LA CHIESA E LA PANDEMIA

Quinto anniversario dell’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kyrill a L’Avana 

 

12 febbraio 2021

 

Kurt Cardinale Koch

 

 

Eminenza, caro metropolita Hilarion,
Cari fratelli e sorelle,

In occasione del quinto anniversario dello storico incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kyrill all’aeroporto de L’Avana a Cuba il 12 febbraio 2016, anch’io desidero porgervi il mio caloroso saluto. Saluto in particolare Sua Eminenza il Metropolita Hilarion, che, in qualità di Presidente del Dipartimento per le Relazioni Ecclesiastiche Esterne del Patriarcato di Mosca, mantiene anche le relazioni ecumeniche con la nostra Chiesa cattolica. Saluto cordialmente Sua Eccellenza, Mons. Salvatore Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Eccellenza, La ringrazio di cuore per aver accettato di tenere la conferenza principale da parte cattolica nell’incontro di oggi.

Già il giorno successivo all’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kyrill, abbiamo deciso a L’Avana di commemorare questo evento ogni anno per ricordarne l’importanza storica. E abbiamo concordato di porre al centro della riflessione di volta in volta un punto specifico della dichiarazione congiunta che i due capi di Chiesa hanno firmato. In occasione del primo anniversario presso l’Università di Friburgo in Svizzera, abbiamo guardato all’incontro in quanto tale e abbiamo ricordato il contenuto integrale della dichiarazione congiunta. In occasione del secondo anniversario, tenutosi a Vienna dietro invito del Cardinale Christoph Schönborn, ci siamo concentrati sull’importante tema “i cristiani in Medio Oriente e l’unità ecumenica”. Il terzo anniversario a Mosca era collegato a un simposio scientifico sul problema teologico ed etico dell’eutanasia. E nel quarto anniversario che ha avuto luogo a Roma, abbiamo rivolto la nostra attenzione all’ecumenismo dei santi.

Per il quinto anniversario, la cui preparazione e organizzazione è spettata nuovamente al Patriarcato ortodosso russo, a causa dell’attuale situazione mondiale segnata dalla crisi del coronavirus non abbiamo dovuto cercare un argomento molto a lungo. La pandemia del Covid-19 non compare certamente nella dichiarazione congiunta de L’Avana perché nessuno poteva prevedere una simile sfida mondiale. Tuttavia, collegati alla pandemia vi sono molte questioni e molti problemi che vengono affrontati anche nella dichiarazione congiunta:

  • In primo luogo, emergono problemi attinenti alla coesione sociale. Di fatti, la pandemia ha messo in discussione molti degli elementi dati per scontati nella vita di tutti i giorni e nella convivenza sociale delle persone, come indica in particolare il termine “distanziamento sociale”. Mentre l’aggettivo “sociale” suggerisce la vicinanza e lo stare insieme, la parola “distanziamento” segnala il distacco e l’allontanamento. Ci troviamo di fronte a una sfida paradossale: proprio nel momento in cui siamo costretti a mantenere una distanza gli uni dagli altri, sentiamo ancora di più quanto siamo legati gli uni agli altri e capiamo di essere chiamati a una maggiore solidarietà gli uni verso gli altri.
  • La pandemia genera molti problemi psicologici quali l’isolamento come conseguenza delle restrizioni imposte dai governi, o gravi tensioni all’interno delle famiglie e sofferenze mentali, tra cui la depressione, in forte aumento.
  • La pandemia costituisce un’enorme sfida per le istituzioni sanitarie negli ospedali e nelle case di riposo e mette a nudo lo stato in cui si trovano i vari sistemi sanitari nei diversi paesi.
  • Non vanno dimenticati i problemi economici provocati dalla crisi del coronavirus: molte persone hanno perso il lavoro, il divario tra ricchi e poveri si è nuovamente allargato in modo molto evidente e gli stati si trovano di fronte alla pressante questione di come ripagare in futuro i miliardi del debito contratto per attutire l’emergenza sociale.
  • Si aprono molte questioni a livello politico e governativo. Al fine di ridurre l’infezione da Covid-19, alleviare il sistema sanitario e prendersi cura della salute dei cittadini in generale, i governi hanno emesso restrizioni che limitano le libertà fondamentali e le libertà della persona in una misura tale che non era stata più applicata dal secolo scorso, ovvero dalla fine dei regimi totalitari in Germania e nell’Unione Sovietica. Che tali restrizioni non siano oggi così facilmente accettabili ce lo mostrano anche le varie manifestazioni di protesta dei negazionisti del coronavirus contro le misure pubbliche e la crescita selvaggia di idee nella testa dei cosiddetti teorici della cospirazione.
  • La pandemia colpisce anche la vita della Chiesa a livello basilare. In vari paesi, la possibilità di tenere celebrazioni liturgiche è stata fortemente limitata o annullata durante il lock-down. Ciò solleva non solo questioni politiche, come la libertà religiosa dei fedeli, ma anche questioni pastorali: si tratta di capire se i fedeli si abitueranno all’astinenza liturgica o se ritroveranno la strada della chiesa e della vita liturgica dopo la pandemia.
  • La pandemia pone grandi sfide alla religione e alla fede di noi cristiani. La scoperta dell’esistenza del coronavirus con le sue tragiche conseguenze, come il numero altissimo dei decessi, prima in Italia, poi in Spagna, in Gran Bretagna, in Russia, negli Stati Uniti d’America e in vari paesi dell’America Latina, ha provocato un grande shock, che ci fa ricordare quello dovuto alla catastrofe del grande terremoto di Lisbona del 1755 con circa 100.000 morti. All’epoca questo evento mise radicalmente in discussione molte certezze preesistenti; da un punto di vista religioso sorsero dubbi soprattutto sulla bontà di Dio e sulla sua onnipotenza. La terribile sofferenza e la morte di così tante persone rappresentano una rimessa in discussione dell’esistenza di Dio ben maggiore rispetto a qualsiasi teoria filosofica illuministica o a qualsiasi trattato epistemologico. La famosa espressione che definisce la sofferenza come roccia dell’ateismo rimane indissolubilmente legata a Lisbona. Alla luce della pandemia del Covid, essa ha acquisito una nuova rilevanza e ci pone di fronte alla questione di come dovremmo affrontare queste questioni religiose.

A mio parere, un primo indizio risiede nel fatto che, alle nostre latitudini, la crisi del coronavirus è diventata virulenta l’anno scorso poco dopo l’inizio della quaresima, e che essa colpisce tuttora molte persone e molti cristiani come fosse una quaresima prolungata. A questo sembra alludere anche la somiglianza linguistica tra il termine utilizzato a livello di ordinanza pubblica contro il coronavirus, ovvero la “quarantena”, e il tempo di quaranta giorni previsto dalla quaresima, che nel linguaggio liturgico della Chiesa viene chiamato quadragesima. Una breve riflessione su questa parentela linguistica potrebbe offrirci un’indicazione su come potremmo affrontare la situazione della pandemia da un punto di vista religioso.

Il tempo liturgico tra il mercoledì delle ceneri e la pasqua ricorda dapprima i quaranta giorni del digiuno di Gesù nel deserto, che a loro volta si riferiscono ai quaranta giorni che Mosè trascorse digiunando sul Monte Sinai prima di ricevere la Parola di Dio sulle sacre tavole dell’alleanza, e ai quarant’anni che Israele dovette errare nel deserto. In questi quarant’anni Israele sperimentò il deserto come un tempo di estremo pericolo e di grandi tentazioni. Era il tempo in cui Israele era insoddisfatto del suo Dio e mormorava contro di lui, volendo dunque tornare al suo antico paganesimo. Era il tempo in cui Israele era lacerato, girava in tondo e non riusciva più a trovare una via. Ed era il tempo in cui Israele creava i suoi dèi, perché l’amorevole Yahweh sembrava essersi spostato così lontano che questo Dio lontano non poteva più soddisfarlo.

Mi pare che questo periodo di quarant’anni nel deserto sperimentato da Israele, a cui si richiama la quadragesima, possa essere paragonato anche all’estensione della quaresima provocata dalla pandemia. La pandemia ha fatto tornare anche tutti noi, in modo nuovo, al tempo del deserto, un tempo in cui stiamo avendo le stesse reazioni del popolo di Israele. Ma dobbiamo anche ricordare che in seguito Israele, con uno sguardo retrospettivo, comprese i quarant’anni della sua erranza nel deserto come il tempo del primo amore di Dio per Israele e di Israele per Dio. In maniera analoga, possiamo sperare e pregare che il tempo di crisi della pandemia diventi anche un tempo di conversione per tutti noi, in cui ci rivolgiamo nuovamente a Dio come amante della vita. La pandemia del coronavirus ha trasformato la quadragesima liturgica in una quarantena decretata dallo stato. Ora è nostro compito trasformare la quarantena in una vera quadragesima, cioè in un tempo di digiuno e di carità, un tempo di grazia e di preghiera.

Ciò sarà possibile se diamo ascolto a un’altra lezione che Israele ha dovuto imparare durante l’esilio babilonese, periodo di profonda crisi ma anche di profonda riflessione. Ancora una volta in retrospettiva, Israele ha compreso e vissuto l’esperienza dell’esilio come un tempo di purificazione. A ciò fa riferimento in particolare un’affermazione alla fine del secondo libro delle Cronache, in cui, pensando al tempo dell’esilio, si dice: “Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati” (2 Cr 36, 21), vale a dire quei sabati che, nei giorni pacifici e normali, non ha celebrato. Nello stesso senso, il periodo della pandemia potrebbe essere anche per noi il “Sabbath sostituito”, che ci esorta a guardare la vita e la fede con occhi nuovi e a imparare molto in questo processo.[1] Desidero adesso richiamare brevemente l’attenzione solo su due dimensioni sulle quali dovremmo riflettere nella pandemia:

Nella nostra vita ci siamo ovviamente abituati a fare affidamento su ciò che è visibile, materiale e tangibile. Ora, tuttavia, un virus che non è visibile ai nostri occhi e che è visibile solo con un microscopio estremamente preciso mostra quali conseguenze distruttive può dispiegare in tutto il mondo. Non sarebbe allora consigliabile concentrarci maggiormente, anche quando si tratta di elementi positivi, sul non visibile e sul non materiale? Di fatti, nella nostra vita e nel mondo, molto del bene non è visibile e vuole tuttavia continuare ad avere effetto in noi. Questo vale principalmente per Dio stesso, invisibile, che è presente nella nostra vita e che vuole essere percepito da noi esseri umani, parlandoci anche attraverso il creato, il quale non è muto, ma come tale viene sperimentato se noi siamo sordi al suo parlare.

In secondo luogo, per i grandi progressi compiuti dalla scienza e dalla tecnologia, compresi quelli relativi al mondo digitale, ci siamo abituati negli ultimi decenni al fatto che tutto è realizzabile, convinti di avere nelle nostre mani la nostra vita e la strutturazione del mondo. Ora, tuttavia, un minuscolo virus imperversa nel mondo intero e ci toglie di mano molte cose e soprattutto molte cose basilari, così che dobbiamo tornare a noi stessi, e dobbiamo tornare ad interrogarci in modo nuovo sulla nostra condizione umana. Questo nostro modo di agire è stato messo fortemente in discussione dalla crisi del coronavirus, che ha mietuto molte vittime e continua a farlo. Questa crisi dovrebbe quindi essere un valido motivo per riconsiderare la fragilità della nostra vita e dunque anche i limiti costituzionali di ciò che possiamo fare.

Queste sono solo alcune delle domande che noi cristiani dovremmo porci. Infatti, solo se come Chiesa, partendo dalla fede, cerchiamo e troviamo risposte utili alla pandemia, saremo anche in grado di apportare il nostro contributo al superamento delle numerose sfide sociali, psicologiche, sanitarie, economiche e politiche che la pandemia comporta. Sono pertanto grato per la possibilità che oggi abbiamo di riflettere insieme, in comunione ecumenica, su questo argomento importante e ricco di sfumature: “La Chiesa e la pandemia”. A tutti i partecipanti all’odierna conferenza zoom auguro un proficuo scambio e una fruttuosa commemorazione del quinto anniversario dell’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kyrill.


 

[1] Vgl. Bischof R. Voderholzer, „Der ersetzte Sabbat“. Verkündigung in Corona-Zeiten (Regensburg 2020).