PROSPETTIVE DEL DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO[1]

 

(Conferenza presso la Facoltà di Teologia dell’Università di Trnava, 30 marzo 2023)

 

 

1. La comunione profonda tra cristianesimo ed ebraismo

“La religione ebraica non ci è ‘estrinseca’, ma in un certo qual modo, è ‘intrinseca’ alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori.”[2] Queste parole incisive e toccanti sono state pronunciate da Papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita alla Sinagoga di Roma il 13 aprile 1986; egli ha espresso così la convinzione della Chiesa cattolica circa l’esistenza di un rapporto speciale con l’ebraismo, unico nel suo genere rispetto a quello con altre religioni. Il dialogo cattolico-ebraico non è quindi semplicemente uno dei dialoghi interreligiosi oggi necessari; l’ebraismo è la religione più vicina a noi cristiani, che siamo profondamente legati al popolo ebraico primariamente per motivi religiosi.

In una prospettiva cristiana, l’ebraismo occupa una posizione singolare tra le altre religioni, in primo luogo perché il Dio che Gesù ha proclamato e con il quale ha vissuto in intima relazione è proprio il Dio di Israele. Il fatto che Gesù Cristo fosse ebreo è anche un elemento chiave che accomuna ebrei e cristiani, come ha osservato in particolare l’importante teologo protestante Karl Barth. In un momento in cui nella Chiesa protestante di Germania vi erano forti tendenze verso la “degiudaizzazione” del cristianesimo, egli ha sottolineato con insistenza che il Verbo di Dio non si è semplicemente incarnato “in un’umanità generica, come uomo umile e sofferente in senso generale”, ma “si è incarnato come ebreo.”[3].

A ciò si aggiunge il fatto che ebrei e cristiani condividono Sacre Scritture. Le Sacre Scritture del popolo ebraico “fanno parte integrante della Bibbia cristiana”, come ha affermato il documento della Pontificia Commissione Biblica del 2001 “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana”[4]. Nella prefazione, l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Cardinale Joseph Ratzinger, auspicava un “un rinnovato rispetto per l’interpretazione giudaica dell’Antico Testamento” nel senso che “la lettura giudaica della Bibbia è una lettura possibile, che è in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell’epoca del secondo tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente a questa”; di conseguenza, i cristiani “possono imparare molto dall’esegesi giudaica praticata per 2000 anni” e naturalmente sperare anche “che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell’esegesi cristiana”.

Il dialogo ebraico-cristiano si trova quindi davanti all’urgente sfida di superare la vecchia tentazione marcionita, riemergente anche oggi, incline a rimuovere l’Antico Testamento dal canone delle Sacre Scritture, declassandolo al livello degli scritti apocrifi[5], e di trattare l’Antico e il Nuovo Testamento come un unico libro.

Basandosi su questa profonda condivisione, la Chiesa cattolica sa che il suo rapporto con il popolo dell’alleanza, il popolo di Israele, è strettamente legato alla propria auto-comprensione e che, di conseguenza, non può comprendere sé stessa senza far riferimento all’ebraismo. Questa convinzione di fondo mette in luce la nuova visione introdotta dal Concilio Vaticano Secondo con la sua Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane “Nostra aetate”, il cui articolo quarto sull’ebraismo inizia con la frase eloquente: “Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo.” Con questa riflessione biblica sul mistero e sulla missione della Chiesa, “Nostra aetate” sottolinea la comunione che emerge tra ebraismo e cristianesimo in merito alla storia della salvezza.

 

2. Riflettori sul nuovo inizio del dialogo cattolico-ebraico

La Dichiarazione conciliare “Nostra aetate” può essere considerata come un’importante svolta e come un nuovo inizio promettente di un fecondo dialogo tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Una menzione particolare merita il fatto che “Nostra aetate” sia stata almeno in parte dovuta a un’iniziativa ebraica, vale a dire l’incontro svoltosi il 13 giugno 1960 tra Papa Giovanni XXIII e lo storico Giulio Isacco, ebreo, che presentò al Santo Padre un memorandum con l’urgente richiesta di una revisione delle relazioni tra Chiesa ed ebraismo.[6] Pochi mesi dopo questa conversazione, Papa Giovanni XXIII incaricò il Cardinale gesuita tedesco Augustin Bea, a nome del Segretariato per l’unità dei cristiani, da lui diretto, di preparare per il Concilio una dichiarazione sull’ebraismo.

Contro il testo presentato protestarono i Padri conciliari arabi. In particolare, quelli provenienti dal Medio Oriente obiettarono che una simile dichiarazione non avrebbe dovuto riguardare solo l’ebraismo, ma avrebbe dovuto riferirsi anche all’Islam; altri Padri conciliari suggerirono che tutte le religioni non cristiane venissero menzionate in una dichiarazione conciliare. A causa di queste critiche e delle nuove difficoltà emerse che resero necessarie ulteriori revisioni, fu presa la decisione di inserire il testo sugli ebrei nel contesto più ampio dell’atteggiamento della Chiesa verso le religioni non cristiane, e più specificamente come quarto articolo all’interno della Dichiarazione conciliare “Nostra aetate”. Questa dichiarazione fu approvata poco prima della fine dell’Assemblea conciliare del 28 novembre 1965 alla quasi unanimità, ovvero con 2221 voti favorevoli, 88 contrari e due astenuti;

essa venne quindi adottata con una maggioranza impressionante del 96% dai Padri conciliari, e promulgata da Papa Paolo VI.

L’inserimento delle affermazioni riguardanti il popolo ebraico all’interno della Dichiarazione conciliare “Nostra aetate” potrebbe facilmente dare l’errata impressione che si tratti di un delicato compromesso, in quanto l’ebraismo, per noi cristiani, non è semplicemente una delle tante religioni non cristiane e le relazioni tra cristianesimo ed ebraismo non devono essere livellate come se fossero solo una particolare variante del dialogo interreligioso; così facendo, non verrebbe più riconosciuto il carattere inconfondibile di questo rapporto[7]. Data la genesi molto difficile e complicata della Dichiarazione “Nostra aetate” prima e durante il Concilio Vaticano Secondo[8], possiamo affermare che il suo quarto articolo, incentrato sul legame tra Chiesa cattolica ed ebraismo, è sì il più breve, ma è anche uno dei documenti più importanti del Concilio.

Il quarto articolo non è solo il punto di partenza, ma è anche il cuore di tutta la Dichiarazione “Nostra aetate”. Esso segna una svolta fondamentale nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, e con essa, nelle relazioni tra Chiesa e Israele: come faceva notare l’allora consultore conciliare Joseph Ratzinger, si apriva “una nuova pagina nel libro delle reciproche relazioni”[9]. L’importanza epocale del quarto articolo risiede senza dubbio nel fatto che per la prima volta nella storia un Concilio ecumenico parlava dell’ebraismo in modo sia esplicito sia positivo.

 

3. Le relazioni tra la Chiesa e Israele in “Nostra aetate”

Il grande merito della Dichiarazione “Nostra aetate” consiste nell’aver individuato in Israele le radici della Chiesa, riferendosi espressamente all’immagine paolina della “radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i gentili”. Con questa immagine, la Dichiarazione evidenzia che la Chiesa ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di “quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’Antica Alleanza”. Questa immagine eloquente, che Paolo usa nel capitolo 11 della sua lettera ai Romani, rappresenta per lui la chiave decisiva per comprendere il rapporto tra Israele e la Chiesa di Gesù Cristo, e quindi sia l’unità sia la differenza tra le due comunità alla luce della fede.[10] Concretamente, ciò significa che la Chiesa come Nuovo Popolo di Dio non deve essere intesa come l’abolizione o la sostituzione di Israele quale Antico Popolo di Dio, ma come il suo compimento.

In questa prospettiva positiva, “Nostra aetate” riconosce il “patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei”. Con il forte accento posto sul fatto che la Chiesa è “memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei”, è chiaro che il Concilio non si occupa solo di aspetti meramente pratici e pragmatici, ma affronta le questioni attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche poggiando su solide basi bibliche. “Nostra aetate” è in primo luogo un documento di natura religiosa e teologica.

In questa luce biblico-teologica, ovvero spinta “da religiosa carità evangelica”, “Nostra aetate” condanna anche i riprovevoli comportamenti antisemiti, e più precisamente deplora “gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque”. Insieme al suo deciso “sì” al “patrimonio spirituale comune” di ebraismo e cristianesimo, la Dichiarazione conciliare dice anche un categorico “no” a ogni forma di antisemitismo.

Emerge così uno dei principali impulsi che hanno portato alla stesura di “Nostra aetate” e alla conseguente svolta nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico. L’impulso doloroso derivava dalla necessità di confrontarsi con la tragedia della Shoah, lo sterminio di massa degli ebrei in Europa progettato e realizzato dai nazionalsocialisti con perfezione organizzativa. Il Cardinale Augustin Bea ricordò questo importante motivo nell’aula conciliare con chiare parole: “Il problema del rapporto tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico, che ha quasi duemila anni – un problema antico quanto lo stesso cristianesimo – si è acuito principalmente a causa del crudele annientamento di milioni di ebrei da parte del regime nazista, e ha quindi reso necessario che il Concilio Vaticano Secondo vi prestasse attenzione.”[11]

Di fronte all’abisso senza precedenti raggiunto dall’odio nazionalsocialista e dalla persecuzione contro gli ebrei nella storia europea, noi cristiani dobbiamo profondamente rammaricarci del fatto che abbiamo dovuto aspettare l’efferatezza inaudita della Shoah per arrivare a un vero ripensamento. Noi cristiani dobbiamo ammettere che l’opposizione cristiana alla sconfinata brutalità del nazionalsocialismo di stampo razzista non ha mostrato la chiarezza e l’ampiezza che ci si poteva e doveva giustamente attendere. Noi cristiani abbiamo quindi tutte le ragioni per chiederci seriamente se siamo co-responsabili di questi orribili eventi.

Per dare una risposta onesta, la Chiesa dovrà riconoscere che l’antigiudaismo teologico cristiano, diffuso per secoli, ha alimentato un’ampia antipatia nei confronti degli ebrei e che un sentimento antiebraico ereditato nel tempo si è inciso nell’animo di molti cristiani.[12]

Questo pesante retaggio ha trovato la sua particolare espressione nella condanna degli ebrei come deicidi e successivamente nell’assunto che la Chiesa come Nuovo Popolo di Dio abbia sostituito, all’interno della storia della salvezza, il popolo di Dio dell’Antico Testamento, rendendolo obsoleto, come qualcosa che viene offuscato dallo splendore del nuovo, così come cessa la dipendenza dalla luce della luna non appena sorge il sole.[13]

Questo gravoso fardello antiebraico non fu certo il motivo del dilagare dell’odio nazionalsocialista contro gli ebrei, ma fu una condizione mentale che indebolì la resistenza dei cristiani alla brutalità del terrore nazionalsocialista. Di fronte agli effetti deleteri del retaggio antigiudaico nella tradizione cristiana, la Chiesa cattolica sente il dovere di superare la sua visione tradizionale dell’esclusione dall’eredità storico-salvifica degli ebrei e di riflettere sulle radici ebraiche del cristianesimo, e su come questo approccio si concretizzi nello sviluppo di una cosiddetta “teologia cristiana dopo Auschwitz” nelle sue diverse varianti[14] e nello sviluppo di una “teologia cristiana dell’ebraismo”[15].

Già durante la stesura della Dichiarazione “Nostra aetate”, il Cardinale gesuita tedesco Augustin Bea osservava che il contenuto della dichiarazione faceva certamente parte di quei temi “per i quali la cosiddetta opinione pubblica mostra il maggior interesse”, e concludeva che “molti giudicheranno il Concilio buono o cattivo dopo l’approvazione o il respingimento di questo documento”[16]. Ciò che il Cardinale Bea aveva intuito allora con senso profetico si è confermato più volte negli ultimi sessant’anni, non solo per quanto riguarda il dialogo interreligioso in generale, ma anche per quanto riguarda il dialogo ebraico-cattolico in particolare. Di fatti, “Nostra aetate” è giustamente considerata documento fondante e bussola affidabile per la riconciliazione tra cristiani ed ebrei e per il dialogo ebraico-cristiano; fino ad oggi non ha perso nulla della sua attualità.

Questo è merito soprattutto dei Pontefici che si sono susseguiti dopo il Concilio Vaticano Secondo e che si sono adoperati affinché le promettenti prospettive di “Nostra aetate” fossero accolte, sviluppate e approfondite nella Chiesa; questi Pontefici possono dunque essere considerati come protagonisti del dialogo cattolico-ebraico. Nel mio odierno intervento non avrò naturalmente tempo di menzionare il contributo dei singoli papi al dialogo ebraico-cattolico.[17]

Tuttavia, va ricordato che Papa Paolo VI già nel 1974 fondò la Commissione vaticana per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, associandola, dal punto di vista organizzativo, all’allora Segretariato per l’unità dei cristiani e affidandole il compito di accompagnare e promuovere il dialogo religioso con l’ebraismo.

Nell’adempiere a questo mandato, la Commissione porta avanti due dialoghi istituzionalizzati con l’ebraismo a livello mondiale. Il primo dialogo, in corso dal 1970, è con l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations (IJCIC); esso prevede incontri regolari per approfondire le relazioni tra ebrei e cattolici, condotti dal cosiddetto International Catholic-Jewish Liaison Committee (ILC). Il secondo dialogo istituzionalizzato è con il Gran Rabbinato israeliano di Gerusalemme. Dal 2002 sono state organizzate conferenze, in alternanza a Gerusalemme e a Roma, alle quali partecipano, da parte ebraica, quasi esclusivamente rabbini e, da parte cattolica, vescovi e sacerdoti.

La Commissione vaticana ha già pubblicato quattro documenti, che intendono favorire la ricezione di “Nostra aetate”. Il suo ultimo documento risale al 2015 ed è intitolato: “ ‘Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili’ (Rm 11,29). Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50° anniversario di Nostra aetate (n. 4)”. Questo documento guarda con gratitudine a tutto ciò che è stato possibile realizzare nelle relazioni cattolico-ebraiche negli ultimi decenni e offre nuovi impulsi per un ulteriore dialogo teologico.

Nel frattempo sono stati prodotti, anche da parte ebraica, interessanti documenti che si riferiscono al dialogo ebraico-cattolico e che presentano il punto di vista ebraico. Nel 2000, è uscito il documento “Dabru Emet” (“Dire la verità”), redatto da ebrei statunitensi di tendenza più liberale[18], mentre nel 2015 singoli rabbini hanno pubblicato il documento “Fare la volontà del Padre nostro nei cieli. Verso un partenariato tra ebrei e cristiani”[19]. La più recente dichiarazione sul dialogo ebraico-cattolico è intitolata “Tra Gerusalemme e Roma” ed è stata pubblicata da organizzazioni ebraiche ortodosse, tra cui in particolare la Conference of European Rabbis, il Rabbinical Council of America e la Commissione per il dialogo del Gran Rabbinato di Gerusalemme[20]. Questi tre documenti forniscono, da parte ebraica, risposte al dialogo tra ebrei e cristiani; la loro importanza si misura sul fatto che hanno aperto una “nuova fase del dialogo ebraico-cristiano”[21].

 

5. Questioni religiose e teologiche aperte tra ebrei e cristiani

Data la grande importanza del dialogo ebraico-cristiano, è fondamentale che questo dialogo possa continuare in modo fruttuoso. Non tutte le questioni religiose e teologiche che emergono nell’incontro tra cristianesimo ed ebraismo sono state risolte in modo soddisfacente. Tra le tematiche aperte, vi è certamente quella cruciale di comprendere come, da un lato, la convinzione di fede degli ebrei ˗ condivisa da noi cristiani ˗ secondo cui l’alleanza stipulata da Dio con Israele non sarà mai revocata in virtù dell’incrollabile fedeltà di Dio al suo popolo e rimarrà sempre valida, e dall’altro lato, la fede cristiana nella novità della Nuova Alleanza donataci in Gesù Cristo possano conciliarsi teologicamente in modo così coerente che l’unità profonda tra l’Antica e la Nuova Alleanza sia preservata, e né ebrei né cristiani si sentano feriti, ma sappiano che le loro convinzioni sono prese sul serio.[22]

Ciò mostra ancora una volta che il punto nevralgico del dialogo ebraico-cattolico è e rimane la percezione della figura di Gesù Cristo[23], a cui il teologo cattolico Helmut Hoping ha recentemente fatto riferimento nella sua cristologia, che porta il titolo programmatico: “Gesù dalla Galilea – Messia e Figlio di Dio”. Hoping sottolinea così sia l’unità sia la differenza tra cristianesimo ed ebraismo: “L’ebreo Gesù di Nazareth unisce inscindibilmente cristianesimo ed ebraismo, mentre la professione di fede in Cristo come Messia e Figlio di Dio li separa.”[24] Da un lato è l’ebraicità di Gesù che unisce ebrei e cristiani. Dall’altro, i cristiani non possono vedere in Gesù solo un rappresentante speciale del popolo ebraico; per loro, egli è anche il Messia e il Figlio di Dio.

È di cruciale importanza che il dialogo ebraico-cristiano su tali questioni sia condotto con particolare sensibilità. Cristiani ed ebrei sono chiamati a imparare gli uni dagli altri, soprattutto là dove differiscono più profondamente, come ha osservato Papa Benedetto XVI in occasione della sua visita alla Sinagoga di Colonia nel 2005: “Questo dialogo, se vuole essere sincero, non deve passare sotto silenzio le differenze esistenti o minimizzarle: anche nelle cose che, a causa della nostra intima convinzione di fede, ci distinguono gli uni dagli altri, anzi proprio in esse, dobbiamo rispettarci e amarci a vicenda.”[25] È in linea anche con la visione ebraica l’affermazione contenuta nel documento “Tra Gerusalemme e Roma” sulla necessità di rispettare, nel dialogo, le rispettive convinzioni di fede: “Le differenze dottrinali sono essenziali e non possono essere discusse o negoziate”.

Il dialogo ebraico-cristiano sta o cade con il rispetto per le convinzioni di fede dell’altro, di modo che possa esserci una collaborazione pacifica tra ebrei e cristiani. Uno sforzo in tal senso è oggi particolarmente urgente in molti paesi europei, nei quali si osserva purtroppo una temibile recrudescenza di tendenze antisemite. Al riguardo, è bene che i nostri interlocutori ebraici sappiano che possono contare sulla Chiesa cattolica come partner affidabile nella lotta contro la piaga dell’antisemitismo: di fatti, Papa Francesco non si stanca di ricordare che è impossibile essere cristiani e antisemiti allo stesso tempo.

Andando ancora oltre, cristiani ed ebrei sono chiamati a lavorare insieme per tutelare e promuovere la libertà religiosa come diritto umano fondamentale. Quando ebrei e cristiani si accolgono gli uni gli altri in una riconciliazione interiore, nella profondità delle rispettive convinzioni di fede, essi possono diventare una forza comune di concordia e di pace nel mondo odierno, principalmente attraverso la loro testimonianza dell’unico Dio, che deve essere adorato nell’unità indissolubile dell’amore per Dio e dell’amore per il prossimo. In questo consiste il banco di prova e la priorità fondamentale del dialogo ebraico-cristiano oggi.

 

 

[1] Conferenza presso la Facoltà di Teologia dell’Università di Trnava, il 30 marzo 2023.
[2] Giovanni Paolo II, Discorso durante l’incontro con la comunità ebraica nella Sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986.
[3] K. Barth, Kirchliche Dogmatik IV/1: Die Lehre von der Versöhnung (Zürich 1953) 181.
[4] In deutscher Sprache veröffentlicht als Nr. 152 der vom Sekretariat der Deutschen Bischofskonferenz herausgegebenen „Verlautbarungen des Apostolischen Stuhls“ (Bonn 2001).
[5] Come è stato proposto, un paio di anni fa, dal teologo protestante berlinese, esperto di teologia sistematica, Notker Slenzka: Die Kirche und das Alte Testament, in: E. Grab-Schmidt / R. Preul (Hrsg.), Das Alte Testament in der Theologie = Marburger Jahrbuch Theologie XXV (Leipzig 2013) 49-81.
[6] Vgl. M. Quisinsky., Art. Isaac, Jules, in: Ders. / P. Walter (Hrsg.), Personenlexikon zum Zweiten Vatikanischen Konzil  (Freiburg i. Br. 2012) 139-140.
[7] Vgl. J. Kardinal Ratzinger, Der Dialog der Religionen und das jüdisch-christliche Verhältnis, in: Ders., Die Vielfalt der Religionen und der Eine Bund (Hagen 1998) 93-121.
[8] Vgl. J. Österreicher, Kommentierende Einleitung zur „Erklärung über das Verhältnis der Kirche zu den nichtchristlichen Religionen“, in: LThK 13 (1967) 406-478; A. Siebenrock, Theologischer Kommentar zur Erklärung über die Haltung der Kirche zu den nichtchristlichen Religionen Nostra aetate, in: P. Hünermann / B. J. Hilberath (Hrsg.), Herders Theologischer Kommentar zum Zweiten Vatikanischen Konzil.
[9] J. Ratzinger, Die letzte Sitzungsperiode des Konzils (Köln 1966) 68.
[10] Vgl. K. Berger, Gottes einziger Ölbaum. Betrachtungen zum Römerbrief (Stuttgart 1990); F. Mussner, Die Kraft der Wurzel. Judentum – Jesus - Kirche (Freiburg i. Br. 1987).
[11] A. Kardinal Bea, Die Kirche und das jüdische Volk (Freiburg i. Br. 1966) 7.
[12] Vgl.  Judaisme, anti-judaisme et christianisme. Colloque de l´Université de Fribourg 16-20 mars 1998 (Saint-Maurice 2000).
[13] Vgl. K. Backhaus, Das Bundesmotiv in der frühkirchlichen Schwellenzeit. Hebräerbrief, Barnabasbrief, Dialogus cum Tryphone, in: H. Frankemölle (Hrsg.), Der ungekündigte Bund? Antworten des Neuen Testaments (Freiburg i. Br. 1998) 211-231.
[14] Vgl. E. Kogon / J. B. Metz u.a., Gott nach Auschwitz. Dimensionen des Massenmords am jüdischern Volk (Freiburg i. Br. 1979); J.-H. Tück, Gottes Augapfel. Bruchstücke zu einer Theologie nach Auschwitz (Freiburg i. Br. 2016).
[15] Vgl. F. Mussner, Traktat über die Juden (München 1979); C. Thoma, Christliche Theologie des Judentums (Aschaffenburg 1978); Ders., Das Messiasprojekt. Theologie jüdisch-christlicher Begegnung (Augsburg 1994).
[16] Relatio von Augustin Kardinal Bea über die „Erklärung über die Juden und Nichtchristen“, gehalten in der Konzilsaula am 25. September 1964, in: Ders., Die Kirche und das jüdische Volk (Freiburg i. Br. 1966) 148-157, zit. 148.
[17] Vgl. Kardinal K. Koch, Judentum und Katholische Kirche. Zu einem fruchtbaren Dialog seit „Nostra aetate“, in: B. Jeggle-Merz und M. Durst (Hrsg.), Juden und Christen im Dialog = Theologische Berichte 36 (Freiburg/ Schweiz 2016) 53-83, bes. 63-69. Aus jüdischer Sicht vgl. K. Ben-Johanan, Jacob´s younger Brother. Christian-Jewish Relations after Vatican II (London 2022), bes. 82-141.
[18] Vgl. E. Kessler, „Dabru Emet“, in: Ders., N. Wenborn (Hrsg.), A Dictionary of Jewish-Christian Relations (Cambridge 2005).
[19] Vgl. N. J. Hofmann, „Auf dem Weg zu einer vertieften Partnerschaft zwischen Juden und Christen“, in: J. Ahrens – K.-H. Blickle – D. Bollag – J. Heil (Hrsg.), Hin zu einer Partnerschaft zwischen Juden und Christen. Die Erklärung orthodoxer Rabbiner zum Christentum (Berlin 2017).
[20] Eine deutsche Übersetzung der „Erklärung <Zwischen Jerusalem und Rom>. Die gemeinsame Welt und die respektierten Besonderheiten. Reflexionen über 50 Jahre von Nostra aetate“ findet sich in: Kirche und Israel 32 (2017) 178-186.
[21] Vgl. N. J. Hofmann, Eine neue Phase des Gesprächs. Die jüngsten jüdisch-orthodoxen Dokumente zum jüdisch-christlichen Dialog, in: Kirche und Israel 33 (2018) 24-31.
[22] Vgl. die Studie von Th. Söding, Erwählung – Verstockung – Errettung. Zur Dialektik der paulinischen Israeltheologie in Röm 9-11, in: Communio. Internationale katholische Zeitschrift 39 (2010) 382-417.
[23] Vgl. P. Lapide / W. Pannenberg, Judentum und Christentum. Einheit und Unterschied. Ein Gespräch (München 1981).
[24] H. Hoping, Jesus aus Galiläa – Messias und Sohn Gottes (Freiburg i. Br. 2019) 336.
[25] Benedetto XVI, Saluto durante la visita alla Sinagoga di Colonia il 19 agosto 2005.