Omelia per la celebrazione eucaristica con il Comitato Cattolico
(Cappella di Casa Santa Marta in Vaticano, 14 gennaio 2023)

 

 

L’ECUMENISMO COME IMPEGNO DI AVVENTO

 

Con la festa del battesimo del Signore abbiamo completato il ciclo delle festività natalizie e siamo entrati nel tempo ordinario. Ma già nella prima domenica dell’anno liturgico, ci vengono presentati Giovanni Battista e la sua testimonianza su Gesù. Giovanni Battista è la figura per eccellenza dell’Avvento, una figura che ci ha accompagnato per tutto il tempo dell’Avvento. Egli è il precursore di Gesù, più precisamente colui che non indica sé stesso, ma indica un altrove, un futuro, il futuro della venuta di Gesù, e lo precede. Giovanni Battista ci mostra cosa significa vivere nell’Avvento, ovvero attendere il Messia che viene e andargli incontro.

 

L’ecumenismo sempre nell’Avvento

Incontrando Giovanni Battista già nel vangelo della prima domenica del tempo ordinario, inevitabilmente ci chiediamo se, così presto dopo il Natale, dovremmo essere riportati nell’Avvento. Questa è precisamente l’intenzione della Chiesa con il suo calendario liturgico. La Chiesa vuole ricordarci che non possiamo mai − nemmeno dopo il Natale – lasciarci alle spalle l’Avvento e la missione dell’Avvento di Giovanni Battista, ma dobbiamo tornarvi continuamente, indicando Cristo e preparando la via per lui. Come cristiani, non viviamo infatti l’Avvento solo nelle quattro settimane dell’Avvento, ma sempre, durante tutto l’anno liturgico. I cristiani sono pienamente persone dell’Avvento; e la Chiesa è una comunità di speranza dell’Avvento in tutto e per tutto.

Questa considerazione vale anche e soprattutto per l’impegno ecumenico che coinvolge tutti noi. Il lavoro ecumenico è un evento dell’Avvento. Consiste nel ritrovare l’unità che si è persa nella storia a causa delle tante divisioni. Come cristiani, siamo consapevoli che non siamo noi a creare l’unità, e che l’unità è piuttosto un dono non-manipolabile che solo lo Spirito Santo può farci. Siamo quindi chiamati ad essere Giovanni Battista per la venuta di questa unità. Ciò significa: indicare la futura unità e prepararle lstrada.

La prossima settimana inizierà di nuovo la Settimana mondiale di preghiera per l’unità dei cristiani. Essa ci ricorda che la migliore preparazione per ricevere il dono dell’unità dallo Spirito è la preghiera per l’unità dei cristiani. Nel pregare, un cristiano esprime la sua speranza in un potere che va al di là delle proprie capacità. La preghiera è il linguaggio della speranza o, come sottolinea nella sua Summa theologica san Tommaso d'Aquino, che ricorderemo alla fine del mese, la preghiera è il modo di interpretare la speranza. È eloquente il fatto che san Tommaso presenti il ​​suo trattato sulla speranza come interpretazione del Padre Nostro, che è di per sé una scuola di speranza e un esercizio concreto di speranza.[1] La preghiera è infatti speranza in azione.

La Chiesa primitiva testimoniava già la dimensione di speranza della preghiera, praticando la preghiera comune rivolta a est. Tale orientamento, ovvero il pregare insieme rivolti verso l’oriente, risale ai primi tempi della Chiesa ed è riconosciuto come tradizione apostolica. Ciò è particolarmente vero per la celebrazione dell’Eucaristia nella Chiesa antica: dopo la conclusione della Liturgia della Parola, che avveniva presso il seggio del vescovo, tutti, insieme al vescovo, si dirigevano verso l’altare, esclamando: “Conversi ad Dominum!”, che significa: guardate insieme ad oriente, contemplando l’alba definitiva della storia umana, sorta con Gesù Cristo. L’Eucaristia è quindi fondamentalmente una celebrazione dell’Avvento: un riferimento alla venuta del Signore nella comunità dei fedeli riuniti per il culto.

 

L’agnello come modello ecumenico

Questo è anche l’atteggiamento di fondo di Giovanni Battista che ci viene presentato oggi dal vangelo odierno. Di lui si dice che, nel vedere Gesù venirgli incontro, esclamò: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”  (Gv 1,29). Questa è la testimonianza cruciale di Giovanni Battista. In particolare, Giovanni richiama la nostra attenzione sul fatto che Gesù ci incontra in un modo che noi uomini non ci saremmo mai aspettati e non ci aspetteremmo mai.

Ad essere sinceri, noi uomini non ci aspetteremmo il Redentore come un agnello, ma come un leone capace di scardinare il mondo e le sue strutture malvage con tutta la forza delle sue zampe, e di creare un mondo nuovo. Non è sicuramente un caso che i governanti del nostro mondo si siano più volte presentati con l’immagine di un leone per celebrare il loro potere. Eppure, Gesù Cristo non è venuto nel mondo come un leone. La fede cristiana proclama che la nostra salvezza non viene per mezzo di animali grandi e potenti, ma che Gesù si offre a noi come un agnello, nella forza del suo amore indifeso, che naturalmente è la forma concreta del suo vero potere. Sulla croce, Gesù Cristo si è manifestato come il buon pastore del popolo, colui che si schiera dalla parte degli agnelli maltrattati e diventa lui stesso agnello. In tal modo, egli ci ha mostrato che preferisce farsi inchiodare alla croce da noi uomini piuttosto che usare lui stesso un qualsiasi tipo di violenza.

“Dio viene come un agnello, questa è la redenzione del mondo”[2]: in questa frase semplice ma densa di senso, Papa Benedetto XVI ha condensato il messaggio cristiano di salvezza. Vale anche e soprattutto per quanto riguarda gli sforzi ecumenici. Allora, ancora una volta, siamo onesti: non ci capita forse di sperare che la questione ecumenica venga risolta da un leone che batte con forza la sua zampa sul tavolo per realizzare l’unità dei cristiani? Eppure, il vangelo odierno ci dice di non aspettare un leone, ma di sperare solo nell’Agnello. Solo lui può “togliere” i gravi peccati delle divisioni nella Chiesa. Ma l’Agnello lo fa a modo suo: come sulla croce è risultato evidente che l’amore, se veramente vuole redimere, non può essere senza sacrificio e non può non comprendere il dono di sé per il bene degli altri, così l’unità dei cristiani può essere trovata solo sotto la croce di Gesù e con la nostra partecipazione alla sua croce. L’unità può trovarla solo chi, insieme all’Agnello, soffre per la mancata unità e la mancata conciliazione, che segnano tuttora la cristianità. Al contrario, coloro che non vedono alcuna ragione per tale sofferenza rendono insensati e quindi superflui gli sforzi ecumenici.

Se, nel nostro impegno ecumenico, invece di orientarci verso il leone ci orientiamo verso l’Agnello, riscopriremo in modo nuovo che il lavoro ecumenico dovrà essere guidato da due virtù: da un lato, abbiamo bisogno di passione per l’unità, nella convinzione che l’unità corrisponde alla volontà del Signore; dall’altro, se tale passione per l’unità non vuole porsi sotto il segno dell’autopotenziamento del leone, ma dell’amore dell’Agnello, allora dovrà essere accompagnata dalla virtù della pazienza, che, secondo la bella espressione del filosofo francese Charles Péguy, è la sorella minore della speranza.

 

La professione comune della fede in Cristo come opportunità ecumenica

In questa speranza rivolgiamo dunque la nostra attenzione alla testimonianza fondamentale di Giovanni Battista, il quale confessa, al termine dell’odierno brano evangelico: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio” (Gv 1,34). La fede cristiana sta e cade con questa confessione. Pertanto, l’unità dei cristiani può essere riscoperta solo nella confessione di quest’unica fede.

È quello che ci ricorda un grande giubileo al quale ci stiamo avvicinando: nel 2025 commemoreremo il Primo Concilio Ecumenico tenutosi 1700 anni fa a Nicea. Tale Concilio ha il grande merito di aver formulato la confessione cristologica professando Gesù Cristo come il Figlio di Dio “della stessa sostanza del Padre”. Poiché questo Concilio ebbe luogo nel periodo in cui la cristianità non era ancora stata lacerata dalle numerose divisioni successive, la sua confessione unisce ancora oggi tutte le Chiese e le Comunità ecclesiali cristiane; grande è dunque la sua importanza ecumenica. Affinché si giunga alla ricomposizione ecumenica dell’unità, occorre infatti essere concordi sulla professione fondamentale di fede, non solo tra le Chiese di oggi, ma anche in accordo con la Chiesa del passato e, soprattutto, con la sua origine apostolica.

Anche in termini di tempo, quindi, siamo nell’attesa, siamo nell’Avvento. Preghiamo e lavoriamo affinché la commemorazione dei 1700 anni del Concilio di Nicea nel 2025 diventi un’occasione propizia per riaffermare la verità cristologica della sua professione di fede, nella comunione ecumenica. Gli sforzi ecumenici avranno infatti esiti fecondi se l’ecumenismo non sarà visto semplicemente come un programma politico-ecclesiale, ma come una questione di fede, e se la responsabilità ecumenica verrà assunta come un impegno non solo a far crescere la fede in ampiezza, ma soprattutto ad ancorarla nella sua profondità.

Quanto appena detto è evidente dal fatto che, anche nella Chiesa di oggi, è tuttora sperimentabile ciò che scrive l’apostolo Paolo alla “Chiesa di Dio che è in Corinto” e più precisamente a “coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro” (1Cor 1,2). Se lo sforzo ecumenico si concentrerà così sulla confessione e sull’annuncio di Gesù Cristo che viene a noi nella sua continua parusia, sarà allora chiaro che l’ecumenismo è un impegno dell’Avvento, e chiara sarà la consapevolezza di avere la stessa missione assunta da Giovanni Battista, missione che ci viene giustamente riproposta nella liturgia odierna.

 

 

[1]. Tommaso d’Aquino, S. Th. II-II qu 17 a 4.
[2]. J. Ratzinger, Freude in Christus, in: Ders., Künder des Wortes und Diener Eurer Freude. Theologie und Spiritualität des Weihesakramentes = Gesammelte Schriften. Band 12 (Freiburg i. Br. 2010) 642-649, zit. 643.