È POSSIBILE UN’UNITA SACRAMENTALE TRA CATTOLICI E ORTODOSSI?[1]

 

(Conferenza presso l’Università di Presov, Slovacchia, 28 marzo 2023)

 

 

1. Ripristinare l’amore con la forza della giustizia

“Senza dubbio, fra le Chiese e le comunità cristiane, l’Ortodossia, teologicamente, è la più vicina a noi; cattolici ed ortodossi hanno conservato la medesima struttura della Chiesa delle origini; in questo senso tutti noi siamo ‘Chiesa delle origini’, che tuttavia è sempre presente e nuova.”[2] Con queste parole, Papa Benedetto XVI, in un incontro con i rappresentanti delle Chiese ortodosse, ha espresso la convinzione che la comunione tra la Chiesa cattolica e le Chiese d’Oriente sia molto stretta e che quindi sia urgente superare la grande divisione nella Chiesa tra Oriente e Occidente e ristabilire la comunione eucaristica.

L’obiettivo del ripristino della comunione eucaristica era già presente all’inizio del dialogo ecumenico tra le Chiese ortodosse e la Chiesa cattolica, vale a dire al momento dello storico incontro tra il Patriarca ecumenico Athenagoras di Costantinopoli e il Vescovo di Roma, Papa Paolo VI, tenutosi il 5 e 6 gennaio 1964 a Gerusalemme. Questo incontro rappresenta per noi un’icona duratura di volontà di riconciliazione. La volontà, annunciata da entrambe le parti, di ristabilire l’amore tra le due comunità ecclesiali fu suggellata da un bacio fraterno. Poiché l’agape e il bacio fraterno sono il punto di approdo e il rito dell’unità eucaristica in senso proprio, l’incontro di Gerusalemme tendeva già all’unione nella comunione eucaristica, che deve essere la meta di questo cammino comune. Là dove l’agape è seriamente vissuta come realtà ecclesiale, essa, per essere credibile, deve diventare anche agape eucaristica. Ciò corrispondeva all’intenzione del Patriarca Athenagoras e di Papa Paolo VI, che nell’incontro di Gerusalemme hanno intravisto l’alba di un nuovo giorno in cui le generazioni future avrebbero lodato insieme l’unico Signore attraverso la partecipazione al suo Corpo e Sangue eucaristico.

Il memorabile incontro di Gerusalemme preparò il terreno a quello del 7 dicembre 1965, quando nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio al Fanar a Costantinopoli e nella Basilica di San Pietro a Roma i massimi rappresentanti delle due comunità ecclesiali cancellarono gli anatemi reciproci del 1054 “dalla memoria e dal mezzo della Chiesa”, come si legge nella dichiarazione congiunta, affinché non potessero più rappresentare “un ostacolo al riavvicinamento nell’amore”[3]. Nel consegnare all’oblio le sentenze di scomunica del 1054, in maniera solenne e legalmente vincolante, Papa Paolo VI e il Patriarca Athenagora dichiararono anche che esse non appartenevano più all’inventario ufficiale delle Chiese.

Con questo atto, il veleno della scomunica fu estratto dall’organismo della Chiesa e il “simbolo della divisione” venne sostituito dal “simbolo dell’amore”; nelle parole dell’allora teologo Joseph Ratzinger, “il rapporto di ‘amore raffreddato’, di ‘contrapposizioni, diffidenze e antagonismi’, è stato sostituito dal rapporto di amore e fratellanza, simboleggiato dal bacio fraterno.”[4]

Questi eventi memorabili divennero il ​​punto di partenza del dialogo ecumenico dell’amore tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, che negli anni successivi si intensificò progressivamente grazie a un dinamico scambio di visite e di comunicazioni documentato nel “Tomos Agapis”. Il dialogo dell’amore deve oggi proseguire ed essere ulteriormente approfondito, anche perché esso rappresenta lo spazio vitale in cui può prosperare il dialogo della verità, ovvero l’accurato esame teologico delle differenze che ci separano e che devono essere superate per poter per rendere possibile la comunione ecclesiale ed eucaristica.

 

2. Il dialogo della verità: un’ampia condivisione di convinzioni di fede

Per affrontare la questione se e come sia possibile la comunione eucaristica tra cattolici e ortodossi, è necessario ripercorrere almeno brevemente i dialoghi ecumenici che si sono svolti finora, portati avanti soprattutto dalla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme.[5] I dialoghi ecumenici sono fruttuosi solo se guidati dalla verità della fede e non semplicemente da interessi politico-ecclesiali. Il nucleo centrale di tutti gli sforzi ecumenici consiste nel riconoscimento e nell’approfondimento della fede apostolica, che è stata donata e affidata a ogni membro del Corpo di Cristo nel battesimo.

Il Patriarca ecumenico Dimitrios I e Papa Giovanni Paolo II, in occasione della prima visita del Santo Padre al Fanar per la festa di Sant’Andrea nel 1979, proclamarono l’inizio di questi dialoghi della verità, formulandone l’obiettivo: “Il dialogo teologico non mira solo a un progresso verso il ripristino della piena comunione tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa; esso dovrebbe anche contribuire al multiforme dialogo che si sta sviluppando nel mondo cristiano alla ricerca della sua unità.”[6] Già l’anno successivo, le prime sessioni plenarie della Commissione mista internazionale a Patmos e a Rodi servirono a preparare il dialogo sia dal punto di vista metodologico sia in riferimento alle aree tematiche da affrontare durante la prima fase del dialogo.

Il dialogo teologico può partire dal fatto incoraggiante che la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa condividono un’ampia base di convinzioni di fede. Alla luce di questo buon punto di partenza, il dialogo ecumenico poté inizialmente concentrarsi sul consolidamento del comune fondamento della fede.

Il dialogo ecumenico si rivelò dunque estremamente fecondo nel primo decennio, dal 1980 al 1990, in cui vennero individuate ampie convergenze tra la teologia ortodossa e la teologia cattolica su questioni fondamentali della fede e importanti temi teologici.

All’inizio si trattò di affrontare la questione dell’interpretazione teologica del concetto di Chiesa, discussa durante l’Assemblea plenaria di Monaco del 1982 e definita con il documento “Il mistero della Chiesa e l’Eucaristia alla luce del mistero della Santa Trinità”. Questo testo spiega che la Chiesa, in quanto mistero di unità, si conforma al modello di comunione della Trinità divina e quindi si realizza primariamente nell’Eucaristia. Le successive Assemblee plenarie tenutesi a Chania nell’isola di Creta nel 1984 e a Bari nel 1987 trattarono il tema “Fede, sacramento e unità della Chiesa”. A conclusione di tali incontri fu pubblicato un documento con lo stesso titolo, nel quale si sottolinea che senza comunione nella fede non può esserci comunione nella comunione sacramentale. L’Assemblea plenaria di New Valamo, in Finlandia, nel 1988 discusse del significato teologico e della missione del ministero ordinato nella Chiesa e pubblicò l’importante documento: “Il sacramento dell’ordinazione nella struttura sacramentale della Chiesa, e in particolare l’importanza della successione apostolica per la santificazione e l’unità del popolo di Dio”. In quel momento, si era deciso che il futuro dialogo ecumenico avrebbe riflettuto sul primato del Vescovo di Roma, prevedendo che la successiva assemblea plenaria di Freising nel 1990 avrebbe affrontato, come primo passo, le conseguenze teologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa e, così facendo, la questione del rapporto tra autorità e conciliarità nella Chiesa.

Questo però non avvenne, perché nel secondo decennio, dal 1990 al 2000, le discussioni ecumeniche si sono fatte sempre più difficili. Uno dei motivi principali di tali difficoltà è stata la nuova situazione emersa dopo i cambiamenti politici del 1989. I mutamenti politici verificatisi nell’Europa orientale hanno spinto le Chiese cattoliche orientali, che erano state duramente perseguitate e annesse alla Chiesa ortodossa durante la dittatura di Stalin, in particolare in Ucraina, Transilvania e Romania, a uscire dalle catacombe e a tornare alla vita pubblica. Questo sviluppo ha riacceso le vecchie polemiche sull’uniatismo e sul proselitismo da parte ortodossa, portando a un drammatico deterioramento del clima del dialogo e a un cambiamento dei punti del giorno previsti nell’agenda ecumenica. L’Assemblea plenaria della Commissione riunitasi a Balamand nel 1993 si occupò di questo grave problema e produsse il documento intitolato: “L’uniatismo - un metodo di unione superato - e l’attuale ricerca della piena comunione”. In questo testo si afferma che, da un lato, l’uniatismo non può essere considerato né come “metodo da seguire” né come “modello per l’auspicata unità tra le nostre Chiese”, ma, dall’altro, che le Chiese orientali cattoliche unite a Roma in quanto “parte della comunità cattolica” hanno il diritto di esistere e di prendersi cura pastoralmente dei propri fedeli.

L’Assemblea plenaria di Baltimora nel 2000 si incentrò nuovamente sul problema dell’uniatismo, senza però giungere ad alcun risultato, tanto che i lavori della Commissione furono in seguito interrotti da parte ortodossa. Nonostante i progressi teologici realizzati in un lungo periodo di tempo, il dialogo teologico si era arenato a causa delle difficoltà legate all’uniatismo; e sembrava essere tornato al punto di partenza, almeno per quanto riguarda questa delicata questione.

 

3. Divisione teologica o reciproco estraniamento?

Nonostante questa (temporanea) impasse del dialogo ecumenico, è possibile, gettando uno sguardo al passato, guardare ad esso in modo positivo. È emersa infatti una base comune così ampia, per quanto riguarda le convinzioni di fede in generale e in particolare in merito al ministero ordinato, che è legittimo domandarsi se si debba continuare a parlare di scissione nella Chiesa tra Oriente e Occidente. Tradizionalmente lo scisma è associato all’anno 1054, quando furono pronunciate le reciproche scomuniche tra Roma e Costantinopoli. Tuttavia, questa è una data più simbolica che storica, tanto più che non ci fu uno scisma nel vero senso della parola tra Oriente e Occidente nella Chiesa, e non ebbe luogo alcuna reciproca condanna formale né nel 1054 né in un’altra data. Il teologo ortodosso Grigorius Larentzakis ha giustamente riassunto questo fatto importante nella breve formula: “Nessuno scisma, eppure separati”[7]. Non si dovrebbe quindi parlare di scissione, ma di crescente estraniamento nella Chiesa tra Oriente e Occidente.

Spiritualità diverse hanno svolto un ruolo non trascurabile in questo processo e hanno portato spesso a incomprensioni e a diffidenze, essendo in parte legate a questioni che oggi consideriamo superficiali ˗ come la barba del clero e altre norme disciplinari ˗ o che leggiamo come espressioni di una legittima diversità all’interno dell’unità, quali l’uso di pane lievitato o azzimo nella celebrazione dell’Eucaristia, o altre differenze attinenti ai riti e ai calendari liturgici. Hanno certamente contribuito a questo crescente allontanamento tra Oriente e Occidente anche diversi approcci teologici, che sono poi sfociati nella grande controversia del cosiddetto “filioque”, ovvero la professione di fede dei greci secondo cui lo Spirito Santo procede dal Padre, mentre per i latini esso procede dal Padre e dal Figlio. Tuttavia, anche questa divergenza non costituiva all’origine un conflitto importante. Solo in seguito, quando i fedeli trovarono sempre più difficile capirsi, le diverse visioni teologiche divennero causa di polemiche e la questione del “filioque” fu considerata la ragione più profonda del successivo scisma nella Chiesa.

Questi esempi mostrano che nella cristianità occidentale e orientale il vangelo di Gesù Cristo è stato ricevuto e trasmesso in modo diverso fin dall’inizio. Nonostante queste differenze, le comunità ecclesiali del primo millennio vivevano all’interno di un’unica Chiesa in Oriente e in Occidente.

Tuttavia, esse si allontanarono progressivamente le une dalle altre e iniziarono a comprendersi sempre meno[8], il che causò in larga misura la successiva separazione nella Chiesa tra Oriente e Occidente, come afferma giustamente il cardinale Walter Kasper: “I cristiani non si sono allontanati principalmente a causa delle loro dispute e delle loro differenti formulazioni dottrinali, ma si sono estraniati gli uni dagli altri per il loro diverso modo di vivere.”[9]

Se si riconosce il progressivo allontanamento reciproco come la vera causa della separazione successiva, allora sorge la domanda su come le Chiese oggi si vedano le une le altre. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, già con il Concilio Vaticano Secondo essa ha espresso un particolare apprezzamento per le Chiese d’Oriente, considerandole parte di una comunione fondamentale tra Chiese locali come Chiese sorelle[10], perché esse prevedono il ministero episcopale nella successione apostolica e tutti i validi sacramenti, tra cui in particolare l’Eucaristia, disponendo così di tutti gli elementi ecclesiali essenziali, che le costituiscono come Chiese particolari. E riconoscendo che le Chiese d’Oriente “quantunque separate hanno veri sacramenti”, la Chiesa cattolica ritiene anche che “una certa ‘communicatio in sacris’, presentandosi opportune circostanze e con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, non solo è possibile, ma anche consigliabile”[11].

Questo giudizio positivo nei confronti delle Chiese d’Oriente vale anche quando non esiste un rapporto vincolante tra di esse e colui che esercita il ministero petrino come fondamento gerarchico dell’unità tra le Chiese particolari e la Chiesa universale, e dell’unità tra le Chiese locali. Al riguardo, Papa Benedetto XVI si è spinto fino ad affermare che le Chiese orientali sono “vere Chiese particolari”, sebbene non siano in comunione con il Papa, e in questo senso l’unione con il Papa “non è costitutiva per la Chiesa particolare”. Tuttavia, questa mancanza di unità è anche una “mancanza interna della Chiesa particolare” e, pertanto, la mancanza di comunione con il Papa è “un’insufficienza di questa cellula vitale”. In sintesi, il Papa sostiene: “Resta una cellula, può chiamarsi Chiesa, ma nella cellula manca un elemento, e cioè il collegamento con l’intero organismo”[12]. Su ciò dovremo ritornare.

Il modo in cui le Chiese ortodosse vedono la Chiesa cattolica e giudicano i sacramenti in essa celebrati non posso dirlo: devo lasciare questo giudizio a tali Chiese. Durante il Sinodo ortodosso riunitosi a Creta nel 2016 hanno avuto luogo discussioni approfondite sulla possibilità di una Chiesa al di fuori della Chiesa ortodossa. Il Sinodo ha risolto questo problema giungendo a un compromesso:

la Chiesa ortodossa riconosce “la denominazione storica di altre Chiese cristiane non ortodosse e di confessioni non in comunione con essa”, senza sacrificare l’unità della Chiesa “nella sua natura ontologica”[13]. Con un’interpretazione benevola e ottimista, si può leggere il riconoscimento della Chiesa cattolica come Chiesa in questa affermazione.

 

4. Il primato come questione cruciale

Il mutuo riconoscimento come Chiese si basa essenzialmente sul fatto che ortodossi e cattolici hanno conservato la struttura ecclesiologica di base sviluppatasi a partire dal II secolo, ovvero la struttura sacramentale-eucaristica ed episcopale della Chiesa, nel senso che in entrambe le comunità ecclesiali l’unità nell’Eucaristia e il ministero episcopale nella successione apostolica sono considerati costitutivi dell’essere Chiesa. In virtù di questa struttura fondamentale esiste un grande accordo tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse.

In questa struttura ecclesiale, però, vi è un elemento essenziale che è ancora considerato controverso, vale a dire la diversa interpretazione del ministero del Vescovo di Roma. Il punto veramente controverso ruota intorno al fatto che, sebbene l’ortodossia riconosca il Vescovo di Roma al primo posto nella taxis delle sedi, come già stabilito nel Concilio di Nicea, la formula fondamentale dal punto di vista cattolico va oltre, affermando: “il Papa è primo ed ha anche funzioni e compiti specifici”[14]. Per affrontare questa difficile tematica, e anche nella convinzione che la dolorosa questione dell’uniatismo possa essere adeguatamente chiarita solo nel più ampio contesto della comunione con Roma e del primato del Vescovo di Roma, la Commissione mista internazionale per il dialogo teologico è tornata su questo tema fondamentale nel 2006 dopo aver ripreso i suoi lavori.

Le Assemblee plenarie di Belgrado nel 2006 e di Ravenna nel 2007 hanno rimesso all’ordine del giorno il documento preparato per l’Assemblea plenaria di Freising del 1990 e lo hanno approvato con il titolo: “Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità”. Il documento esprime la doppia convinzione che sinodalità e primato siano interdipendenti nel senso che non può esserci primato senza sinodalità e sinodalità senza primato, e che questa correlazione si realizza a tutti i livelli della Chiesa, a livello locale, regionale e universale. Per la prima volta, cattolici e ortodossi hanno potuto dichiarare congiuntamente che la Chiesa ha bisogno di un protos a tutti i livelli della sua vita e quindi anche a livello universale. Infine, il documento esprime la convinzione della Commissione che le riflessioni presentate siano un “positivo e significativo progresso nel nostro dialogo”, e che forniscano “una solida base per la discussione futura sulla questione del primato nella Chiesa al livello universale” (n. 46). Questo risultato può essere considerato una pietra miliare nel dialogo ortodosso-cattolico.

Tuttavia, questo passo incoraggiante è stato offuscato, da un lato, dal fatto che il Patriarcato ortodosso russo non abbia riconosciuto il Documento di Ravenna e nel 2013 abbia rilasciato una propria dichiarazione sulla questione del primato a livello universale della Chiesa, e, dall’altro, dagli innumerevoli ostacoli incontrati lungo il percorso dal dialogo ecumenico dopo Ravenna. A Ravenna si era pensato che, in una prima fase, la Commissione avrebbe studiato dal punto di vista storico la questione del ruolo svolto dal Vescovo di Roma nel primo millennio, comune a Oriente e Occidente; in una seconda fase, si sarebbe concentrata sugli sviluppi diversi che hanno avuto luogo in Oriente e Occidente nel secondo millennio; e, in una terza fase, avrebbe tentato di giungere a una comprensione comune del primato nel terzo millennio. Dopo le difficilissime plenarie tenutesi a Cipro nel 2009, a Vienna nel 2010 e ad Ammann nel 2014, solo durante la plenaria di Chieti del 2016 è stato possibile approvare un nuovo documento intitolato: “Sinodalità e primato nel primo millennio. Verso una comprensione comune al servizio dell’unità della Chiesa”.

Nel frattempo si è lavorato su un altro documento sul tema “Primato e sinodalità nel secondo millennio e oggi”, che sarà discusso e – ce lo auguriamo – approvato dall’Assemblea plenaria di Alessandria prevista nel prossimo mese di giugno. Quando anche questo documento sarà adottato, la Commissione affronterà il tema “Verso l’unità nella fede: questioni teologiche e canoniche”, deliberando su quei problemi che devono ancora essere risolti per ritrovare l’unità nella fede e, di conseguenza, nell’Eucaristia.

 

5. Prospettive future del cammino verso l’unità

Sono fiducioso che la Commissione internazionale troverà una buona strada da percorrere, anche per quanto riguarda la questione del primato del Vescovo di Roma. Il cammino futuro non sarà certamente facile. Non si tratta infatti di trovare un compromesso basato sul minimo comune denominatore. Piuttosto, devono essere messi a confronto e fatti interloquire i punti di forza delle rispettive comunità ecclesiali, come osservato in modo sintetico dal gruppo di lavoro cattolico-ortodosso St. Ireneo nel suo documento “Al servizio della comunità”: “Le Chiese devono soprattutto adoperarsi affinché venga raggiunto un migliore equilibrio tra sinodalità e primato a tutti i livelli della vita ecclesiale, attraverso un rafforzamento delle strutture sinodali nella Chiesa cattolica e attraverso l’accettazione da parte della Chiesa ortodossa di un certo primato all’interno della comunione mondiale delle Chiese.”[15] Nel rispetto del principio fondamentale del dialogo ecumenico, che consiste nel mutuo scambio di doni, sarà necessario che ciascuna parte sia disposta ad imparare dall’altra.

Da un lato, la Chiesa cattolica deve ammettere di non aver ancora sviluppato, nella sua vita e nelle sue strutture ecclesiali, quel grado di sinodalità che sarebbe teologicamente possibile e necessario, ravvisando dunque nel dialogo con gli ortodossi la possibilità, come ha sottolineato Papa Francesco, “di imparare qualcosa di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità”[16]. Papa Francesco è convinto che gli sforzi teologici e pastorali intrapresi per costruire una Chiesa sinodale abbiano anche un forte impatto sull’ecumenismo e che in particolare la questione del primato petrino possa essere più adeguatamente chiarita all’interno di una Chiesa sinodale: “Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come Successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese.”[17] Un legame più credibile tra il principio gerarchico e il principio sinodale-comunitario favorirebbe senz’altro il futuro dialogo ecumenico con l’ortodossia. Il contributo più importante che la Chiesa cattolica potrebbe apportare al riconoscimento ecumenico del primato petrino sarebbe senza dubbio la rivitalizzazione e il rafforzamento della sinodalità.

Dall’altro lato, ci si può aspettare che, nel dialogo ecumenico, le Chiese ortodosse imparino che un primato, anche al livello universale della Chiesa, non è solo possibile e teologicamente legittimo, ma è anche necessario. Le tensioni intra-ortodosse, emerse con particolare evidenza soprattutto prima e durante il “Santo e Grande Sinodo” di Creta del 2016, dovrebbero far comprendere la necessità di riflettere su un ministero di unità anche al livello universale della Chiesa, un primato che ovviamente dovrebbe essere qualcosa di più di un mero primato onorifico includendo anche elementi giurisdizionali. Lungi dall’essere in contrasto con un’ecclesiologia eucaristica, tale primato sarebbe ad essa compatibile, come ha più volte ricordato il teologo e metropolita ortodosso John D. Zizioulas.

Per poter rendere giustizia agli obiettivi di entrambe le parti, è necessario chiarire in maniera più approfondita da un punto di vista cattolico che il primato del Vescovo di Roma non è né esclusivamente né primariamente un’aggiunta giuridica ed esterna all’ecclesiologia eucaristica, ma in tale ecclesiologia trova il suo stesso fondamento. Il primato del Vescovo di Roma può essere compreso solo partendo dall’Eucaristia. Come ha più volte sottolineato Joseph Ratzinger, l’unità della Chiesa non si basa “primariamente sul fatto di avere un governo centrale unificato, ma sul fatto di vivere dell’unica cena del Signore, dell’unica cena di Cristo. Tuttavia, questa unità della cena di Cristo è ordinata e trova il suo apice unitario nel Vescovo di Roma che concretizza tale unità, la garantisce e la conserva nella sua purezza.”[18]

Il ministero petrino è quindi un elemento permanente della natura della Chiesa, perché il Vescovo di Roma adempie al suo compito speciale soprattutto vivendo il “presiedere nella carità” e riunendo nell’Eucaristia tutte le Chiese particolari del mondo per formare l’unica Chiesa universale. Come nella Chiesa primitiva la parola “carità” – “agape” – si riferiva anche al mistero dell’Eucaristia, in cui l’amore di Cristo per la sua Chiesa viene esperito in modo particolarmente intenso, così il ministero petrino della Chiesa di Roma, che secondo Ignazio di Antiochia “presiede nella carità”, trattandosi di un primato della carità in senso eucaristico, mira all’unità della Chiesa, permette e protegge la comunione eucaristica e impedisce in modo credibile ed efficace che un altare si erga contro un altro altare: “Il ministero petrino è presiedere nella carità, il che significa fare in modo che la Chiesa prenda come sua misura l’Eucaristia. La Chiesa sarà tanto più unita quanto più vivrà secondo la misura dell’Eucaristia e quanto più aderirà fedelmente, nell’Eucaristia, alla misura della tradizione di fede.”[19]

 

6. La riscoperta dell’unico Corpo di Cristo come Chiesa ed Eucaristia

Se il Vescovo di Roma comprenderà e realizzerà il suo primato in questo senso eucaristico, vi è la speranza e la prospettiva che il suo primato cessi di essere il maggior ostacolo sul cammino dell’ecumenismo, e diventi il promotore dell’intesa ecumenica, facendosi garante dell’unità dei cristiani nella fede comune. Al riguardo, Papa Francesco, durante la visita effettuata nel 2014 al Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, ha voluto assicurare che “per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune, e che siamo pronti a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e della esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze: l’unica cosa che la Chiesa cattolica desidera e che io ricerco come Vescovo di Roma, ‘la Chiesa che presiede nella carità’, è la comunione con le Chiese ortodosse.”[20]

Così inteso e praticato, il primato del Vescovo di Roma si porrebbe ancora di più al servizio della ricomposizione della Chiesa una e indivisa in Oriente e in Occidente, la quale troverà il suo senso profondo nel ristabilimento della comunione eucaristica, come affermò con particolare chiarezza nel 1968 il Patriarca Ecumenico Athenagoras: “È giunta l’ora del coraggio cristiano. Ci amiamo gli uni gli altri; professiamo la stessa fede comune; incamminiamoci insieme verso la gloria del sacro Altare comune, per fare la volontà del Signore, affinché la Chiesa risplenda, il mondo creda e la pace di Dio venga su tutti.”[21]

Le parole che il Patriarca Athenagora pronunciò oltre cinquant’anni fa non hanno perso nulla della loro attualità; al contrario, sono diventate ancora più urgenti. Per compiere un passo significativo verso la loro realizzazione, dovremmo rimettere criticamente in discussione il modo di parlare delle “nostre due Chiese”, ormai diffuso e comunemente accettato nelle nostre relazioni, secondo cui la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica sono considerate come due diverse Chiese. Questo modo di parlare sottintende infatti un plurale di Chiese, sopra al quale non compare più la Chiesa al singolare. Permane allora un “dualismo”, come giustamente lamentava il Cardinale Joseph Ratzinger, “all’ultimo livello del concetto di Chiesa” e la Chiesa una e indivisa diventa un’ “utopia” o addirittura un “fantasma”, “mentre ciò che le è connaturato è proprio il suo essere Corpo”[22]. L’essere Corpo della Chiesa la spinge verso la comunione vincolante nel Corpo eucaristico del Signore. Ma affinché questa comunione sia realizzabile, l’essere Corpo dell’unica Chiesa in Oriente e in Occidente deve essere definito chiaramente dal punto di vista teologico e deve essere esperito nella realtà in maniera sempre più profonda.

Poter lavorare a questo grande progetto di riconciliazione tra Oriente e Occidente nell’unico Corpo del Signore e pregare affinché questo cammino, iniziato in modo così promettente oltre cinquant’anni fa, possa trovare nell’agape eucaristica la sua meta, è l’importante vocazione di un’Università che comprende due facoltà teologiche, una ortodossa e una greco-cattolica. Portare avanti questo progetto di riconciliazione è certamente un impegno gravoso, ma è anche e soprattutto una grande grazia per la quale lodiamo il Dio uno e trino.

 

[1] Conferenza presso l’Università di Presov, il 28 marzo 2023.
[2] Benedetto XVI, Discorso durante l’incontro con i rappresentanti delle Chiese ortodosse e ortodosse orientali a Freiburg i. Br., il 24 settembre 2011.
[3] Déclaration commune du pape Paul VI et du patriarche Athenagoras esprimant leur décision d´enlever de la mémoire et du milieu de l´Eglise les sentences d´excommunication de l´année 1054, dans: Tomos Agapis. Vatican-Phanar (1958-1970) (Rome – Istanbul 1971), N. 127.
[4] J. Kardinal Ratzinger, Rom und die Kirchen des Ostens nach der Aufhebung der Exkommunikationen von 1054, in: Ders., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie (München 1982) 214-230, zit. 229.
[5] Vgl. Herausforderung sichtbare Einheit. Beiträge zu den Dokumenten des katholisch-orthodoxen Dialogs. Hrsg. von Johann Marte unter Mitarbeit von Faustyna Anna Kadzielawa (Würzburg 2014).
[6] La Dichiarazione redatta in greco e in francese è pubblicata su: L´Osservatore Romano del 1 dicembre 1979.
[7] G. Larentzakis, Kein Schisma, trotzdem getrennt, in: Die Tagespost vom 27. Juni 2021.
[8] Vgl. Y. Congar, Zerstrittene Christenheit. Wo trennten sich Ost und West (Wien 1959).
[9] W. Kardinal Kasper, Wege der Einheit. Perspektiven für die Ökumene (Freiburg i. Br. 2005) 208.
[10] Cfr. Unitatis redintegratio, n. 14.
[11] Unitatis redintegratio, Nr. 15.
[12] Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald (Città del Vaticano, 2010) 133.
[13] B. Hallensleben (Hrsg.), Einheit in Synodalität. Die offiziellen Dokumente der Orthodoxen Synode auf Kreta 18. bis 26. Juni 2016 (Münster 2016) 79.
[14] Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald (Città del Vaticano, 2010) 132.
[15] Im Dienst an der Gemeinschaft. Das Verhältnis von Primat und Synodalität neu denken. Eine Studie des Gemeinsamen orthodox-katholischen Arbeitskreises St. Irenäus (Paderborn 2018) 94.
[16] Francesco, Evangelii gaudium n. 246.
[17] Francesco, Discorso per la commemorazione del 50.mo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, il 17 ottobre 2015.
[18] J. Ratzinger, Vom Ursprung und vom Wesen der Kirche, in: Ders., Das neue Volk Gottes. Entwürfe zur Ekklesiologie (Düsseldorf 1969) 75-89, zit. 88.
[19] J. Cardinal Ratzinger, Der Cathedra-Altar von St. Peter zu Rom. Eine Betrachtung über die Kirche, in: E. Kleindienst und G. Schmuttermayr (Hrsg.), Kirche im Kommen. Festschrift für Bischof Josef Stimpfle (Frankfurt a. M. 1991) 423-429, zit. 426.
[20] Papa Francesco, Discorso nella Chiesa patriarcale di San Giorgio, a Istanbul, il 30 novembre 2014.
[21] Télégramme du patriarche Athénagoras au pape Paul VI, à l’occasion de l’anniversaire de la levée des anathèmes le 7 décembre 1969, in: Tomos Agapis. Vatican-Phanar (1958-1970) (Rome – Istanbul 1971) Nr. 277.
[22] Briefwechsel zwischen Metropolit Damaskinos und Joseph Cardinal Ratzinger, in: J. Cardinal Ratzinger, Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio (Augsburg 2002) 187-209, zit. 205.