COMMISSIONE INTERNAZIONALE ANGLICANA- CATTOLICA ROMANA (ARCIC)

 

IL DONO DELL'AUTORITÀ NELLA CHIESA III

 

 

PREFAZIONE DEI COPRESIDENTI

Più di trent'anni fa, dallo storico incontro avvenuto a Roma tra l’arcivescovo Michael Ramsey e papa Paolo VI prese avvio una seria ricerca della piena unità visibile tra la Comunione anglicana e la Chiesa cattolica romana. La Commissione costituita per preparare il dialogo riconobbe, nel suo Rapporto di Malta del 1968, che uno dei «compiti importanti e urgenti» sarebbe stato l’esame della questione dell'autorità. In un certo senso, tale questione è al cuore delle nostre dolorose divisioni.

Quando nel 1981 fu pubblicato il Rapporto finale dell'ARCIC, metà di esso era dedicato al dialogo sull'autorità nella chiesa, con due dichiarazioni comuni e un chiarimento. Ciò rappresentò una base importante, che preparò la strada per ulteriori convergenze. Le risposte ufficiali, da parte della Conferenza di Lambeth della Comunione anglicana tenutasi nel 1988 e della Chiesa cattolica nel 1991, incoraggiarono la Commissione a registrare i «notevoli progressi» che erano stati fatti. Pertanto, l'ARCIC ora offre questa ulteriore dichiarazione comune, Il dono dell'autorità (The Gift of Authority).

La chiave per comprendere questa dichiarazione si trova in un'immagine scritturistica. Nel primo capitolo della Seconda lettera ai Corinzi, Paolo scrive del «sì» di Dio all'umanità e del nostro rispondere «Amen» a Dio, entrambi dati in Gesù Cristo (cf. 2Cor 1,19-20). Il dono dell'autorità alla sua chiesa da parte di Dio è al servizio del «sì» di Dio al suo popolo e del suo «Amen».

Il lettore è invitato a seguire la strada che ha portato la Commissione alle sue conclusioni. Queste sono il frutto di cinque anni di dialogo, di ascolto paziente, di studio e di preghiera comune. La dichiarazione, speriamo, susciterà ulteriori riflessioni teologiche; le sue conclusioni lanciano una sfida alle nostre due chiese, anche in relazione al nodo cruciale del primato universale. L'autorità riguarda il modo in cui la chiesa insegna, agisce e prende decisioni dottrinali in fedeltà al Vangelo, pertanto un autoritativo accordo sull'autorità non può essere teorico. Se questa dichiarazione deve contribuire alla riconciliazione della Comunione anglicana e della Chiesa cattolica e se viene accolta, essa pretende una risposta nella vita e nelle opere.

Molte cose sono avvenute in questi anni che hanno reso più profonda la nostra consapevolezza di essere gli uni per gli altri fratelli e sorelle in Cristo. Tuttavia, il cammino verso la piena unità visibile si sta dimostrando più lungo di quanto alcuni si aspettavano e molti speravano. Abbiamo incontrato seri ostacoli che rendono difficoltoso il nostro procedere. In questa fase, l'opera perseverante e scrupolosa del dialogo è tanto più vitale. L'attuale arcivescovo di Canterbury, dr. George Carey e papa Giovanni Paolo II, quando si sono incontrati nel 1996, hanno espresso molto apertamente la necessità di lavorare sulla questione dell'autorità: «Senza un accordo su questo argomento non ci sarà possibile pervenire alla piena unità visibile, scopo nel quale noi siamo impegnati».

Preghiamo perché Dio renda il lavoro della Commissione capace di dare un contributo risolutivo al fine che noi tutti desideriamo, la composizione delle nostre divisioni, così che possiamo pronunciare in unità «il nostro “Amen” per la gloria di Dio» (2Cor 1,20).

 

Cormac Murphy-O'Connor

Mark Santer

Palazzola, Festa di S. Gregorio Magno, 3 settembre 1998.

 

Statuto del documento

Il documento qui pubblicato è opera della Commissione internazionale anglicana - cattolica romana (ARCIC). È una dichiarazione congiunta della Commissione. Le autorità che hanno nominato la Commissione hanno permesso che la dichiarazione fosse pubblicata, così che possa essere ampiamente discussa. Non si tratta di una dichiarazione autoritativa (authoritative) della Chiesa cattolica romana o della Comunione anglicana, le quali, a tempo debito, valuteranno il documento e assumeranno in merito una loro posizione.

 

I. Introduzione

1. Il dialogo tra gli anglicani e i cattolici ha mostrato importanti segni di progresso sulla questione dell'autorità nella chiesa. Questo progresso si può già constatare nella convergenza sulla concezione dell'autorità raggiunta dalle precedenti dichiarazioni dell'ARCIC, e in particolare:

  • il riconoscimento che lo Spirito del Signore risorto mantiene il popolo di Dio nell'obbedienza alla volontà del Padre. In forza di questa azione dello Spirito Santo, l'autorità del Signore è all'opera nella chiesa (cf. Rapporto finale, Autorità nella chiesa I, n. 3);
  • un riconoscimento che in virtù del loro battesimo e della loro partecipazione nel sensus fidelium i laici hanno una parte integrante nel processo decisionale in seno alla chiesa (cf. Autorità nella chiesa I, Chiarimento di Windsor, n. 4);
  • la complementarità del primato e della conciliarità come elementi dell'episkope all'interno della chiesa (cf. Autorità nella chiesa I, n. 22);
  • la necessità di un primato universale esercitato dal vescovo di Roma come segno e salvaguardia di unità all'interno di una chiesa riunita (cf. Autorità nella chiesa II, n. 9);
  • la necessità che il primate universale eserciti il suo ministero in associazione collegiale con i confratelli vescovi (cf. Autorità nella chiesa II, n. 19);
  • una concezione del primato universale e della conciliarità come elementi che si pongono a complemento e non in sostituzione dell'esercizio dell'episkope nelle chiese locali (cf. Autorità nella chiesa I, nn. 21-23; Autorità nella chiesa II, n. 19).

2. Questa convergenza è stata ufficialmente evidenziata dalle autorità della Comunione anglicana e della Chiesa cattolica romana. La Conferenza di Lambeth, riunitasi nel 1988, non solo riconobbe le dichiarazioni comuni dell'ARCIC sulla dottrina sull'eucaristia e su ministero e ordinazione come sostanzialmente in armonia con la fede degli anglicani (cf. Risoluzione 8, 1), ma affermò che le dichiarazioni concordate sull'autorità nella chiesa fornivano un solido fondamento per la prosecuzione del dialogo (cf. Risoluzione 8, 3). Analogamente, la Santa Sede, nella sua risposta ufficiale del 1991, riconoscendo ambiti di accordo su questioni di grandissima importanza per la fede della Chiesa cattolica romana, come l'eucaristia e il ministero della chiesa, rilevò segni di convergenza tra le nostre due comunità sulla questione dell'autorità nella chiesa, indicando che questo apriva la via a un ulteriore progresso.

3. Tuttavia, le autorità delle nostre due comunioni hanno richiesto un ulteriore esame degli ambiti in cui, anche se c'è stata convergenza, ritengono che non sia ancora stato raggiunto un necessario consenso. Questi ambiti comprendono:

  • il rapporto tra la Scrittura, la Tradizione e l'esercizio dell'autorità di magistero;
  • collegialità, conciliarità e ruolo dei laici nel processo decisionale;
  • il ministero petrino del primato universale in relazione alla Scrittura e alla Tradizione.

Anche se sono stati compiuti dei progressi, sono emerse alcune serie difficoltà nel cammino verso l'unità. Problemi concernenti l'autorità sono stati sollevati con molta intensità presso ciascuna delle nostre comunioni. Per esempio, i dibattiti e le decisioni sull'ordinazione delle donne hanno suscitato domande intorno alle fonti e alle strutture dell'autorità e sul modo in cui esse funzionano presso gli anglicani e presso i cattolici.

4. In ambedue le comunioni le riflessioni su come l'autorità dovrebbe essere esercitata ai vari livelli sono state aperte alle prospettive che su tali questioni hanno le altre chiese. Per esempio, il Rapporto di Virginia della Commissione dottrinale e teologica interanglicana (preparato per la Conferenza di Lambeth del 1998) dichiara: «La lunga storia di coinvolgimento nell’ecumenismo, sia a livello locale sia a livello internazionale, ci ha mostrato che il discernimento e il processo decisionale degli anglicani devono tenere conto delle intuizioni della verità e della sapienza data dallo Spirito dei nostri partner ecumenici. Inoltre, ogni decisione che prendiamo deve essere offerta al discernimento della chiesa universale» (Rapporto di Virginia 6, 37). Anche papa Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Ut unum sint, ha invitato i responsabili ecclesiali e i teologi delle altre chiese a instaurare con lui un dialogo fraterno sulle forme nelle quali il particolare ministero d'unità del vescovo di Roma possa essere esercitato in una situazione nuova (cf. Ut unum sint, nn. 95-96).

5. C'è un vasto dibattito sulla natura e l'esercizio dell'autorità sia all'interno delle chiese sia nella società più ampia. Gli anglicani e i cattolici vogliono testimoniare, sia alle chiese sia al mondo, che l'autorità rettamente esercitata è un dono di Dio per portare riconciliazione e pace all'umanità. L'esercizio dell'autorità può essere oppressivo e distruttivo. Spesso può, in realtà, essere tale nelle società umane e persino nelle chiese quando esse adottano acriticamente determinati modelli di autorità. L'esercizio dell'autorità nel ministero di Gesù mostra un modo diverso. La chiesa è chiamata ad esercitare l'autorità in conformità con l'intenzione e l'esempio di Cristo (cf. Lc 22,24-27; Gv 13,14-15; Fil 2,1-11). Per l'esercizio di questa autorità la chiesa è stata dotata dallo Spirito Santo di una varietà di doni e di ministeri (cf. 1Cor 12,4-11; Ef 4,11-12).

6. Sin dall'inizio dei suoi lavori, l'ARCIC ha esaminato le questioni del magistero della chiesa o della prassi ecclesiale nel contesto della nostra comunione reale ma imperfetta in Cristo e dell'unità visibile a cui siamo chiamati. La Commissione ha sempre cercato di superare posizioni opposte e radicali per scoprire e sviluppare il nostro patrimonio comune. Basandosi sul precedente lavoro dell'ARCIC, la Commissione offre un'ulteriore dichiarazione sul modo in cui il dono dell'autorità, rettamente esercitato, rende la chiesa capace di rimanere nell'obbedienza allo Spirito Santo, che la preserva fedele nel servizio del Vangelo per la salvezza del mondo. Desideriamo chiarire ulteriormente come l'esercizio e l'accettazione dell'autorità nella chiesa siano inscindibili dalla risposta dei credenti al Vangelo, come tale esercizio sia connesso con l'interazione dinamica di Scrittura e Tradizione, e come esso si esprima e si sperimenti nella comunione delle chiese e nella collegialità dei loro vescovi. Alla luce di queste riflessioni, siamo giunti a una comprensione approfondita di un primato universale che sia al servizio dell'unità di tutte le chiese locali.

 

II. Autorità nella chiesa

Gesù Cristo: il «sì» di Dio a noi e il nostro «Amen» a Dio

7. Dio è l'autore della vita. Per mezzo della sua Parola e del suo Spirito, in perfetta libertà, Dio chiama la vita all'esistenza. Nonostante il peccato umano, Dio in perfetta fedeltà rimane l'autore della speranza di una nuova vita per tutti. Nell'opera di redenzione di Gesù Cristo Dio rinnova al creato la sua promessa, perché «il disegno di Dio è quello di condurre tutte le genti alla comunione con lui dentro una creazione trasformata» (ARCIC, La chiesa come comunione, n. 16; EO 3/56). Lo Spirito di Dio continua a operare nella creazione e nella redenzione per portare a compimento questo disegno di riconciliazione e di unità. La radice di ogni vera autorità è pertanto l'attività del Dio uno e trino, che è autore della vita in tutta la sua pienezza.

8. L'autorità di Gesù Cristo è quella del «testimone fedele», l’«Amen» (cf. Ap 1,5; 3,14) in cui tutte le promesse di Dio trovano il loro «sì». Quando Paolo dovette difendere l'autorità del suo insegnamento, egli lo fece riferendosi all'autorità certa di Dio: «Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è “sì” e “no”…non fu “sì” e “no”, ma in lui c'è stato il “sì”. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute “sì”. Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro Amen per la sua gloria» (2Cor 1,18-20). Paolo parla del «sì» di Dio a noi e dell’«Amen» della chiesa a Dio. In Gesù Cristo, Figlio di Dio e nato da donna, il «sì» di Dio all'umanità e l’«Amen» dell'umanità a Dio sono diventati una realtà umana concreta. Questo tema del «sì» di Dio e dell’«Amen» dell'umanità in Gesù Cristo è la chiave della trattazione dell'autorità in questa dichiarazione.

9. Nella vita e nel ministero di Gesù, che è venuto a fare la volontà del Padre suo (cf. Eb 10,5-10) fino alla morte (cf. Fil 2,8; Gv 10,18), Dio ha fornito l’«Amen» umano perfetto al suo disegno di riconciliazione. Nella sua vita, Gesù ha espresso la propria totale dedizione al Padre (cf. Gv 5,19). Il modo in cui Gesù esercitò l'autorità nel suo ministero terreno fu percepito dai suoi contemporanei come qualcosa di nuovo. Essa fu riconosciuta nel suo insegnamento autorevole e nella sua parola capace di risanare e di liberare (cf. Mt 7,28-29; Mc 1,22.27). Soprattutto, la sua autorità si manifestò mediante il suo servizio e la donazione della propria vita nell'amore sacrificale (cf. Mc 10,45). Gesù parlava e agiva con autorità in virtù della sua comunione perfetta con il Padre. La sua autorità gli veniva dal Padre (cf. Mt 11,27; Gv 14,10-12). Al Cristo risorto viene data in cielo e in terra ogni autorità (cf. Mt 28,18). Gesù Cristo ora vive e regna con il Padre, nell'unità dello Spirito Santo; è capo del suo corpo, la chiesa, e Signore di tutta la creazione (Ef 1,18-23).

10. L'obbedienza vivificante di Gesù Cristo suscita per mezzo dello Spirito il nostro «Amen» a Dio Padre. In questo «Amen» per mezzo di Cristo glorifichiamo Dio, che ci dona lo Spirito nei nostri cuori come caparra della sua fedeltà (cf. 2Cor 1,20-22). Noi siamo chiamati in Cristo a rendere testimonianza al disegno di Dio (cf. Lc 24,46-49), una testimonianza che anche per noi può implicare l'obbedienza fino alla morte. In Cristo l'obbedienza non è un peso (cf. 1Gv 5,3). Scaturisce dalla liberazione data dallo Spirito di Dio. Il «sì» di Dio e il nostro «Amen» sono chiaramente visibili nel battesimo, quando nella schiera dei fedeli diciamo «Amen» all'opera di Dio in Cristo. In virtù dello Spirito, il nostro «Amen» di credenti viene incorporato nell’«Amen» di Cristo, per il quale, con il quale e nel quale adoriamo il Padre.

L’«Amen» del credente nell’«Amen» della chiesa locale

11. Il Vangelo raggiunge gli uomini in una varietà di modi: la testimonianza e la vita di un genitore o di un altro cristiano, la lettura delle Scritture, la partecipazione alla liturgia, o una qualche altra esperienza spirituale. Anche l'accoglienza del Vangelo avviene in molti modi: nel ricevere il battesimo, nel rinnovo dell'impegno cristiano, in una decisione di restare fedeli, o in atti di donazione di sé a quanti sono nel bisogno. In queste azioni la persona dice: «Veramente Gesù Cristo è il mio Dio: egli è per me la salvezza, la fonte della speranza, il vero volto del Dio vivente».

12. Quando un credente singolarmente dice «Amen» a Cristo, è sempre implicata una dimensione ulteriore: un «Amen» alla fede della comunità cristiana. La persona che riceve il battesimo deve arrivare a conoscere la piena implicazione della sua partecipazione alla vita divina nel corpo di Cristo. L’«Amen» del credente a Cristo diventa ancora più completo in quanto quella persona riceve tutto quello che la chiesa, nella fedeltà alla parola di Dio, afferma essere l'autoritativo contenuto della rivelazione divina. In tal modo, l’«Amen» detto a ciò che Cristo è per ciascun credente è incorporato nell’«Amen» che la chiesa dice a ciò che Cristo è per il suo corpo. Crescere in questa fede può essere per alcuni un'esperienza costellata di dubbi e di conflitti. Per tutti è un'esperienza in cui l'integrità della coscienza del credente ha un ruolo vitale da giocare. L’«Amen» del credente a Cristo è così fondamentale che ogni singolo cristiano durante tutta la sua vita è chiamato a dire «Amen» a tutto ciò che la schiera dei cristiani nel suo complesso riceve e insegna come il significato autoritativo del Vangelo e la via per seguire Cristo.

13. I credenti seguono Cristo in comunione con altri cristiani nella loro chiesa locale (cf. Autorità nella chiesa I, 8, dove si spiega che «l'unità delle comunità locali sotto [l'autorità di] un unico vescovo costituisce quello che nelle nostre due comunioni viene designato comunemente con l'espressione “chiesa locale”»; EO 1/73). Nella chiesa locale i credenti condividono la vita cristiana, trovando insieme la guida per la formazione della coscienza e la forza per affrontare le difficoltà. Sono sostenuti dai mezzi della grazia che Dio fornisce al suo popolo: le sacre Scritture, esposte nella predicazione, nella catechesi e nei simboli di fede; i sacramenti; il servizio del ministero ordinato; la vita di preghiera e il culto comune; la testimonianza di donne e uomini santi. Il credente è incorporato in un «Amen» di fede, più antico, più profondo, più vasto e più ricco dell’«Amen» del singolo al Vangelo. Così la relazione tra la fede del singolo individuo e la fede della chiesa è più complessa di quanto talvolta possa apparire. Ogni persona battezzata condivide la ricca esperienza della chiesa che, anche quando si scontra con i problemi della realtà contemporanea, continua a proclamare ciò che Cristo è per il suo corpo. Ogni credente, in virtù della grazia dello Spirito, insieme con tutti i credenti di tutti i tempi e in tutti i luoghi, eredita questa fede della chiesa nella comunione dei santi. I credenti allora, nella celebrazione del culto, nell'insegnamento e nella prassi della loro chiesa locale, mettono in pratica un duplice «Amen». Questa chiesa locale è una comunità eucaristica. Al centro della sua vita c'è la celebrazione della santa eucaristia in cui tutti i credenti ascoltano e ricevono il «sì» che Dio rivolge loro in Cristo. Nel grande rendimento di grazie, quando viene celebrato il memoriale del dono di Dio nell'opera salvifica di Cristo crocifisso e risorto, la comunità è unanime con tutti i cristiani di tutte le chiese che, sin dall'inizio e fino alla fine, pronunciano l’«Amen» dell'umanità a Dio _ l’«Amen» che secondo l'Apocalisse si trova al cuore della grande liturgia celeste (cf. Ap 5,14; 7,12).

Tradizione e apostolicità: l’«Amen» della chiesa locale nella comunione delle chiese

14. Il «sì» di Dio ordina e sollecita l’«Amen» dei credenti. La Parola rivelata, cui la comunità apostolica in origine rese testimonianza, è ricevuta e comunicata attraverso la vita dell'intera comunità cristiana. La Tradizione (paradosis) si riferisce a questo processo.1 Il Vangelo di Cristo crocifisso e risorto viene permanentemente tramandato e ricevuto (cf. 1Cor 15,3) nelle chiese cristiane. Questa tradizione, o trasmissione, del Vangelo è l'opera dello Spirito, specialmente attraverso il ministero della Parola e del sacramento e nella vita comune del popolo di Dio. La tradizione è un processo dinamico, che comunica a ogni generazione ciò che è stato consegnato una volta per tutte alla comunità apostolica. La Tradizione è molto più che la trasmissione di affermazioni vere concernenti la salvezza. Non è sufficiente una comprensione minimalista della Tradizione, che la ridurrebbe a un «magazzino» di dottrine e di definizioni ecclesiali. La chiesa riceve, e deve tramandare, tutti quegli elementi che sono costitutivi della comunione ecclesiale: il battesimo, la professione della fede apostolica, la celebrazione dell'eucaristia, la guida da parte di un ministero apostolico (cf. La chiesa come comunione, 15.43). Nell'economia (oikonomia) dell'amore di Dio per l'umanità, la Parola che si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi è al centro di ciò che fu trasmesso fin dall'inizio e di ciò che sarà trasmesso fino alla fine.

15. La Tradizione è un canale dell'amore di Dio, che lo rende accessibile nella chiesa e nel mondo odierni. Attraverso di esso, da una generazione all'altra e da un luogo all'altro l'umanità condivide la comunione nella Santa Trinità. Mediante il processo della tradizione, la chiesa amministra la grazia del Signore Gesù Cristo e la koinonia dello Spirito Santo (cf. 2Cor 13,13). Pertanto, la Tradizione è necessaria all'economia di grazia, amore e comunione. Per coloro i cui orecchi non hanno udito e i cui occhi non hanno visto, il momento della recezione del Vangelo di salvezza è un'esperienza di illuminazione, di perdono, di guarigione, di liberazione. Coloro che partecipano alla comunione del Vangelo non possono astenersi dal trasmetterlo ad altri, anche se questo significa il martirio. La Tradizione è sia un tesoro da ricevere da parte del popolo di Dio, sia un dono da condividere con tutto il genere umano.

16. La Tradizione apostolica è un dono di Dio che deve essere sempre nuovamente ricevuto. Per mezzo di essa, lo Spirito Santo forma, mantiene e sostiene la comunione delle chiese locali da una generazione alla generazione successiva. La trasmissione e la recezione della Tradizione apostolica è un atto di comunione per mezzo del quale lo Spirito unisce le chiese locali di oggi con quelle che le precedettero nell'unica fede apostolica. Il processo della tradizione comprende la recezione e la comunicazione costanti e incessanti della Parola di Dio rivelata in molte circostanze diverse e in tempi in continua trasformazione. L’«Amen» della chiesa alla Tradizione apostolica è un frutto dello Spirito che guida costantemente i discepoli alla verità tutta intera; ossia, in Cristo che è la via, la verità e la vita (cf. Gv 16,13; 14,6).

17. La Tradizione esprime l'apostolicità della chiesa. Ciò che gli apostoli hanno ricevuto e proclamato si trova ora nella Tradizione della chiesa dove è predicata la parola di Dio e dove sono celebrati i sacramenti di Cristo nella potenza dello Spirito Santo. Le chiese oggi sono impegnate a ricevere l'unica Tradizione apostolica vivente, a conformare a essa la loro vita, e a trasmetterla in modo tale che il Cristo che viene nella gloria possa trovare il popolo di Dio che professa e vive la fede consegnata ai santi una volta per tutte (Gd 3).

18. La Tradizione rende presente la testimonianza della comunità apostolica nella chiesa oggi attraverso la sua memoria collettiva. Attraverso la proclamazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti lo Spirito Santo apre i cuori dei credenti e rende manifesto a essi il Signore risorto. Lo Spirito, che agisce negli eventi verificatisi una volta per tutte del ministero di Gesù, continua ad ammaestrare la chiesa, riportando alla memoria ciò che Cristo ha fatto e ha detto, rendendo presenti i frutti della sua opera redentrice e l'anticipazione del Regno (cf. Gv 2,22; 14,26). Lo scopo della Tradizione è realizzato quando, mediante lo Spirito, la Parola è ricevuta e messa in pratica nella fede e nella speranza. La testimonianza della proclamazione, dei sacramenti e della vita in comunione è al tempo stesso il contenuto della Tradizione e il suo risultato. La memoria, quindi, porta frutto nella vita di fede dei credenti entro la comunione della loro chiesa locale.

Le sacre Scritture: il «sì» di Dio e l’«Amen» del popolo di Dio

19. All'interno della Tradizione le Scritture occupano un posto speciale e normativo, e rientrano in ciò che è stato dato una volta per tutte. In quanto testimonianza scritta del «sì» di Dio, le Scritture esigono che la chiesa misuri su di esse il magistero, la predicazione e l’azione. «Essendo le Scritture la testimonianza, ispirata in maniera specialissima, della divina rivelazione, il modo in cui la chiesa esprime questa rivelazione deve essere vagliato dalla sua consonanza con la Scrittura» (Autorità nella chiesa, Chiarimento di Windsor, 2; EO 1/96). Attraverso le Scritture la rivelazione di Dio è resa presente ed è trasmessa nella vita della chiesa. Il «sì» di Dio è riconosciuto nell’«Amen» della chiesa che riceve la rivelazione autoritativa di Dio, e attraverso di esso. Ricevendo determinati testi come testimonianza autoritativa della rivelazione divina, la chiesa ha individuato le proprie sacre Scritture. Essa considera solamente questo corpus come Parola ispirata di Dio scritta e, come tale, autoritativa (authoritative) in maniera unica e speciale.

20. Le Scritture riuniscono insieme diverse correnti di tradizioni ebraiche e cristiane. Queste tradizioni rivelano il modo in cui la parola di Dio è stata ricevuta, interpretata e fatta circolare in contesti specifici secondo i bisogni, la cultura e le particolari situazioni del popolo di Dio. Esse contengono la rivelazione da parte di Dio del suo progetto di salvezza, che è stato realizzato in Gesù Cristo e sperimentato nelle comunità cristiane primitive. In queste comunità il «sì» di Dio fu recepito in un modo nuovo. Nel Nuovo Testamento possiamo vedere come le Scritture del Primo Testamento furono ricevute come rivelazione dell'unico vero Dio, ma insieme furono anche reinterpretate e nuovamente accolte come rivelazione della sua Parola definitiva in Cristo.

21. Tutti gli autori del Nuovo Testamento furono influenzati dall'esperienza delle proprie comunità locali. Ciò che trasmisero, con la loro capacità e le loro riflessioni teologiche, testimonia e fa conoscere quegli elementi del Vangelo che le chiese del tempo e nelle diverse situazioni conservarono nella loro memoria. L'insegnamento di Paolo riguardo al corpo di Cristo, per esempio, è fortemente connesso ai problemi e alle divisioni esistenti all'interno della chiesa locale di Corinto. Quando Paolo parla della «nostra autorità, che il Signore ci ha dato per vostra edificazione e non per vostra rovina» (2Cor 10,8), lo fa nel contesto dei suoi turbolenti rapporti con la chiesa di Corinto. Persino nelle affermazioni centrali della nostra fede c'è spesso una chiara eco della situazione concreta e talvolta drammatica di una chiesa locale o di un gruppo di chiese locali, di cui siamo debitori per la trasmissione fedele della Tradizione apostolica. L'accentuazione che nella letteratura giovannea è posta sulla presenza del Signore nella carne di un corpo umano che poté essere visto e toccato sia prima sia dopo la risurrezione (cf. Gv 20,27; 1Gv 4,2) è legata al conflitto sorto nelle comunità giovannee su questo problema. Attraverso le difficoltà e i contrasti che in momenti particolari delle comunità particolari sperimentarono per discernere la parola di Dio, abbiamo nella Scrittura una testimonianza autoritativa della Tradizione apostolica che deve essere fatta circolare da una generazione all'altra e da una chiesa all'altra, e a cui i fedeli dicono «Amen».

22. La formazione del canone delle Scritture fu parte integrante del processo della tradizione. Il riconoscimento da parte della chiesa di queste Scritture come canoniche, dopo un lungo periodo di discernimento critico, fu nello stesso tempo un atto di obbedienza e di autorità. Fu un atto di obbedienza in quanto la chiesa riconobbe e ricevette il «sì» vivificante di Dio attraverso le Scritture, accogliendole come la norma della fede. Fu un atto di autorità in quanto la chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, ricevette e trasmise questi testi, proclamando che erano ispirati e che non si sarebbero potuti includere altri testi nel canone.

23. Il significato del Vangelo di Dio rivelato è compreso pienamente solo all'interno della chiesa. La rivelazione di Dio è stata consegnata a una comunità. La chiesa non può essere descritta in termini propri come un insieme di singoli individui credenti, e neppure la sua fede può essere considerata la somma delle fedi possedute da singoli individui. I credenti sono nel loro insieme il popolo della fede perché sono incorporati in virtù del battesimo in una comunità che riceve le Scritture canoniche come l’autoritativa parola di Dio; essi ricevono la fede all'interno di questa comunità. La fede della comunità precede la fede del singolo individuo. Così, anche se il cammino di fede di una persona può iniziare con la lettura personale della Scrittura, non può fermarsi lì. L'interpretazione individualistica delle Scritture non si accorda con la lettura del testo all'interno della vita della chiesa ed è incompatibile con la natura dell'autorità della parola di Dio rivelata (cf. 2Pt 1,20-21). Non si osi separare Parola di Dio e chiesa di Dio.

Recezione e ri-recezione: l’«Amen» della chiesa alla parola di Dio

24. Nel corso dei secoli, la chiesa riceve e riconosce come un dono gratuito di Dio tutto ciò che essa identifica come un'espressione autoritativa della Tradizione che è stata consegnata una volta per tutte agli apostoli. Questa recezione è a un tempo un atto di fedeltà e di libertà. La chiesa deve mantenersi fedele cosicché il Cristo che verrà nella gloria possa riconoscere nella chiesa la comunità che egli ha fondato; la chiesa deve mantenersi libera di ricevere la Tradizione apostolica in modi nuovi secondo le situazioni che essa deve a mano a mano affrontare. La chiesa ha la responsabilità di trasmettere l'intera Tradizione apostolica, anche se ci possono essere delle parti che essa ritiene difficile integrare nella sua vita e nel suo culto. Può darsi che ci siano cose che avevano una grande importanza per la generazione precedente e che saranno nuovamente importanti nel futuro, anche se la loro importanza non è chiara nel presente.

25. Nella chiesa la memoria del popolo di Dio può essere intaccata o persino distorta dalla limitatezza umana e dal peccato. Anche se è stata assicurata a esse l'assistenza dello Spirito Santo, le chiese di quando in quando perdono di vista alcuni aspetti della Tradizione apostolica, e non riescono a discernere una piena visione del regno di Dio, alla cui luce noi cerchiamo di seguire Cristo. Le chiese soffrono quando qualche elemento della comunione ecclesiale è stato dimenticato, trascurato o male utilizzato. Il rinnovato ricorso alla Tradizione in una situazione nuova è il mezzo col quale la rivelazione di Dio in Cristo è richiamata alla memoria. In questo sono di grande aiuto le riflessioni dei biblisti e dei teologi e la saggezza dei santi. Quindi, ci possono essere una riscoperta di elementi che erano stati trascurati e una rinnovata memoria delle promesse di Dio, che determinano il rinnovarsi dell’«Amen» della chiesa. Ci può anche essere un attento esame critico di ciò che è stato ricevuto perché alcune delle formulazioni della Tradizione sono considerate inadeguate o persino fuorvianti in un contesto nuovo. Questo intero processo può essere definito ri-recezione.

La cattolicità: l’«Amen» della chiesa intera

26. Vi sono due dimensioni della comunione nella Tradizione apostolica: la dimensione diacronica e la dimensione sincronica. Il processo della tradizione implica chiaramente la trasmissione del Vangelo da una generazione all'altra (dimensione diacronica). Se è proprio della chiesa restare unita nella verità, questo deve implicare anche la comunione in quell'unico Vangelo delle chiese in tutti i luoghi (dimensione sincronica). Entrambe sono necessarie per la cattolicità della chiesa. Cristo promette che lo Spirito Santo custodirà la verità essenziale e salvifica nella memoria della chiesa, conferendole il potere di compiere la sua missione (cf. Gv 14,26; 15,26-27). Questa verità deve essere trasmessa e ricevuta di nuovo dai fedeli in tutti i tempi e in tutti i luoghi, da un capo all'altro della terra, in risposta alla varietà e alla complessità dell'esperienza umana. Non c'è parte dell'umanità, né razza, né condizione sociale, né generazione, alla quale questa salvezza, comunicata col tramandare la parola di Dio, non sia destinata (cf. La chiesa come comunione, n. 34).

27. Nella ricca varietà della vita umana, l'incontro con la Tradizione viva produce una varietà di espressioni del Vangelo. Ogni volta che si sono espressioni diverse fedeli alla Parola rivelata in Gesù Cristo e trasmessa dalla comunità apostolica, le chiese che le suscitano sono veramente in comunione. In realtà, questa diversità di tradizioni è la manifestazione pratica della cattolicità e conferma piuttosto che contraddire la forza della Tradizione. Come Dio ha creato la diversità tra gli esseri umani, così la fedeltà e l'identità della chiesa richiedono non uniformità di espressione e di formulazione a tutti i livelli in tutte le situazioni, ma piuttosto una diversità cattolica nell'unità della comunione. Questa ricchezza di tradizioni è una risorsa vitale per un'umanità riconciliata. «Gli uomini sono stati creati da Dio nel suo amore e con una tale diversità affinché essi possano partecipare di quell'amore condividendo gli uni con gli altri quello che hanno e quello che sono, arricchendosi quindi l'un l'altro nella loro comunione reciproca» (La chiesa come comunione, n. 35; EO 3/75).

28. Il popolo di Dio nel suo complesso è il depositario della Tradizione viva. In situazioni che mutano e che danno origine a nuove sfide al Vangelo, l’intero popolo di Dio porta la responsabilità del discernimento, dell'attualizzazione e della comunicazione della parola di Dio. Lo Spirito Santo opera attraverso tutti i membri della comunità, servendosi dei doni che egli dà a ciascuno per il bene di tutti. I teologi in particolare servono la comunione dell'intera chiesa indagando se e come intuizioni nuove possano essere integrate nel flusso continuo della Tradizione. In ogni comunità c'è uno scambio, un reciproco dare e avere, in cui vescovi, clero e laici danno e insieme ricevono gli uni dagli altri all'interno dell'intero corpo.

29. In ogni cristiano che cerca di essere fedele a Cristo ed è pienamente incorporato nella vita della chiesa c'è un sensus fidei. Questo sensus fidei si può descrivere come una capacità attiva di discernimento spirituale, un intuito che è formato dal culto e dalla vita di comunione come membro fedele della chiesa. Quando questa capacità è esercitata in concerto dal corpo dei fedeli, possiamo parlare dell'esercizio del sensus fidelium (cf. Autorità nella chiesa I, Chiarimento di Windsor, nn. 3-4). L'esercizio del sensus fidei da parte di ciascun membro della chiesa contribuisce alla formazione del sensus fidelium per mezzo del quale la chiesa nel suo complesso resta fedele a Cristo. In ordine al ministero di coloro che nella comunità esercitano l'episkope, custodendo la memoria viva della chiesa, l’intero corpo _ in virtù del sensus fidelium _ contribuisce a tale ministero, ne riceve e ne fa tesoro (cf. Autorità nella chiesa I, nn. 5-6). In modi diversi l’«Amen» del singolo credente viene così incorporato nell’«Amen» della chiesa intera.

30. Coloro che esercitano l'episkope nel corpo di Cristo non devono essere separati dalla «sinfonia» dell'intero popolo di Dio, nel quale hanno un proprio ruolo da giocare. Dal momento che devono rendersi conto di quando c'è bisogno di qualcosa per il bene e la missione della comunità, o di quando un qualche elemento della Tradizione va recepito in un modo nuovo, occorre che siano attenti al sensus fidelium, del quale partecipano. Il carisma e la funzione dell'episkope sono specificamente connessi con il ministero della memoria, che rinnova continuamente la chiesa nella speranza. Attraverso tale ministero lo Spirito Santo mantiene viva nella chiesa la memoria di ciò che Dio ha fatto e rivelato, e la speranza di ciò che Dio farà per ricapitolare tutte le cose nell'unità in Cristo. In questo modo, non solo di generazione in generazione, ma anche da un luogo all'altro, viene comunicata e vissuta l'unica fede. Questo è il ministero esercitato dal vescovo e dalle persone ordinate sotto la cura del vescovo, quando proclamano la Parola, amministrano i sacramenti e prendono la parte che spetta loro nell’esercizio della disciplina per il bene comune. I vescovi, il clero e gli altri fedeli devono tutti riconoscere e ricevere ciò che proviene da Dio attraverso la mediazione reciproca. In tal modo il sensus fidelium del popolo di Dio e il ministero della memoria coesistono insieme in rapporto reciproco.

31. Gli anglicani e i cattolici possono concordare in teoria su tutto quanto esposto sopra, ma è necessario che compiano un deciso sforzo per riconquistare questa comprensione condivisa. Quando le comunità cristiane sono in comunione reale ma imperfetta, sono chiamate a riconoscere le une nelle altre elementi della Tradizione apostolica che esse possono avere rifiutato, dimenticato o non ancora pienamente compreso. Di conseguenza, devono ricevere o riappropriarsi di questi elementi, e riconsiderare i modi in cui hanno separatamente interpretato le Scritture. La loro vita in Cristo è arricchita quando danno e ricevono le une dalle altre. Crescono nella comprensione e nell'esperienza della loro cattolicità quando il sensus fidelium e il ministero della memoria interagiscono nella comunione dei credenti. In questa economia del dare e ricevere di una comunione reale ma imperfetta, esse si avvicinano a una condivisione indivisa all'unico «Amen» di Cristo alla gloria di Dio.

 

III. L'Esercizio dell'autorità nella Chiesa 

Proclamare il Vangelo: l'esercizio dell'autorità per la missione e l'unità

32. L’autorità che Gesù conferì ai suoi discepoli fu soprattutto l’autorità per la missione, quella di predicare e di guarire (cf. Lc 9,1-2; 10,1). Il Cristo risorto diede loro la forza per diffondere il Vangelo al mondo intero (cf. Mt 28,18-20). Nella chiesa primitiva, la predicazione della parola di Dio nella potenza dello Spirito era considerata come la caratteristica peculiare dell'autorità apostolica (cf. 1Cor 1,17; 2,4-5). Nella proclamazione di Cristo crocifisso, il «sì» di Dio all'umanità diviene una realtà presente e tutti sono invitati a rispondere con il loro «Amen». Pertanto, l'esercizio dell'autorità ministeriale nella chiesa, specialmente da parte di coloro cui è stato affidato il ministero dell'episkope, ha una dimensione radicalmente missionaria. L'autorità è esercitata nella chiesa per il bene di coloro che ne sono fuori, perché il Vangelo possa essere proclamato «con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione» (1Ts 1,5). Questa autorità rende la chiesa intera capace di incarnare il Vangelo e di diventare serva missionaria e profetica del Signore.

33. Gesù ha pregato il Padre perché i suoi seguaci potessero essere una cosa sola, «e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv 17,23). Quando i cristiani non sono d'accordo sul Vangelo stesso, la predicazione di esso è compromessa nella sua potenza. Quando non sono una cosa sola nella fede, non possono essere una cosa sola nella vita, e quindi non possono dimostrare in pienezza di essere fedeli alla volontà di Dio, che è la riconciliazione di tutte le cose al Padre per mezzo di Cristo (cf. Col 1,20). Finché la chiesa non vivrà come la comunità della riconciliazione che Dio la chiama a essere, essa non potrà degnamente predicare questo Vangelo o proclamare in maniera credibile il progetto di Dio di radunare il suo popolo disperso nell'unità sotto Cristo come Signore e salvatore (cf. Gv 11,52). Solo quando tutti i credenti saranno uniti nella celebrazione comune dell'eucaristia (cf. La chiesa come comunione, n. 24) il Dio il cui disegno è ricapitolare tutte le cose in Cristo (cf. Ef 1,10) sarà davvero glorificato dal popolo di Dio. La sfida e la responsabilità che incombono a coloro che hanno autorità nella chiesa è di esercitare il loro ministero così da promuovere l'unità della chiesa intera nella fede e nella vita in un modo che arricchisca - piuttosto che diminuire - la legittima diversità delle chiese locali.

La sinodalità: l'esercizio dell'autorità in comunione

34. In ogni chiesa locale tutti i fedeli sono chiamati a camminare insieme in Cristo. Il termine sinodalità (derivato da syn-hodos che significa «strada comune») indica il modo in cui i credenti e le chiese sono tenuti insieme in comunione quando agiscono così. Tale termine esprime la loro vocazione come popolo della Via (cf. At 9,2) a vivere, lavorare e camminare insieme in Cristo che è la Via (cf. Gv 14,6). Come i loro predecessori, seguono Gesù sulla via (cf. Mc 10,52) finchè egli non verrà di nuovo.

35. Lo Spirito è all’opera nella comunione delle chiese locali per formare ogni chiesa mediante la grazia della riconciliazione e della comunione in Cristo. Solo attraverso l'attività dello Spirito la chiesa locale può essere fedele all’«Amen» di Cristo e può essere inviata nel mondo per attrarre tutti gli uomini alla partecipazione a questo «Amen». Mediante questa presenza dello Spirito la chiesa locale è mantenuta nella Tradizione. Essa riceve e condivide la pienezza della fede apostolica e i mezzi della grazia. Lo Spirito conferma la chiesa locale nella verità in modo tale che la sua vita incarni la verità salvifica rivelata in Cristo. Di generazione in generazione l'autorità della Parola vivente deve essere resa presente nella chiesa locale in tutti gli aspetti della sua vita nel mondo. Il modo in cui è esercitata l'autorità nelle strutture e nella vita collettiva della chiesa deve essere reso conforme ai sentimenti di Cristo (cf. Fil 2,5).

36. Lo Spirito di Cristo conferisce a ciascun vescovo l'autorità pastorale necessaria per l'esercizio efficace dell'episkope in una chiesa locale. Questa autorità comprende necessariamente la responsabilità di assumere ed attuare le decisioni che sono richieste perché un vescovo possa adempiere al suo ufficio per il bene della koinonia. La sua natura vincolante è implicita nel compito del vescovo di insegnare la fede mediante la proclamazione e la spiegazione della parola di Dio, di provvedere alla celebrazione dei sacramenti e di mantenere la chiesa nella santità e nella verità. Le decisioni prese dal vescovo mentre esercita il suo compito hanno un'autorità che i fedeli hanno il dovere di ricevere e di accettare (cf. Autorità nella chiesa II, n. 17). In virtù del loro sensus fidei i fedeli sono capaci in coscienza sia di riconoscere Dio operante nell'esercizio dell'autorità del vescovo, sia di rispondervi come credenti. Questo è ciò che motiva la loro obbedienza, un'obbedienza figlia della fedeltà e non della schiavitù. La giurisdizione dei vescovi è unicamente conseguenza della chiamata che essi hanno ricevuto a guidare le loro chiese in un autoritativo «Amen»; non è potere arbitrario dato a una persona sulla libertà degli altri. Entro l’opera del sensus fidelium c'è un rapporto di complementarità tra il vescovo e il resto della comunità. Nella chiesa locale l'eucaristia è l'espressione fondamentale del camminare insieme (sinodalità) del popolo di Dio. In un dialogo intenso e devoto, il presidente guida i fedeli a pronunciare il loro «Amen» alla preghiera eucaristica. In unità di fede con il vescovo locale, il loro «Amen» è un memoriale vivente del grande «Amen» del Signore alla volontà del Padre.

37. La reciproca interdipendenza di tutte le chiese è parte integrante della realtà della chiesa come Dio vuole che sia. Nessuna chiesa locale che partecipa della Tradizione viva può considerarsi autosufficiente. Le forme di sinodalità, pertanto, sono necessarie per manifestare la comunione delle chiese locali e per sostenere ciascuna di esse nella fedeltà al Vangelo. Il ministero del vescovo è centrale, perché questo ministero serve la comunione all'interno delle chiese locali e tra di esse. La loro comunione reciproca si esprime attraverso l'incorporazione di ciascun vescovo in un collegio di vescovi. I vescovi sono, sia personalmente sia collegialmente, al servizio della comunione e sono impegnati nella sinodalità in tutte le sue espressioni. Queste espressioni hanno implicato una grande varietà di organi, di strumenti e di istituzioni, in particolare sinodi o concili locali, provinciali, mondiali, ecumenici. Il mantenimento della comunione pretende che a ogni livello vi sia la capacità di prendere quelle decisioni che sono appropriate a quel livello. Quando queste decisioni suscitano problemi gravi per la più ampia comunione delle chiese, la sinodalità deve trovare un'espressione più ampia.

38. In entrambe le comunioni, i vescovi si riuniscono collegialmente, non come individui ma come coloro che hanno autorità all'interno della vita sinodale e per la vita sinodale delle chiese locali. La consultazione dei fedeli è un aspetto della supervisione episcopale. Ciascun vescovo è sia voce della chiesa locale, sia colui attraverso il quale la chiesa locale impara dalle altre chiese. Quando i vescovi si consultano insieme, cercano sia di discernere sia di esprimere chiaramente il sensus fidelium come è presente nella chiesa locale e nella più ampia comunione delle chiese. Il loro ruolo è magisteriale: cioè, in questa comunione delle chiese sta a loro definire ciò che va insegnato come fedele alla Tradizione apostolica. I cattolici e gli anglicani condividono questa concezione della sinodalità, ma la esprimono in modi diversi.

39. Nella Chiesa d'Inghilterra, al tempo della Riforma inglese, la tradizione della sinodalità venne espressa attraverso l'uso sia dei sinodi (di vescovi e del clero) sia del Parlamento (comprendente vescovi e laici) per la definizione della liturgia, della dottrina e dell'ordinamento ecclesiastico. Venne riconosciuta anche l'autorità dei concili generali. Nella Comunione anglicana, nel corso del XIX secolo, ebbero origine nuove forme di sinodi e il ruolo dei laici nel processo decisionale da allora in poi è andato crescendo. Anche se vescovi, clero e laici si consultano a vicenda e legiferano insieme, resta distinta e centrale la responsabilità dei vescovi. In ogni parte della Comunione anglicana, i vescovi hanno una singolare responsabilità di supervisione. Per esempio, un sinodo diocesano può essere convocato solo dal vescovo, e le sue decisioni sono valide solo con il consenso del vescovo. A livello provinciale o nazionale, vi sono camere dei vescovi che esercitano un ministero distinto e singolare in relazione a materie di dottrina, di culto e di vita morale. Inoltre, anche se i sinodi anglicani fanno largo uso di procedure di tipo parlamentare, la loro natura è eucaristica. Questo è il motivo per cui il vescovo, in quanto presidente dell'eucaristia, propriamente presiede il sinodo diocesano che si riunisce per portare l'opera redentrice di Dio nel presente attraverso la vita e l'attività della chiesa locale. Inoltre, ogni vescovo non solo ha l'episkope sulla chiesa locale, ma partecipa alla cura di tutte le chiese. Tale esercizio avviene all'interno di ogni provincia della Comunione anglicana con l'aiuto di organi come le camere dei vescovi e i sinodi provinciali e generali. Nella Comunione anglicana nel suo complesso l'Assemblea dei primati, il Consiglio consultivo anglicano, la Conferenza di Lambeth e l'arcivescovo di Canterbury servono come strumenti della sinodalità.

40. Nella Chiesa cattolica romana la tradizione della sinodalità non è finita. Dopo la Riforma, hanno continuato a essere tenuti di tanto in tanto, in diocesi e regioni diverse, sinodi dei vescovi e del clero, e a livello ecumenico sono stati tenuti tre concili. Alla fine del secolo scorso sono apparse specifiche assemblee di vescovi e conferenze episcopali come mezzi di consultazione, per consentire alle chiese locali di una determinata regione di affrontare insieme le esigenze della loro missione e di trattare situazioni pastorali nuove. A partire dal concilio Vaticano II sono diventate una struttura ordinaria a livello nazionale e regionale. Con una decisione sostenuta dai padri conciliari, papa Paolo VI istituì il Sinodo dei vescovi per trattare problemi riguardanti la missione della chiesa nel mondo. L'antica consuetudine delle visite ad limina alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo e al vescovo di Roma è stata ripristinata attraverso visite non solo a livello di singoli vescovi ma in gruppi regionali. L'uso più recente delle visite del vescovo di Roma alle chiese locali ha cercato di promuovere un senso più profondo della loro appartenenza alla comunione delle chiese, e di aiutarle a essere più consapevoli della situazione delle altre. Tutte queste istituzioni sinodali offrono la possibilità di una crescente consapevolezza, sia da parte dei vescovi locali sia del vescovo di Roma, che vi sono modi di operare insieme in una comunione più intensa. Completando questa sinodalità collegiale, una crescita nella sinodalità al livello locale sta promuovendo la partecipazione attiva dei laici alla vita e alla missione della chiesa locale.

Perseveranza nella verità: l'esercizio dell'autorità nell'insegnamento

41. In ogni epoca i cristiani hanno detto «Amen» alla promessa di Cristo che lo Spirito guiderà la sua chiesa alla verità tutta intera. Il Nuovo Testamento spesso riecheggia questa promessa facendo riferimento al coraggio, alla fiducia e alla certezza che i cristiani possono vantare (cf. Lc 1,4; 1 Ts 2,2; Ef 3,2; Eb 11,1). Nella loro preoccupazione di rendere il Vangelo accessibile a tutti coloro che sono disposti ad accoglierlo, coloro che hanno la responsabilità del ministero della memoria e dell'insegnamento hanno accettato espressioni della fede nuove e fino a quel momento poco comuni. Alcune di queste formulazioni hanno inizialmente generato dubbi e disaccordi sulla loro fedeltà alla Tradizione apostolica. Nel processo di verifica di tali formulazioni la chiesa si è mossa con prudenza, ma confidando nella promessa di Cristo che essa persevererà e sarà custodita nella verità (cf. Mt 16,18; Gv 16,13). Questo è ciò che si intende per indefettibilità della chiesa (cf. Autorità nella chiesa I, n. 18; Autorità nella chiesa II, n. 23).

42. Nella sua vita che procede, la chiesa cerca e riceve la guida dello Spirito Santo che mantiene il suo insegnamento fedele alla Tradizione apostolica. Entro l'intero corpo, spetta al collegio dei vescovi esercitare il ministero della memoria a questo scopo. Sta a loro discernere e impartire quell'insegnamento che può essere accolto con fiducia perché esprime con sicurezza la verità di Dio. In alcune situazioni, ci potrà essere un bisogno urgente di verificare nuove formulazioni di fede. In circostanze specifiche, coloro che rivestono questo ministero di supervisione (episkope), assistiti dallo Spirito Santo, possono giungere insieme a un giudizio che, essendo fedele alla Scrittura e coerente con la Tradizione apostolica, è preservato dall'errore. Mediante tale giudizio, che è un'espressione rinnovata dell'unico «sì» di Dio in Gesù Cristo, la chiesa è custodita nella verità così che essa possa continuare a offrire il suo «Amen» alla gloria di Dio. Questo è ciò che si intende quando si afferma che la chiesa può insegnare infallibilmente (cf. Autorità nella chiesa II, nn. 24-28.32). Tale insegnamento infallibile è al servizio della indefettibilità della chiesa.

43. L'esercizio dell'autorità di insegnare nella chiesa, specialmente in situazioni di difficoltà, richiede la partecipazione, nei loro modi peculiari, dell'intero corpo dei credenti, non solo di coloro che hanno la responsabilità del ministero della memoria. In questa partecipazione è all'opera il sensus fidelium. Dal momento che è in gioco la fedeltà dell'intero popolo di Dio, la recezione dell'insegnamento è parte integrante del processo. Le definizioni dottrinali sono recepite come autoritative (authoritative) in virtù della verità divina che esse proclamano, e anche a motivo dell'ufficio specifico della persona o delle persone che le proclamano all'interno del sensus fidei dell'intero popolo di Dio. Quando il popolo di Dio risponde per fede e dice «Amen» all'insegnamento autoritativo, è perché esso riconosce che questo insegnamento esprime la fede apostolica e agisce nell'autorità e nella verità di Cristo, il capo della chiesa.2 La verità e l'autorità del suo capo è la fonte dell'insegnamento infallibile nel corpo di Cristo. Il «sì» di Dio rivelato in Cristo è il criterio con il quale tale insegnamento autoritativo viene giudicato. Tale insegnamento va accolto con gioia dal popolo di Dio come un dono dello Spirito Santo per custodire la chiesa nella verità di Cristo, il nostro «Amen» a Dio.

44. Il dovere di custodire la chiesa nella verità è una delle funzioni essenziali del collegio episcopale. Esso ha il potere di esercitare questo ministero perché è legato nella successione agli apostoli, che erano il corpo autorizzato e inviato da Cristo a predicare il Vangelo a tutte le nazioni. L'autoritatività dell'insegnamento di un singolo vescovo è evidente quando questo insegnamento è in solidarietà con quello dell'intero collegio episcopale. L'esercizio di questa autorità di insegnare richiede che ciò che viene insegnato sia fedele alla sacra Scrittura e coerente con la Tradizione apostolica. È quanto espresso dall'insegnamento del concilio Vaticano II: «Il magistero però non è al di sopra della parola di Dio, ma la serve» (costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina rivelazione, n. 10; EV 1/887).

Il primato: l'esercizio dell'autorità nella collegialità e nella conciliarità

45. Nel corso della storia la sinodalità della chiesa è stata servita mediante l'autorità conciliare, collegiale e primaziale. Esistono forme di primato sia nella Comunione anglicana sia nelle chiese in comunione con il vescovo di Roma. Tra queste ultime, l'ufficio dell'arcivescovo metropolita o del patriarca di una chiesa cattolica orientale è primaziale per natura. Ogni provincia ecclesiastica anglicana ha il suo primate, e l'Assemblea dei primati serve l'intera Comunione. L'arcivescovo di Canterbury esercita un ministero primaziale per l'intera Comunione anglicana.

46. L'ARCIC ha già riconosciuto che «il modello di complementarietà tra gli aspetti primaziali e conciliari dell'episkope al servizio della koinonia delle chiese deve essere realizzato sul piano universale» (Autorità nella chiesa I, n. 23; EO 1/88). Le esigenze della vita ecclesiale richiedono un esercizio specifico dell'episkope al servizio della chiesa intera. Nel modello che si trova nel Nuovo Testamento uno dei dodici è scelto da Gesù Cristo per confermare gli altri, così che essi possano restare fedeli alla loro missione e in armonia l'uno con l'altro (vedi la discussione dei testi petrini in Autorità nella chiesa II, nn. 2-5). Agostino di Ippona ha espresso molto bene il rapporto esistente tra Pietro, gli altri apostoli e la chiesa intera quando ha detto:

«Non ricevette infatti queste chiavi un solo uomo, ma la Chiesa nella sua unità. In forza di ciò, quindi, si celebra la riconosciuta preminenza di Pietro, in quanto rappresentò la chiesa nella sua stessa universalità ed unità allora che gli fu detto: A te consegno quello che fu dato a tutti. Perché dunque possiate comprendere che la chiesa ha ricevuto le chiavi del regno dei cieli, desunto da un altro passo, ascoltate che cosa il Signore vuol dire a tutti i suoi apostoli: Ricevete lo Spirito Santo. E immediatamente: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi (Gv 20,22-23). Questo è in rapporto alle chiavi delle quali fu detto: Tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo; e tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo (Mt 16,19). Ma disse questo a Pietro…Pietro impersonava allora la chiesa universale» (Discorso 295, Nel Natale degli Apostoli Pietro e Paolo).3

L'ARCIC ha anche esaminato a suo tempo la trasmissione del ministero primaziale esercitato dal vescovo di Roma (cf. Autorità nella chiesa II, nn. 6-9). Storicamente, il Vescovo di Roma ha esercitato tale ministero sia a beneficio della chiesa intera, come quando Leone I Magno diede il suo contributo al concilio di Calcedonia, sia a beneficio di una chiesa locale, come quando Gregorio Magno sostenne la missione di Agostino di Canterbury e l'ordinamento della chiesa inglese. Questo dono è stato accolto con grande favore e il ministero di questi vescovi di Roma continua a essere celebrato a livello liturgico sia dagli anglicani sia dai cattolici.

47. Entro il suo più ampio ministero, il vescovo di Roma offre un ministero specifico riguardante il discernimento della verità, come un'espressione del primato universale. Questo servizio particolare è stato fonte di difficoltà e di fraintendimenti tra le chiese. Ogni definizione solenne pronunciata dalla cattedra di Pietro nella chiesa di Pietro e Paolo può, tuttavia, esprimere solo la fede della chiesa. Qualsiasi definizione del genere è pronunciata all'interno del collegio di coloro che esercitano l'episkope e non al di fuori di quel collegio. Tale insegnamento autoritativo è un esercizio particolare della vocazione e della responsabilità del corpo dei vescovi di insegnare e confermare la fede. Quando la fede è espressa in questo modo, il vescovo di Roma proclama la fede delle chiese locali. Quindi nel giudizio del primate universale è in atto l'insegnamento totalmente affidabile della chiesa intera. Nel formulare solennemente tale insegnamento, il primate universale deve discernere e proclamare, con l'assistenza e la guida dello Spirito Santo che gli sono assicurate, in fedeltà alla Scrittura e alla Tradizione, la fede autoritativa della chiesa intera, ossia, la fede proclamata fin dal principio. Ogni vescovo esprime con il corpo dei vescovi in concilio questa fede, la fede di tutti i battezzati in comunione, e questa soltanto. È questa la fede che il vescovo di Roma in determinate circostanze ha il dovere di discernere e di rendere esplicita. Questa forma di insegnamento autoritativo non ha una garanzia più solida dallo Spirito di quella che hanno le definizioni solenni dei concili ecumenici. La recezione del primato del vescovo di Roma implica il riconoscimento di questo specifico ministero del primate universale. Noi crediamo che questo dono vada recepito da tutte le chiese.

48. I ministri che Dio dà alla chiesa per sostenere la sua vita sono segnati dalla fragilità: «Perciò, investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d'animo…Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4,1; 4,7).

È chiaro che solo per la grazia di Dio l'esercizio dell'autorità nella comunione della chiesa porta i segni dell'autorità propria di Cristo. Questa autorità è esercitata da cristiani fragili per il bene di altri cristiani fragili. Questo non è meno vero per il ministero di Pietro: «Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32; cf. Gv 21,15-19).

Papa Giovanni Paolo II chiarisce questa idea nell'enciclica Ut unum sint: «Io svolgo [questo impegno] con la convinzione profonda di ubbidire al Signore e con la piena consapevolezza della mia umana fragilità. Infatti, se Cristo stesso ha affidato a Pietro questa speciale missione nella chiesa e gli ha raccomandato di confermare i fratelli, Egli gli ha fatto conoscere allo stesso tempo la sua debolezza umana ed il suo particolare bisogno di conversione» (Ut unum sint, n. 4; EV 14/2673).

La debolezza e il peccato dell'essere umano non toccano solo i singoli ministri: possono stravolgere le strutture umane dell'autorità (cf. Mt 23). Perciò la critica leale e le riforme sono talvolta necessarie, seguendo l'esempio di Paolo (cf. Gal 2,11-14). La coscienza della fragilità umana nell'esercizio dell'autorità assicura che i ministri cristiani rimangano aperti alla critica e al rinnovamento e soprattutto a un esercizio dell'autorità secondo l'esempio e i sentimenti di Cristo.

La disciplina: l'esercizio dell'autorità e la libertà di coscienza

49. L'esercizio dell'autorità nella chiesa va riconosciuto e accettato come uno strumento dello Spirito di Dio per la guarigione dell'umanità. L'esercizio dell'autorità deve sempre rispettare la coscienza, perché l'opera divina della salvezza afferma la libertà della persona umana. Nell'accogliere liberamente la via della salvezza offerta mediante il battesimo, il discepolo cristiano liberamente accetta anche la disciplina di membro del corpo di Cristo. Poiché la chiesa di Dio è riconosciuta come la comunità in cui sono all'opera i mezzi divini della salvezza, le esigenze della sequela per il bene dell'intera comunità cristiana non possono essere rifiutate. Anche nell'esercizio dell'autorità è richiesta una disciplina. Coloro che sono chiamati a tale ministero devono essi stessi sottomettersi alla disciplina di Cristo, osservare le esigenze della collegialità e del bene comune, e rispettare debitamente le coscienze di coloro che sono chiamati a servire.

L’«Amen» della chiesa al «sì» di Dio nel Vangelo

50. Siamo giunti a una comprensione condivisa dell'autorità considerandola, nella fede, come una manifestazione del «sì» di Dio alla sua creazione, che suscita l’«Amen» delle sue creature. Dio è la fonte dell'autorità, e il retto esercizio dell'autorità è sempre ordinato al bene comune e al bene della persona. In un mondo lacerato, e a una chiesa divisa, il «sì» di Dio in Gesù Cristo porta la realtà della riconciliazione, la chiamata alla sequela, e un'anticipazione del fine ultimo dell'umanità, quando per mezzo dello Spirito tutti e tutto in Cristo pronunceranno il loro «Amen» alla gloria di Dio. Il «sì» di Dio, incarnato in Cristo, è recepito nella proclamazione e nella Tradizione del Vangelo, nella vita sacramentale della chiesa e nei modi in cui è esercitata l'episkope. Quando le chiese, attraverso il loro esercizio dell'autorità, rendono manifesta la potenza risanatrice e riconciliante del Vangelo, allora viene offerta a tutto il mondo la visione di ciò che Dio vuole per tutto il creato. Il fine dell'esercizio dell'autorità e quello della sua recezione è rendere la chiesa capace di dire «Amen» al «sì» di Dio nel Vangelo.

 

IV. Accordo nell'esercizio dell'autorità: passi verso l'unità visibile  

51. Sottoponiamo questa dichiarazione comune sull'autorità nella chiesa alle nostre rispettive autorità. Riteniamo che se questa dichiarazione sulla natura dell'autorità e sul modo di esercitarla sarà accolta e messa in pratica, tale questione non sarà più tra le cause della persistente rottura della comunione tra le nostre due chiese. Pertanto, presentiamo qui di seguito alcune degli elementi di questo accordo, i recenti sviluppi significativi in ciascuna delle nostre comunità e alcuni problemi che esse devono ancora affrontare. Poiché ci stiamo muovendo verso la piena comunione ecclesiale, proponiamo dei modi in cui la nostra attuale comunione, sebbene imperfetta, potrà essere resa più visibile attraverso l'esercizio di una rinnovata collegialità tra i vescovi e un esercizio e una recezione rinnovati del primato universale.

Progressi nell'accordo

52. La Commissione è dell'opinione che abbiamo approfondito e ampliato il nostro accordo su:

  • come l'autorità di Cristo è presente e attiva nella chiesa quando la proclamazione del «sì» di Dio suscita l’«Amen» di tutti i credenti (nn. 7-18);
  • l'interdipendenza dinamica di Scrittura e Tradizione apostolica e il ruolo normativo della Scrittura entro la Tradizione (nn. 19-23);
  • la necessità di una recezione continua della Scrittura e della Tradizione, e in circostanze particolari di una ri-recezione (nn. 24-26);
  • come l'esercizio dell'autorità è al servizio della fede personale entro la vita della chiesa (nn. 23; 29 e 49);
  • il ruolo dell'intero popolo di Dio, all'interno del quale, come maestri della fede, i vescovi hanno una voce distinta nella formazione e nell'espressione di ciò che la chiesa intende (nn. 29-30);
  • la sinodalità e le sue implicazioni per la comunione dell'intero popolo di Dio e di tutte le chiese locali allorché insieme cercano di seguire Cristo che è la Via (nn. 34-40);
  • la fondamentale cooperazione del ministero dell'episkope e del sensus fidei della chiesa intera nella recezione della parola di Dio (nn. 29; 36 e 43);
  • la possibilità, in determinate circostanze, che la chiesa insegni infallibilmente al servizio della indefettibilità della chiesa (nn. 41-44);
  • un primato universale, esercitato collegialmente nel contesto della sinodalità, come parte integrante dell'episkope al servizio della comunione universale; il quale primato è sempre stato associato con il vescovo e la sede di Roma (nn. 46-48);
  • come il ministero del vescovo di Roma assiste il ministero dell'intero corpo episcopale nel contesto della sinodalità, promuovendo la comunione delle chiese locali nella loro vita in Cristo e la proclamazione del Vangelo (nn. 46-48);
  • come il vescovo di Roma offre uno specifico ministero riguardante il discernimento della verità (§ 47).

Sviluppi significativi in ambedue le comunioni

53. La Conferenza di Lambeth del 1988 ha riconosciuto la necessità di riflettere su come la Comunione anglicana elabora le decisioni autoritativhe. Al livello internazionale, gli strumenti anglicani della sinodalità hanno una considerevole autorità con cui influenzare e sostenere le province, tuttavia nessuno di questi strumenti ha il potere di annullare una decisione provinciale, anche se essa minaccia l'unità della Comunione. Di conseguenza, la Conferenza di Lambeth del 1998, alla luce del Rapporto di Virginia della Commissione dottrinale e teologica interanglicana, ha deliberato di potenziare questi strumenti in vari modi, in particolare il ruolo dell'arcivescovo di Canterbury e dell'Assemblea dei primati. La Conferenza ha anche richiesto all'Assemblea dei primati di avviare uno studio in ogni provincia per verificare «se l'effettiva comunione, a tutti i livelli, non richieda strumenti appropriati, con le dovute cautele, non solo a livello legislativo ma anche a livello di supervisione…nonché sul punto di un ministero universale a servizio dell'unità dei cristiani» (Risoluzione III, 8h; Regno-doc. 17,1998,585). Accanto all'autonomia delle province, gli anglicani stanno arrivando a comprendere che per promuovere la comunione è necessaria anche l'interdipendenza tra le chiese locali e tra le province.

54. La Chiesa cattolica romana, specialmente a partire dal concilio Vaticano II, è andata gradualmente sviluppando strutture sinodali per sostenere in modo più efficace la koinonia. Il successivo sviluppo del ruolo delle conferenze episcopali nazionali e regionali e la periodica convocazione di Assemblee generali del sinodo dei vescovi sono la dimostrazione di questa evoluzione. C'è stato anche un rinnovamento nell'esercizio della sinodalità a livello locale, anche se questo dato varia da luogo a luogo. La legislazione canonica ora richiede che donne e uomini laici, religiosi e religiose, diaconi e presbiteri partecipino ai consigli pastorali diocesani e parrocchiali, ai sinodi diocesani e ad una varietà di altri organismi, ogni volta che questi sono convocati.

55. Nella Comunione anglicana c'è una tensione verso strutture universali che promuovano la koinonia, e nella Chiesa cattolica romana un potenziamento delle strutture locali e intermedie. Secondo noi questi sviluppi riflettono una crescente consapevolezza condivisa che l'autorità nella chiesa ha bisogno di essere rettamente esercitata a tutti i livelli. Ciononostante vi sono ancora problemi che devono essere affrontati dagli anglicani e dai cattolici su aspetti importanti dell'esercizio dell'autorità al servizio della koinonia. La Commissione pone esplicitamente alcune domande, ma nella convinzione che per rispondere abbiamo bisogno del sostegno reciproco. Crediamo che nella situazione dinamica e fluida in cui queste domande vengono poste, il tentativo di trovare le risposte deve procedere in parallelo allo sviluppo di passi ulteriori verso un esercizio condiviso dell'autorità.

I problemi degli anglicani

56. Abbiamo visto che per sostenere la comunione sono necessari a tutti i livelli degli strumenti per la supervisione e il processo decisionale. In considerazione di questo la Comunione anglicana sta esaminando lo sviluppo di strutture di autorità tra le sue province. La Comunione è disposta anche ad accettare strumenti di supervisione che consentano di prendere decisioni che, in certe circostanze, siano vincolanti per la chiesa intera? Quando sorgessero nuovi gravi problemi che, nella fedeltà alla Scrittura e alla Tradizione, richiedano una risposta congiunta, queste strutture aiuteranno gli anglicani a partecipare al sensus fidelium con tutti i cristiani? Fino a che punto un'azione unilaterale da parte di province o di diocesi in materie riguardanti la chiesa intera, anche dopo che ha avuto luogo una consultazione, potrà indebolire la koinonia? Gli anglicani si sono mostrati disposti a tollerare anomalie pur di conservare la comunione. Tuttavia questo ha provocato il deterioramento della comunione, che si è manifestato nell'eucaristia, nell'esercizio dell'episkope e nell’intercambiabilità del ministero. Quali conseguenze ne derivano? Soprattutto, in che modo gli anglicani affronteranno la questione del primato universale quale sta emergendo dalla loro vita insieme e dal dialogo ecumenico?

I problemi dei cattolici

57. Il Concilio Vaticano II ha ricordato ai cattolici che i doni di Dio sono presenti in tutto il popolo di Dio. Ha anche insegnato la collegialità dell'episcopato in comunione con il vescovo di Roma, capo del collegio. Tuttavia, esiste a tutti i livelli una partecipazione effettiva del clero nonché dei laici agli organi sinodali emergenti? L'insegnamento del concilio Vaticano II sulla collegialità dei vescovi è stato sufficientemente messo in pratica? Le azioni dei vescovi riflettono una sufficiente consapevolezza del grado di autorità che essi ricevono attraverso l'ordinazione per il governo della chiesa locale? È stato fatto abbastanza per assicurare la consultazione tra il vescovo di Roma e le chiese locali prima che vengano prese importanti decisioni che interessano una chiesa locale o la chiesa intera? Quant'è ampia la gamma delle opinioni teologiche considerate quando vengono prese tali decisioni? Nel sostenere il vescovo di Roma nell'opera di promozione della comunione tra le chiese, le strutture e le procedure della curia romana rispettano in maniera adeguata l'esercizio dell'episkope agli altri livelli? Soprattutto, in che modo la Chiesa cattolica romana affronterà il problema del primato universale quale emerge dal «dialogo fraterno, paziente» sull'esercizio dell'ufficio del vescovo di Roma al quale Giovanni Paolo II ha invitato «i responsabili ecclesiali e i loro teologi»?

Collegialità rinnovata: rendere visibile la comunione che esiste tra noi

58. Gli anglicani e i cattolici stanno già affrontando questi problemi, ma per la loro soluzione potrà occorrere del tempo. Tuttavia, non c'è alcun ripensamento nel nostro cammino verso la piena comunione ecclesiale. Alla luce del nostro accordo la Commissione ritiene che le nostre due comunioni dovranno rendere più visibile la koinonia che già abbiamo. Il dialogo teologico deve continuare a tutti i livelli nelle chiese, ma da solo non è sufficiente. Per il bene della koinonia e di una testimonianza cristiana unita di fronte al mondo, i vescovi anglicani e cattolici dovranno trovare dei modi di cooperazione e di sviluppo di relazioni di reciproca responsabilità nel loro esercizio della supervisione. In questa nuova fase noi non dobbiamo solo fare insieme tutto quello che possiamo, ma anche essere insieme tutto quello che la koinonia che esiste tra di noi consente.

59. Tale cooperazione nell'esercizio dell'episkope implica che i vescovi si incontrino regolarmente insieme a livello regionale e locale e che i vescovi appartenenti a una comunione partecipino agli incontri internazionali dei vescovi dell'altra comunione. Si dovrà anche prendere in seria considerazione l'associazione dei vescovi anglicani ai vescovi cattolici nelle visite ad limina a Roma. Dovunque fosse possibile, i vescovi dovranno cogliere l'opportunità di insegnare e di agire in materie di fede e di costumi. Dovranno anche testimoniare insieme nella sfera pubblica su questioni che interessino il bene comune. Aspetti pratici specifici della condivisione dell'episkope emergeranno poi dalle iniziative locali.

Il primato universale: un dono che va condiviso

60. Il lavoro della Commissione ha prodotto un accordo sufficiente sul primato universale come un dono che va condiviso e ci ha portato a proporre che tale primato possa essere offerto e recepito anche prima che le nostre chiese siano in piena comunione. Sia i cattolici sia gli anglicani pensano a questo ministero esercitato nella collegialità e nella sinodalità – un ministero di servus servorum Dei (Gregorio Magno, citato in Ut unum sint, n. 88). Immaginiamo un primato che possa aiutarci anche adesso a sostenere la legittima diversità delle tradizioni, rafforzandole e salvaguardandole nella fedeltà al Vangelo. Sarà di incoraggiamento alle chiese nella loro missione. Un tal genere di primato aiuta già la chiesa sulla terra ad essere l'autoritativa koinonia cattolica nella quale l'unità non sminuisce la diversità, e la diversità non mette in pericolo ma accresce l'unità. Per tutti i cristiani sarà un segno efficace del modo in cui questo dono di Dio edifica quell'unità per la quale Cristo ha pregato.

61. Tale primate universale eserciterà la leadership nel mondo e anche in ambedue le comunioni, rivolgendosi a esse in un modo profetico. Egli promuoverà il bene comune in modi non condizionati da interessi di parte, e offrirà un ministero di insegnamento permanente e distinto, affrontando in particolare questioni teologiche e morali complesse. Un primato universale che abbia questo stile accoglierà con favore e promuoverà l'indagine teologica ed altre forme di ricerca della verità, così che i loro risultati possano arricchire e rafforzare sia la sapienza umana sia la fede della chiesa. Tale primato universale potrebbe radunare le chiese in vari modi per la consultazione e la discussione.

62. Un'esperienza di primato universale di questo tipo confermerebbe due conclusioni particolari che abbiamo raggiunto:

  • che gli anglicani sono disponibili a un recupero e alla ri-recezione, sotto chiare condizioni, dell'esercizio del primato universale da parte del vescovo di Roma, e li desiderano;
  • che i cattolici sono pronti a una ri-recezione dell'esercizio del primato da parte del vescovo di Roma e all'offerta di un tale ministero all'intera chiesa di Dio, e le desiderano.

63. Quando la comunione reale sebbene imperfetta tra di noi è resa più visibile, si amplia e si rafforza la trama dell'unità che è intessuta dalla comunione con Dio e dalla riconciliazione tra gli uni e gli altri. In tal modo, l’«Amen» che gli anglicani e i cattolici dicono all'unico Signore si avvicina a essere un «Amen» detto insieme dall'unico popolo santo che rende testimonianza della salvezza e dell'amore riconciliante di Dio in un mondo lacerato.