa Francesco, “non è un parlamento, dove per raggiungere un consenso o un accordo comune si ricorre al negoziato, al patteggiamento o ai compromessi, ma l’unico metodo del Sinodo è quello di aprirsi allo Spirito Santo, con coraggio apostolico, con umiltà evangelica e con orazione fiduciosa; affinché sia Lui a guidarci”.[30] Questa dimensione spirituale della sinodalità, in cui il ruolo e il comune ascolto dello Spirito Santo sono di fondamentale importanza, deve essere approfondita nei dialoghi ecumenici.

 

c) La sinodalità paradigmatica nella disponibilità ad imparare ecumenica

Risulta evidente che sinodalità e gerarchia nella vita della Chiesa si esigono e si promuovono a vicenda. È importante che il principio sinodale e il principio gerarchico interagiscano in modo tale da rendere visibile la vera natura della Chiesa, come afferma il teologo dogmatico cattolico Medard Kehl: “La Chiesa cattolica concepisce se stessa come il ‘sacramento della comunione di Dio’; come tale, è la comunità dei credenti uniti dallo Spirito Santo, conformati al Figlio Gesù Cristo, e chiamati dal Padre a entrare nel Regno di Dio insieme a tutta la creazione, una comunità costituita al contempo sinodalmente e ‘gerarchicamente’.”[31] Nella definizione appena menzionata, è di fondamentale importanza il modo in cui viene compreso e attuato questo “al contempo”.

Su come intendere il rapporto tra la vita sinodale della Chiesa e il ministero gerarchico, Cipriano di Cartagine, importante vescovo africano della Chiesa primitiva, fornì chiare indicazioni, che possono essere feconde anche oggi da un punto di vista ecumenico, anche perché risalgono al tempo della Chiesa indivisa: “Nihil sine episcopo, nihil sine consilio presbyterii, nihil sine consensu plebis”[32]. Con questa memorabile formula, Cipriano non solo suggerisce che il ministero del vescovo debba realizzarsi e dar prova di sé in tre modi: sinodale, collegiale e personale; egli prende soprattutto di mira quei comportamenti che vanno esclusi perché mettono in pericolo la fruttuosa convivenza nella Chiesa.

In primo luogo, sono esclusi i vari tipi di clericalismo, respingendo i quali Cipriano formula il principio sinodale: “nihil sine consensu plebis”. Il ministero nella Chiesa deve essere esercitato e deve rispondere della sua autorità in maniera sinodale. Di fatti, esso è realmente assunto in maniera ecclesiologica ed è capace di agire solo se è in cammino insieme a tutto il popolo di Dio in una comunione vincolante.

In secondo luogo, sono escluse le iniziative solitarie di vescovi autocratici, contro le quali Cipriano formula il principio collegiale: “nihil sine conilio presbyterii”. In virtù della sua consacrazione, il vescovo è innanzitutto ammesso al collegio episcopale mondiale, che rappresenta il ministero dei dodici all’interno del popolo di Dio e nel quale il singolo vescovo deve comportarsi in maniera collegiale. Questa dimensione collegiale deve entrare in gioco anche nella chiesa locale affidata al vescovo, specialmente nel rapporto tra vescovo e presbiteri.

In terzo luogo, è esclusa la formazione di gruppi separatisti nella Chiesa e specialmente tra il clero, contro cui Cipriano richiama il principio personale: “nihil sine episcopo”. La responsabilità indelegabile del vescovo è quindi quella di rendere visibile e di testimoniare il fatto che la Chiesa esiste in virtù di Cristo e che Egli ne è il capo. Tutta la Chiesa deve riconoscere questa responsabilità personale del Vescovo e di conseguenza rispettare il fatto che anche il Vescovo ha una coscienza che non può delegare a nessuno, e che il suo compito personale è testimoniare la fede della Chiesa.

Niente senza il consenso del popolo di Dio, niente senza il consiglio dei presbiteri e niente senza l’indelegabile responsabilità personale del vescovo. Solo là dove questi tre “nihil sine” sono ugualmente rispettati, dove vengono di conseguenza attuati il principio sinodale, il principio collegiale e il principio personale, e dove vi è un’interazione tra “tutti”, “alcuni” e “uno”, come avviene regolarmente nei dialoghi ecumenici[33], la vita ecclesiale conosce una sana armonia e un solido equilibrio.

Ciò che Cipriano sottolinea a proposito della chiesa locale con il suo vescovo quale suo protos può essere detto in modo analogo per la Chiesa universale con il Vescovo di Roma quale suo protos. Al riguardo, Papa Francesco è convinto che la sinodalità, come “dimensione costitutiva della Chiesa”, offra “la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico”, e che questo valga anche e precisamente per lo stesso ministero petrino, che potrà ricevere maggiore luce in una Chiesa sinodale: “Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come Successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese.”[34]

In quest’ottica, si comprende che il primato del vescovo di Roma non deve continuare a rappresentare “l’ostacolo più pesante sulla via dell’ecumenismo”, come disse Papa Paolo VI in modo molto franco durante la sua visita all’allora Segretariato per l’Unità dei Cristiani nel 1967[35]. Al contrario, il primato del Vescovo di Roma può rivelarsi e si rivelerà la “principale possibilità” proprio per il ripristino dell’unità dei cristiani[36], che richiede soprattutto il chiarimento della questione storica e teologica del rapporto tra primato e sinodalità.

Rivitalizzare e radicare queste e molte altre prospettive nella vita della Chiesa cattolica e nelle relazioni ecumeniche è un’urgente necessità del tempo presente. La celebrazione, nel 2025, del 1700° anniversario del Primo Concilio Ecumenico di Nicea e l’intensa preparazione di tale evento sono una proficua opportunità per affrontare queste sfide nella comunione ecumenica.

 

 

[1] J. Kardinal Ratzinger, Das Credo von Nikaia und Konstantinopel: Geschichte, Struktur und Gehalt, in: Ders., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine der Fundamentaltheologie (München 1982) 116-127, zit. 123.
[2] Confessio Augustana, Conclusione della prima parte.
[3] W. Pannenberg, Die Bedeutung des Bekenntnisses von Nicaea-Konstantinopel für den ökumenischen Dialog heute, in: Ders., Kirche und Ökumene = Beiträge zur Systematischen Theologie. Band 3 (Göttingen 2000) 194-204, zit. 197,
[4] J. Kardinal Ratzinger, Jesus Christus heute, in: Ders., Ein neues Lied für den Herrn. Christusglaube und Liturgie in der Gegenwart (Freiburg i. Br. 1995) 15-45, zit. 40.
[5]  J. Cardinal Ratzinger, Vorwort zur Neuausgabe 2000, in: Ders., Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis (München 2000) 9-26, zit. 26.
[6] Vgl. L. O. Lumma, Feiern im Rhythmus des Jahres. Eine kurze Einführung in christliche Zeitrechnung und Feste (Regensburg 2016), bes. 17-69: Der Kalender.
[7] Zit. bei Leo Scheffczyk, Auferstehung. Prinzip des christlichen Glaubens (Einsiedeln 1976) 46, Anm. 49.
[8] Eusebius, Via Const. III 7.
[9] J. Chrysostomos, Exlicatio in Ps 149, in: PG 55, 493.
[10] Die Kirche auf dem Weg zu einer gemeinsamen Vision. Eine Studie der Kommission für Glauben und Kirchenverfassung des Ökumenischen Rates der Kirchen (ÖRK) (Gütersloh – Paderborn 2015).
[11] Internationale Theologische Kommission, Die Synodalität in Leben und Sendung der Kirche, Nr. 116.
[12] Francesco, Discorso in occasione della Commemorazione del 50.mo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, il 17 ottobre 2015.
[13] Vademecum del Sinodo, n. 5.3.7.
[14] Basilius, De Spiritu Sancto XXX, 77.
[15] J. Oeldemann, Kaum noch zukunftsfähig? Krieg in der Ukraine: Ende des „byzantinischen“ Modells, in: KNA - Ökumenische Information. Dokumentation vom 22. März 2022, I-III, zit. I.
[16] Vgl. K. Kardinal Koch, Religionsfreiheit als Thema des ökumenischen Dialogs, in: F.-X. Amherd / M. Delgado / S. Loiero (Hrsg.), 50 Jahre / ans Dignitatis Humanae… Tagungsband des 7. Freiburger Forums Weltkirche = Théologie pratique en dialogue. Vol 45 (Freiburg / Schweiz 2017) 43-61.
[17] Francesco, Discorso al Gruppo misto di Lavoro ortodosso-cattolico “Sant´Ireneo”, il 7 ottobre 2021.
[18] Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi (Città del Vaticano 2010) 132.
[19] R. Schwager, Papstamt und gesellschaftliche Bedingungen, in: S. Hell  und L. Lies (Hrsg.), Papstamt. Hoffnung, Chance, Ärgernis. Ökumenische Diskussion in einer globalisierten Welt (Innsbruck 2000) 271-272.
[20] W. Klausnitzer, Die Diskussion innerhalb der römisch-katholischen Kirche um das Papstamt, in: Una Sancta 53 (1998) 29.
[21] Im Dienst an der Gemeinschaft. Das Verhältnis von Primat und Synodalität neu denken. Eine Studie des Gemeinsamen orthodox-katholischen Arbeitskreises St. Irenäus (Paderborn 2018) 94.
[22] Francesco, Discorso per la Commemorazione del 50.mo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, il 17 ottobre 2015.
[23] W. Kasper, Petrusdienst und Petrusamt. Biblische Grundlagen – Geschichtliche Entwicklung – Ökumenische Perspektiven, in: Ders., Die Kirche und ihre Ämter = Gesammelte Schriften. Band 12 (Freiburg i. Br. 2009) 569-652, zit. 647.
[24] Vgl. Th. Hainthaler, Nach der „Heiligen und Grossen Synode“ von Kreta 2016. Fragen und Überlegungen zu Neuansatz des orthodox-katholischen Dialogs, in: D. Schon (Hrsg.), Dialog 2.0 – Braucht der orthodox-katholische Dialog neue Impulse? = Schriften des Ostkircheninstituts der Diözese Regensburg. Band 1 (Regensburg 2017) 118-133.
[25] Vgl. B. Forte, Il primato nell´eucaristia. Considerazioni ecumeniche intorno al ministero petrino nella Chiesa, in: Asprenas 23 (1976) 391-410.
[26] Vgl. K. Kardinal Koch, Vorsitz in der Liebe und in der Glaubenslehre. Das Papstamt in der Sicht von Joseph Ratzinger – Benedikt XVI., in: Ders., Gottes Freude und Freude an Gott. Perspektiven heutiger Glaubensverantwortung (Freiburg i. Br. 2000) 339-364.
[27] Vgl. J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche (St. Ottilien 1992), bes. 102-123: Optatus von Mileve.
[28] Vgl. W. Pannenberg, Evangelische Überlegungen zum Petrusdienst des römischen Bischofs, in: Ders., Kirche und Ökumene = Beiträge zur Systematischen Theologie. Band 3 (Göttingen 2000) 366-377.
[29] W. Kardinal Kasper, Perspektiven einer sich wandelnden Ökumene. Das ökumenische Engagement der katholischen Kirche, in: Stimmen der Zeit 220 (2002) 651-661. zit. 659.
[30] Francesco, Introduzione al Sinodo per la famiglia, il 5 ottobre 2015.
[31] M. Kehl, Die Kirche. Eine katholische Ekklesiologie (Würzburg 1992) 51.
[32] CSEK III, 2, 512.
[33] Pontifical Council for Promoting Christian Unity, The Bishop of Rome. Primacy and Synodality in the Ecumenical Dialogues and in the Responses to the Encyclical
Ut unum sint. A Study Document (Vatican City 2022).
[34] Ibid.
[35] Dokumentiert in: AAS 39 (1967) 498.
[36] Briefwechsel zwischen Metropolit Damaskinos und Joseph Cardinal Ratzinger, in: J. Cardinal Ratzinger, Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio (Augsburg 2002) 187-209, zit. 203.