La missione del Pontificio Consiglio
per la Promozione dell’Unità dei CristiaNI
Kurt Cardinal Koch
Ateneo di Valencia, 23 novembre 2021
1. Istituzione e obiettivo
Nel giorno di Pentecoste, il 5 giugno 1960, Papa Giovanni XXIII istituì quello che all’epoca venne chiamato il Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani con il motu proprio “Superno Dei Nutu”, dove si presentava il seguente obiettivo: “Per mostrare in maniera speciale il Nostro amore e la Nostra benevolenza verso quelli che portano il nome di cristiani, ma sono separati da questa Sede Apostolica.” Questo intento corrisponde precisamente alla visione che il Santo Padre aveva per il Concilio Vaticano Secondo. Per il Papa, infatti, le due principali preoccupazioni che lo spinsero a convocare il Concilio, ovvero il rinnovamento della Chiesa cattolica e il ripristino dell’unità dei cristiani, erano strettamente legate. Papa Giovanni XXIII era convinto che per il rinnovamento della Chiesa cattolica fosse essenziale dare priorità all’impegno ecumenico. Affinché questi due obiettivi fossero presenti nel Concilio e potessero offrire ad esso un orientamento, il Papa istituì il Segretariato due anni prima che il Concilio iniziasse e il giorno dopo nominò suo Presidente il gesuita tedesco Augustin Bea, rettore dell’Istituto Biblico, creato cardinale verso la fine del 1959 e in seguito chiamato con il bell’appellativo di “Cardinale dell’unità”.[1]
Dello stretto legame tra queste due priorità era convinto anche Papa Paolo VI, che fu il grande Papa del Concilio Vaticano Secondo. L’obiettivo ecumenico era per lui un importante leitmotiv anche e precisamente per il rinnovamento conciliare della Chiesa cattolica e per il modo in cui essa concepiva se stessa, tanto che possiamo parlare di una vera e propria interrelazione tra apertura ecumenica della Chiesa cattolica e rinnovamento della sua ecclesiologia.[2] Papa Paolo VI, già all’inizio della seconda sessione del Concilio, nel suo fondamentale discorso d’inaugurazione al quale l’allora consultore conciliare Joseph Ratzinger riconobbe un “vero carattere ecumenico”[3], sottolineò che l’avvicinamento tra i cristiani e le Chiese separati era uno degli intenti principali, ovvero il dramma spirituale, alla base della convocazione del Concilio.[4] In tale atteggiamento di fondo, Papa Paolo VI era anche convinto che l’impegno ecumenico della Chiesa cattolica non potesse terminare con il Concilio, ma che questo rappresentasse solo l’inizio. Con il motu proprio “Finis Concilio” del 3 gennaio 1966 egli dichiarò dunque il Segretariato per la Promozione dell’Unità dei Cristiani dicastero permanente della Curia Romana e ne confermò la struttura con la Costituzione Apostolica “Regimini Ecclesiae Universae” del 15 agosto 1967.
Il nome del Segretariato fu infine cambiato in “Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani” da Papa Giovanni Paolo II con la Costituzione Apostolica “Pastor Bonus” del 28 giugno 1988. Secondo questa Costituzione, il Pontificio Consiglio ha un doppio mandato. Il primo è la promozione di un ecumenismo autentico all’interno della Chiesa cattolica, conformemente alle direttive del Decreto conciliare sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio”. Con questo mandato, tra il 1967 e il 1970 il Consiglio elaborò il “Direttorio ecumenico”, che fu poi rivisto sulla base della promulgazione dei due nuovi codici giuridici, il Codex Iuris Canonici del 1983 e il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium del 1990, e venne approvato e ripubblicato da Papa Giovanni Paolo II il 25 marzo 1993. Il Direttorio intende essere una guida per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo e per l’attuazione concreta dell’obiettivo ecumenico nella vita quotidiana dei cristiani e della Chiesa.
Come mostra il suo terzo capitolo, dedicato alla “Formazione all’ecumenismo nella Chiesa cattolica”, il Direttorio pone un forte accento sulla formazione ecumenica di tutti i battezzati: “Scopo della formazione ecumenica è che tutti i cristiani siano animati dallo spirito ecumenico, qualunque sia la loro particolare missione e la loro specifica funzione nel mondo e nella società” (n. 58). Affinché la Chiesa possa adempiere a questo compito, il Direttorio mette in risalto in modo speciale la formazione ecumenica dei futuri operatori pastorali. Per sottolineare ancora una volta questo dovere, il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha pubblicato nel 1998 un proprio documento dal titolo “La dimensione ecumenica nella formazione di chi si dedica al ministero pastorale”.
Nel promuovere il ristabilimento dell’unità dei cristiani, i vescovi diocesani nelle diverse chiese locali hanno una responsabilità primaria, poiché il ministero pastorale del Vescovo è essenzialmente un servizio all’unità, da intendersi più ampiamente dell’unità della propria chiesa, in quanto esteso anche ai battezzati non cattolici. Per assistere i vescovi, in particolare i vescovi di nuova nomina, nell’esercizio della loro responsabilità ecumenica, il Pontificio Consiglio ha pubblicato il Vademecum ecumenico “Il Vescovo e l’unità dei cristiani” in occasione del 60° anniversario della sua istituzione.
2. Al servizio del dialogo della carità e del dialogo della verità
Certamente più importanti dei documenti citati sono gli incontri con le diverse Chiese e Comunità ecclesiali cristiane. Lavorare con loro e con loro coltivare il dialogo della carità e il dialogo della verità è il secondo mandato del Pontificio Consiglio. Il dialogo della carità è da intendersi come la cura di relazioni fraterne, volte soprattutto all’approfondimento della conoscenza reciproca e alla riconciliazione tra le diverse Chiese. Tali dialoghi della carità costituiscono il presupposto basilare per il dialogo della verità, ovvero per la discussione teologica di quei fattori che sono all’origine delle divisioni tuttora esistenti nella Chiesa. La conduzione di tali dialoghi della verità è affidata in modo particolare al Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.
Riguardo alle divisioni storiche, il Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano Secondo parla di “due principali categorie di scissioni che hanno intaccato l’inconsutile tunica di Cristo”[5], ovvero, da un lato, il grande scisma dell’XI secolo nella Chiesa tra Oriente e Occidente e, dall’altro, le divisioni del XVI secolo nella Chiesa d’Occidente. Si tratta di due diversi tipi di divisione, che vengono affrontati in dialoghi ecumenici diversi nel tentativo di superarli.[6] Per questo, sin dalla sua istituzione, il Pontificio Consiglio è stato strutturato in due sezioni, che verranno illustrate brevemente qui di seguito.
a) Il dialogo con le Chiese ortodosse orientali
Nella sezione “orientale”, va menzionato in primo luogo il dialogo teologico con le Chiese ortodosse orientali[7], di cui fanno parte, tra gli altri, copti, armeni, siriani, etiopi e malankaresi. Già nel V secolo, tali Chiese si separarono dalla Chiesa madre, non accettando le decisioni dottrinali cristologiche del Concilio di Efeso del 431 e soprattutto del Concilio di Calcedonia del 451 che affermavano che Gesù Cristo, essendo vero Dio e vero uomo, è una Persona in due nature. Poiché queste divisioni ecclesiali riguardavano la confessione cristologica e quindi il nucleo stesso della fede cristiana, è evidente che all’ordine del giorno del dialogo con le Chiese ortodosse orientali dovevano figurare innanzitutto questioni cristologiche.
I dialoghi teologici hanno portato ben presto all’incoraggiante conclusione che tali controversie scaturirono essenzialmente da un problema linguistico, poiché all’epoca si impiegarono termini filosofici e teologici diversi di Persona e di natura volendo però testimoniare la stessa fede ecclesiale in Cristo. Su tale base teologica, durante la visita resa a Papa Giovanni Paolo II dal Patriarca siro-ortodosso di Antiochia e di tutto l’Oriente, Ignatius Zakka I Iwas, nel giugno del 1984, i due capi di Chiesa affermarono in una dichiarazione comune che “le confusioni e gli scismi avvenuti tra le loro Chiese nei secoli successivi in nessun modo intaccano o toccano la sostanza della loro fede, poiché tali confusioni e scismi avvennero solo a causa di differenze nella terminologia e nella cultura e a causa delle varie formule adottate da differenti scuole teologiche per esprimere lo stesso argomento” [8]. Sulla base di questa dichiarazione comune, i due capi di Chiesa hanno firmato un accordo pastorale che consente di amministrare ai fedeli dell’altra Chiesa i sacramenti della penitenza, dell’Eucaristia e dell’unzione degli infermi in situazioni speciali; tale accordo merita di essere definito “storico” perché, nonostante la divisione che tuttora esiste tra queste Chiese, è stata resa possibile una limitata communicatio in sacris.[9]
Alla luce di questa dichiarazione cristologica e di altre dichiarazioni bilaterali, nel 2003 ha preso avvio una Commissione teologica tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali. Da allora, la Commissione ha pubblicato due importanti documenti. Nel 2009 ha prodotto un documento comune intitolato “La natura, la costituzione e la missione della Chiesa”[10], che presenta un ampio consenso sui principi ecclesiologici fondamentali. In seguito, si è dedicata allo studio del tema di Chiesa come communio e communicatio tra le Chiese nei primi cinque secoli di storia della Chiesa. Il risultato di tale riflessione è stato il documento “L’esercizio della comunione nella vita della Chiesa primitiva e le implicazioni per la ricerca della comunione oggi”.
Nella terza fase di dialogo, la Commissione si è occupata principalmente di questioni legate alla teologia dei sacramenti e ha potuto mostrare che esiste un ampio consenso sia nella comprensione teologica dei sacramenti e del loro numero (sette), sia in vari aspetti della disciplina sacramentale. Dopo che avrà finalizzato un terzo documento sulla teologia dei sacramenti nella prossima assemblea plenaria, la Commissione affronterà questioni relative alla teologia e alla venerazione mariana, per poi tornare ai problemi ecclesiologici e soprattutto alla questione del primato del Vescovo di Roma, nello sforzo di progredire sempre più sul cammino verso la comunione eucaristica.
Un dialogo ecumenico a parte è stato allacciato dalla Chiesa cattolica con la Chiesa assira dell’Oriente, dato che le Chiese ortodosse orientali la considerano non come appartenente alla loro famiglia di Chiese, ma come “Chiesa nestoriana”. Sulla base della dichiarazione comune del 1994 tra Papa Giovanni Paolo II e Mar Dinkha, Catholicos e Patriarca della Chiesa assira dell’Oriente, in merito alla confessione cristologica, la Commissione ecumenica di dialogo ha lavorato alla redazione di un documento sui sacramenti, che è stato pubblicato nel 2017 con il titolo “Dichiarazione comune sulla vita sacramentale”. Nell’attuale fase di dialogo, la Commissione si sta incentrando sullo studio delle caratteristiche essenziali della Chiesa in relazione al patrimonio liturgico, biblico e patristico della Chiesa dell’Oriente.
b) Il dialogo con le Chiese ortodosse
Il dialogo con le Chiese ortodosse[11], già durante il primo decennio tra il 1980 e il 1990, ha fatto emergere ampie convergenze tra la teologia ortodossa e quella cattolica su questioni fondamentali di fede come il concetto di Chiesa, i sacramenti, tra cui in particolare l’Eucaristia, e il ministero episcopale. Dal punto di vista ecclesiologico, un passo importante è stato compiuto a Ravenna nel 2007 durante l’Assemblea plenaria della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, con l’approvazione del documento “Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della la Chiesa. Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità”[12]. Questo documento mostra che sinodalità e primazialità sono interdipendenti e che la Chiesa ha bisogno di un protos a tutti i livelli. Il fatto che cattolici e ortodossi abbiano dichiarato congiuntamente l’esistenza di tale necessità anche al livello universale della Chiesa va considerato come una vera e propria pietra miliare nel dialogo cattolico-ortodosso. Da allora, la Commissione ecumenica ha continuato ad occuparsi del rapporto tra sinodalità e primato; in questo contesto più ampio, affronterà anche la questione dell’importanza e della missione del Vescovo di Roma in una futura comunione ecclesiale.
Dopo una fase lunga e difficile, è stato possibile realizzare un ulteriore passo importante nel 2016 durante l’Assemblea plenaria di Chieti, con l’adozione del documento “Sinodalità e primato nel primo millennio. Verso una comprensione comune nel servizio all’unità della Chiesa”. Il prossimo compito sarà quello di proseguire la riflessione, studiando il tema “Primato e sinodalità nel secondo millennio e oggi”. La difficoltà, emersa già durante la discussione del documento di Chieti, di giungere a una lettura comune della storia è naturalmente esacerbata dai vari sviluppi verificatisi nel campo della dottrina e della prassi della Chiesa, sia cattolica che ortodossa, durante il secondo millennio e quindi durante il periodo in cui i cristiani d’Oriente e d’Occidente hanno vissuto per lo più separati gli uni dagli altri. Nel nuovo documento si dovrà quindi tentare di approfondire il contesto e le modalità del rapporto tra primato e sinodalità nelle rispettive Chiese nel secondo millennio, facendo luce sui dati storici con riflessioni teologiche.
La Commissione si dedicherà poi al tema: “In cammino verso l’unità nella fede. Questioni teologiche e canoniche”. In una prima fase si tratterà di raccogliere i risultati già realizzati nel dialogo teologico, e in una seconda fase di individuare le questioni teologiche e canoniche che devono essere ancora risolte al fine di ricomporre l’unità nella fede tra ortodossi e cattolici, che aprirà la strada al ripristino della comunione eucaristica.
Il dialogo ortodosso-cattolico è attualmente offuscato dalle profonde tensioni emerse tra il Patriarcato ortodosso russo di Mosca e il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli sulla questione dell’autocefalia della Chiesa ortodossa in Ucraina.[13] Poiché il Santo Sinodo del Patriarcato di Mosca, in risposta alle decisioni prese dal Patriarca ecumenico Bartolomeo I sull’argomento, ha deciso di vietare la partecipazione dei rappresentanti del Patriarcato di Mosca a tutte le commissioni co-presiedute da un vescovo del Patriarcato ecumenico, anche la Commissione mista internazionale per il dialogo teologico ne ha subito le conseguenze. Tuttavia, le Chiese ortodosse hanno stabilito che l’assenza di una o più Chiese ortodosse non dovrà comportare la cancellazione del dialogo; la Commissione potrà dunque portare avanti i suoi lavori.
c) Il dialogo con le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma
Di tutte le Chiese e le Comunità cristiane, la Chiesa ortodossa è indubbiamente la più vicina a quella cattolica dal punto di vista teologico, soprattutto perché in entrambe le comunità ecclesiali è stata mantenuta la struttura ecclesiologica di base sviluppatasi a partire dal secondo secolo, vale a dire la struttura di fondo sacramentale-eucaristica ed episcopale della Chiesa, nel senso che in entrambe le comunità ecclesiali l’unità nell’Eucaristia e il ministero episcopale sono considerati come costitutivi dell’essere Chiesa. Su questi presupposti comuni non può basarsi invece il dialogo con le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma. Nella Riforma, si è sviluppato infatti un diverso tipo di Chiesa, che differisce in maniera non trascurabile dalla struttura ecclesiale di fondo della Chiesa primitiva. La conseguenza di ciò è che il dialogo ecumenico con queste Comunità ecclesiali, condotto dalla sezione “occidentale” del Pontificio Consiglio, non può semplicemente trattare singole differenze dottrinali come il primato del Vescovo di Roma, ma deve affrontare questioni più fondamentali.
Nel presente contesto, non mi sarà possibile parlare nel dettaglio di tutti i dialoghi ecumenici che sono stati allacciati con queste Comunità ecclesiali. A titolo di esempio, mi soffermerò sul dialogo con la Federazione Luterana Mondiale, che assume un ruolo speciale tra i vari dialoghi che la Chiesa cattolica porta avanti con le Chiese nate dalla Riforma. Non solo è stato il primo dialogo che la Chiesa cattolica ha avviato subito dopo la conclusione del Concilio Vaticano Secondo, ma è anche il dialogo che si è rivelato più fruttuoso negli ultimi cinquant’anni e passa.
Una tappa essenziale per la reciproca intesa è stata segnata soprattutto dalla Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione, firmata il 31 ottobre 1999 ad Augsburg dalla Federazione Luterana Mondiale e dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.[14] Su quella che fu certamente la questione fondamentale all’origine della Riforma e poi della divisione nella Chiesa nel XVI secolo, è stato così raggiunto un ampio consenso teologico, che va considerato come una cruciale pietra miliare sul cammino ecumenico. L’importanza di questa Dichiarazione è stata ulteriormente evidenziata dal fatto che, nel frattempo, ad essa hanno aderito anche i metodisti e i riformati, e anche gli anglicani l’hanno accolta.
Senza la Dichiarazione Congiunta, non sarebbe stata possibile la Commemorazione comune dell’inizio della Riforma di cinquecento anni fa, preparata dalla Commissione luterana-cattolica per l’unità con il documento “Dal conflitto alla comunione”, e celebrata il 31 dicembre 2016 nella cattedrale luterana di Lund alla presenza di Papa Francesco e del Presidente della Federazione Luterana Mondiale, il Vescovo Munib Younan. Entrambi, nella loro dichiarazione, hanno sottolineato quanto oggi possiamo dire insieme, da un punto di vista ecumenico, della Riforma del XVI secolo, e hanno affermato: “Mentre siamo profondamente grati per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la Riforma, confessiamo e deploriamo davanti a Cristo il fatto che luterani e cattolici hanno ferito l’unità visibile della Chiesa.”
La Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione del 1999 riconosce anche che le divergenze ecclesiologiche non sono ancora state appianate. Ciò implica che, tra i punti principali all’ordine del giorno nei dialoghi ecumenici con le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, dovrà esserci il chiarimento teologico del concetto di Chiesa. Alla luce di tutto ciò, ho ritenuto opportuno suggerire che luterani e cattolici comincino a lavorare alla stesura di una nuova “Dichiarazione comune su Chiesa, eucaristia e ministero”.[15] Con gratitudine, ho preso atto dell’accoglienza positiva che questa mia proposta ha già avuto in vari contesti: il dialogo luterano-cattolico negli Stati Uniti ha già pubblicato un proprio documento sul tema: “Dichiarazione in cammino: Chiesa, Eucaristia e ministero”[16]; e anche la Commissione cattolica-luterana in Finlandia ha pubblicato il risultato del suo dialogo ecumenico, con il titolo: “Comunione in crescita: Dichiarazione su Chiesa, Eucaristia e ministero”[17].
È in questa direzione che dobbiamo continuare a lavorare. Se riuscissimo a mettere a punto e ad adottare una Dichiarazione su Chiesa, Eucaristia e ministero analoga a quella sulla dottrina della giustificazione, compiremmo un passo decisivo verso l’unità visibile della Chiesa, obiettivo che non deve essere perso di vista neanche nel dialogo con le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma.
Per poter avanzare su questa strada, deve essere affrontato quello che è sicuramente il problema più difficile, ovvero la mancanza fino ad oggi di un reale consenso sul concetto di unità della Chiesa e, di conseguenza, sull’obiettivo del movimento ecumenico. Il vescovo cattolico Paul-Werner Scheele ha riassunto la complessa situazione dell’attuale movimento ecumenico con questa diagnosi: “Siamo d’accordo sulla necessità dell’unità, ma non su cosa essa sia.”[18] Su tale problema deve incentrarsi il dialogo ecumenico. Se i vari partner ecumenici non hanno in mente un fine comune, ma comprendono in modo diverso ciò che è indispensabile per l’unità della Chiesa, essi rischiano fortemente d’incamminarsi in direzioni differenti per poi scoprire di essere ancora più lontani di prima gli uni dagli altri.
d) Il dialogo con le Comunità evangelicali e pentecostali
La complessità della situazione si è acuita negli ultimi decenni a causa della comparsa sulla scena di nuovi partner ecumenici. Oggi gli incontri e i dialoghi ecumenici non avvengono più soltanto tra le maggiori Chiese storiche soprattutto in Occidente, ma hanno luogo anche con molti nuovi movimenti cristiani, perlopiù nell’area protestante. Di particolare importanza è la rapida crescita di Chiese libere autoctone, di gruppi carismatici ed evangelicali e di movimenti pentecostali, inizialmente nell’emisfero sud, ma progressivamente anche in altri continenti.[19]
Soprattutto il pentecostalismo, con i suoi circa cinquecento milioni di membri, è in termini numerici la seconda comunità cristiana dopo la Chiesa cattolica romana.[20] Si tratta di un fenomeno in così evidente espansione che si può parlare di una “pentecostalizzazione” odierna del cristianismo, ravvisando in esso una nuova quarta forma dell’essere Chiesa, accanto alle Chiese ortodosse e ortodosse orientali, alla Chiesa cattolica e alle Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma.
Nell’attuale situazione ecumenica, la rapida crescita delle cosiddette Chiese pentecostali è una delle sfide principali; essa traspare soprattutto dal fatto che i dialoghi ecumenici con questi nuovi movimenti prevedono punti all’ordine del giorno diversi rispetto a quelli dei dialoghi con le grandi Chiese storiche. Il motivo di ciò è che, con i nuovi movimenti pentecostali, emerge un modo completamente nuovo di essere Chiesa, in cui la dimensione carismatica della fede e della vita in comunità riveste un ruolo cruciale. Si tratta di un tipo di Chiesa “che si basa sulla decisione individuale e che si concepisce più come un movimento che come un’organizzazione o una gerarchia, si concepisce cioè - in termini cristiani - come una congregazione decisamente fraterna”[21]. Questo nuovo tipo di Chiesa è anche legato al fatto che il pentecostalismo si considera il frutto di una nuova effusione pentecostale dello Spirito Santo, che si coniuga a una forte coscienza evangelizzatrice, la quale costituisce senza dubbio uno dei punti di forza di questi nuovi movimenti.
Questa coscienza evangelizzatrice è naturalmente anche alla base della tendenza spesso presente in tali movimenti di avvicinarsi in modo proselitistico ai fedeli delle Chiese storiche, tentando di conquistarli. Questo approccio pare riscuotere successo soprattutto quando il vangelo cristiano viene falsificato nel senso di una “teologia della prosperidade”, e il suo messaggio è trasformato in una promessa di felicità terrena e soprattutto economica, che ribalta l’opzione cristiana a favore dei poveri e dei deboli nel suo esatto contrario. Il dialogo ecumenico della Chiesa cattolica con i movimenti carismatici, evangelicali e pentecostali deve discutere di questi problemi, mirando a un consenso su una pratica comune di evangelizzazione che non comporti il proselitismo, tema del quale si è parlato nella quarta fase del dialogo internazionale tra la Chiesa cattolica e alcune comunità pentecostali classiche.[22]
3. Il dialogo con la comunità religiosa ebraica
La comparsa e la crescita delle nuove comunità e dei nuovi movimenti cristiani ha cambiato profondamente la geografia globale del cristianesimo negli ultimi decenni e ha reso molto più complessa e confusa la situazione ecumenica, facendo emergere nuove sfide. Costante è però la sfida di fondo, ovvero come superare le numerose divisioni che feriscono la storia del cristianesimo e come ricomporre l’unità. Nella panoramica offerta finora, non si è ancora parlato della prima e fondamentale scissione all’interno del popolo di Dio, vale a dire la divisione avvenuta a Gerusalemme tra cristiani ed ebrei, tra Chiesa e sinagoga.
Si tratta della divisione originaria, che tutt’oggi perdura. Il teologo cattolico Erich Przywara ha descritto questa prima e fondamentale divisione come la “spaccatura originaria”, facendo derivare da essa la successiva e progressiva incompletezza della Chiesa cattolica: “la frattura tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, la frattura tra la Chiesa romana e il pluriverso della Riforma (le innumerevoli Chiese e sette) sono legate alla “spaccatura originaria” tra l’ebraismo (gli ebrei non cristiani) e il cristianesimo (i ‘pagani’ secondo la terminologia delle lettere paoline)”. Poiché Przywara riteneva che questa spaccatura primordiale avesse un effetto continuativo nelle spaccature inter-cristiane, egli era anche convinto che le spaccature inter-cristiane sarebbero terminate solo con il superamento della spaccatura giudeo-cristiana, e più precisamente “quando, nella sua parusia, Cristo consegnerà il Regno di Dio e si sottometterà al Padre, affinché Dio sia tutto in tutti (1 Cor 15,28)”[23].
a) Il dialogo ebraico-cristiano sulla base di “Nostra aetate”
Il dialogo ebraico-cristiano si colloca quindi al centro dell’impegno della Chiesa cattolica in favore della riconciliazione ecumenica. Tenendo a mente tale obiettivo, Papa Paolo VI istituì, nel 1974, la Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’ebraismo collegandola, dal punto di vista organizzativo, all’allora Segretariato per l’unità dei cristiani. Così facendo, dette atto del rapporto unico e irripetibile tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, un rapporto che non esiste con alcun’altra religione, come sottolineò esplicitamente Papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita alla sinagoga di Roma nel 1986: “La religione ebraica non ci è ‘estrinseca’, ma in un certo qual modo, è ‘intrinseca’ alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione.”[24]
Sin dalla sua istituzione, la Commissione connessa a quello che oggi è il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani è stata incaricata di accompagnare e favorire il dialogo religioso con l’ebraismo, e dunque di piantare e far fruttificare nella vita della Chiesa la Dichiarazione del Concilio Vaticano Secondo sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, “Nostra aetate”, il cui quarto articolo è dedicato all’ebraismo.[25] Poco prima della fine della sessione conciliare del 28 novembre 1965, questa Dichiarazione fu approvata alla quasi totale unanimità, ovvero con 2221 voti favorevoli, 88 contrari e due astenuti, quindi con la stragrande maggioranza del 96% dei Padri conciliari, e venne promulgata da Papa Paolo VI. Nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, essa rappresenta la svolta fondamentale, soprattutto con il suo deciso no a tutti “gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque”, e con il suo altrettanto eloquente sì alle radici ebraiche della fede cristiana, e più precisamente al “patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei”.
Già nel 1974, anno della sua istituzione, la Commissione pubblicò, con l’espresso consenso di Papa Paolo VI, il suo primo documento ufficiale intitolato: “Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della Dichiarazione conciliare ‘Nostra aetate’ (n. 4)”[26]. Questo documento mette in risalto l’importanza del dialogo con gli ebrei per la Chiesa, e la necessità di familiarizzarsi con la visione che l’ebraismo ha di sé stesso. In questo senso, contiene già un programma completo di riavvicinamento cristiano-ebraico. Undici anni dopo, esso è stato integrato con un secondo documento in cui l’accento è posto sulla ricerca di un modo adeguato, dal punto di vista storico e teologico, di presentare l’ebraismo negli ambiti essenziali della Chiesa cattolica. Il testo s’intitola: “Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica”[27]. L’impulso per il terzo documento, pubblicato nel 1998 con il titolo: “Noi ricordiamo. Una riflessione sulla Shoah”, è venuto essenzialmente dagli interlocutori ebraici[28]. Là vengono evidenziati soprattutto l’atteggiamento dei cristiani nei confronti dell’antisemitismo nazionalsocialista e il dovere dei cristiani di ricordare la tragedia umana della Shoah.
In occasione del cinquantesimo anniversario della promulgazione di “Nostra aetate” nel 2015, la Commissione ha pubblicato il suo ultimo documento intitolato: “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29) – Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50.mo anniversario di Nostra aetate (n. 4)”[29]. Il documento è motivato dalla convinzione che, dopo cinquant’anni di dialogo cattolico-ebraico, i tempi siano maturi per affrontare e approfondire ulteriormente anche le questioni religioso-teologiche rimaste aperte, in particolare il rapporto tra l’antica e la nuova alleanza e tra l’universalità della salvezza di Gesù Cristo e l’alleanza permanentemente valida di Dio con Israele.
b) L’apprezzamento del dialogo con la Chiesa cattolica da parte ebraica
Il dialogo tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo ha incontrato un’accoglienza positiva anche da parte ebraica. Ne sono una testimonianza significativa i documenti pregnanti nei quali la parte ebraica prende posizione sul dialogo cattolico-ebraico e introduce prospettive ebraiche. Il primo documento è stato pubblicato nel 2000 da ebrei di tendenza liberale negli Stati Uniti, con il titolo “Dabru Emet” (“Dite la verità”); esso considera favorevolmente, in maniera esplicita, la nuova visione dell’ebraismo sviluppata dalla Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano Secondo.[30] Questo testo è stato seguito nel 2015 dal documento “Fare la volontà del Padre celeste. Verso un partenariato tra ebrei e cristiani”, nato da un’iniziativa privata di singoli rabbini come risposta ebraica ai cinquant’anni di impegno intrapreso dalla Chiesa cattolica a favore della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, dal Concilio Vaticano Secondo in poi; esso riconosce il cristianesimo come una “religione monoteista” voluta da Dio, il cui merito speciale è di aver condotto “le genti al Dio d’Israele”.[31]
“Tra Gerusalemme e Roma”: questo è il titolo promettente dell’ultima dichiarazione del dialogo ebraico-cattolico, pubblicata nel 2017 da alcune organizzazioni ebraico-ortodosse, e più precisamente dalla “Conference of European Rabbis”, dal “Rabbinic Council of America” e dalla “Commissione di dialogo del Gran Rabbinato di Gerusalemme”. Dal punto di vista dell’ebraismo ortodosso, questo testo è soprattutto una risposta alla Dichiarazione conciliare “Nostra aetate”, riconosciuta come svolta decisiva nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, e al documento che la Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’ebraismo ha pubblicato nel 2015 in occasione del cinquantesimo anniversario di “Nostra aetate” con il titolo “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29)”.
Questi tre documenti sono la risposta della parte ebraica al dialogo ebraico-cattolico; si tratta di documenti di grande importanza, in quanto hanno inaugurato una “nuova fase del dialogo ebraico-cristiano”.[32] Leggendo in particolare l’ultima dichiarazione, si nota che da parte ebraica l’enfasi non è posta tanto sulla dimensione religioso-teologica del dialogo ebraico-cattolico, quanto sulle questioni culturali ed etiche, sociali e politiche, nella speranza di intensificare la buona collaborazione e soprattutto di rafforzare la lotta comune all’antisemitismo. Questa enfasi è comprensibile, anche alla luce del fatto che stiamo assistendo a una preoccupante recrudescenza di tendenze antisemite in vari paesi europei. I nostri fratelli e le nostre sorelle ebrei possono essere certi di avere nella Chiesa cattolica un partner affidabile nella lotta contro la piaga dell’antisemitismo; di fatti, Papa Francesco non si stanca di sottolineare che è impossibile essere allo stesso tempo cristiani e antisemiti.
Da parte ebraica, la reticenza nel trattare temi religioso-teologici nel dialogo è dovuta anche all’importanza attribuita al rispetto reciproco delle rispettive credenze: “Le differenze dottrinali sono essenziali e non possono essere discusse e negoziate.” Noi cristiani dobbiamo naturalmente prendere sul serio tale convinzione. D’altra parte, per noi cristiani l’ebraismo è la religione che ci è più vicina, e siamo legati al popolo ebraico principalmente per ragioni religiose. Resta quindi la speranza di poter maggiormente affrontare nel dialogo, nel rispetto reciproco, anche le tematiche religiose e teologiche. Solo così le due religioni potranno ulteriormente avvicinarsi l’una all’altra e sarà possibile tentare di sanare l’originaria frattura tra Chiesa e sinagoga che si colloca all’inizio della storia cristiana. Noi cristiani siamo comunque convinti che anche l’ecumenismo cristiano potrà avere ancora più successo se verrà realizzato alla luce del risanamento della prima spaccatura avvenuta nel mondo monoteistico, ovvero la spaccatura originaria tra Chiesa e sinagoga, e dunque alla luce del dialogo ebraico-cristiano e dell’eredità spirituale in esso riconosciuta, comune all’ebraismo e a tutte le Chiese e le Comunità cristiane.
[1] S. Schmidt, Agostino Bea. Il Cardinale dell’unità (Roma 1987). Cfr. anche Id., Agostino Bea, Cardinale dell’ecumenismo e del dialogo (Roma 1996).
[2] Vgl. H. J Pottmeyer, Die Öffnung der römisch-katholischen Kirche und die ekklesiologische Reform des 2. Vatikanums. Ein wechselseitiger Einfluss, in: Paolo VI e l‘Ecumenismo. Colloquio Internazionale di Studio Brescia 1998 (Brescia – Roma 2001) 98-117.
[3] J. Ratzinger, Das Konzil auf dem Weg. Rückblick auf die zweite Sitzungsperiode des Zweiten Vatikanischen Konzils (Köln 1964) 21.
[4] Ench. Vat. Vol 1 Documenti del Concilio Vaticano II, 104. f.
[5] Unitatis redintegratio, n. 13.
[6] Vgl. J. Kardinal Ratzinger, Die ökumenische Situation – Orthodoxie, Katholizismus und Reformation, in: Ders., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie (München 1982) 203-214.
[7] Vgl. K. Kardinal Koch, Jesus der Christus: Grund der Einheit oder Motiv der Trennung? in: Th. Hainthaler / D. Ansorge / A. Wucherpfennig (Hrsg.), Jesus Christus im Glauben der einen Kirche. Christologie – Kirchen des Ostens – Ökumenische Dialoge (Freiburg i. Br. 2019) 365-384.
[8] Dichiarazione Comune di Papa Giovanni Paolo II e del Patriarca siro d’Antiochia Moran Mar Ignatius Zakka I Iwas, il 23 giugno 1984.
[9] Vgl. J. Oeldemann, Gemeinsamer Glaube und pastorale Zusammenarbeit. 25 Jahre Weggemeinschaft zwischen der Syrisch-Orthodoxen Kirche und der Römisch-Katholischen Kirche (Basel 2011).
[10] Dokumentiert in: J. Oeldemann, F. Nüssel, U. Swarat, A. Vletsis (Hrsg.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. Band 4: 2001 -2010 (Paderborn – Leipzig 2012) 849- 868.
[11] Vgl. K. Cardinal Koch, Auf dem Weg zur Wiederherstellung der einen Kirche in Ost und West, in: D. Schon (Hrsg.), Dialog 2.0 - Braucht der orthodox-katholische Dialog neue Impulse? (Regensburg 2017) 19-41.
[12] Dokumentiert in: J. Oeldemann, F. Nüssel, U. Swarat, A. Vletsis (Hrsg.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. Band 4: 2001-2010 (Paderborn – Leipzig 2012) 833-848.
[13] Vgl. B. Hallensleben (Hrsg.), Orthodoxe Kirche in der Ukraine – wohin? Dokumente zur Debatte um die Autokephalie = Studia Oecumenica Friburgensia 92 (Münster 2019).
[14] Dokumentiert in: H. Meyer, D. Papandreou, H. J. Urban, L. Vischer (Hrsg.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. Band 3: 1990-2001 (Paderborn – Frankfurt a. M. 2003) 419-441.
[15] K. Koch, Auf dem Weg zur Kirchengemeinschaft. Welche Chance hat eine gemeinsame Erklärung zu Kirche, Eucharistie und Amt? in: Catholica 69 (2015) 77-94.
[16] Committee on Ecumenical and Interreligious Affairs, United States Conference of Catholic Bishops – Evangelical-Lutheran Church in America, Declaration on the Way. Church, Ministry, and Eucharist (Minneapolis 2015).
[17] Communion in Growth. Declaration on the Church, Eucharist, and Ministry. A Report from the Lutheran-Catholic Dialogue-Commission for Finland (Helsinki 2017).
[18] P.-W. Scheele, Ökumene - wohin? Unterschiedliche Konzepte kirchlicher Einheit im Vergleich, in: St. Ley, I. Proft, M. Schulze (Hrsg.), Welt vor Gott. Für George Augustin (Freiburg i. Br. 2016) 165-179, zit. 165.
[19] Vgl. J. Müller – K. Gabriel (Eds.), Evangelicals, Pentecostal Churches, Charismatics. New religious mouvements as a challenge for the Catholic Church (Quezon 2015).
[20] Vgl. K. Krämer, K. Vellguth (Hrsg.), Pentekostalismus. Pfingstkirchen als Herausforderung in der Ökumene = Theologie in der einen Welt. Band 15 (Freiburg i. Br. 2019).
[21] H.-P. Rethmann, Die geschichtliche Entwicklung der Pfingstbewegung und ihre Praxis. Anfragen an Theologie und Kirche, in: T. Kessler / H.-P. Rethmann (Hrsg.), Pentekostalismus. Die Pfingstbewegung als Anfrage an Theologie und Kirche (Regensburg 2012) 15-33, zit. 30.
[22] Dialog zwischen Pfingstlern und der Römisch-Katholischen Kirche. Evangelisation, Proselytismus und Gemeinsames Zeugnis. Abschlussbericht der vierten Phase des internationalen Dialogs zwischen der Römisch-Katholischen Kirche und einigen klassischen pfingstlichen Kirchen und Leitern, 1990-1997, in: H. Meyer, D. Papandreou, H. J. Urban, L. Vischer (Hrsg.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. Band 3: 1990-2003 (Paderborn – Frankfurt a. M. 2003) 602-638.
[23] E. Przywara, Römische Katholizität – All-christliche Ökumenizität, in: J. B. Metz u. a. (Hrsg.), Gott in Welt. Festgabe für K. Rahner (Freiburg i. Br. 1964) 524-528.
[24] Giovanni Paolo II, Ringraziamo il Signore per la ritrovata fratellanza e per la profonda intesa tra la Chiesa e l’Ebraismo. Allocuzione nella Sinagoga durante l’incontro con la Comunità Ebraica della Città di Roma il 13 aprile 1986, in: Insegnamenti di Giovanni Paolo II IX, 1 1986 (Città del Vaticano 1986) 1024-1031, cit. 1027.
[25] Vgl. K. Cardinal Koch, The International Dialogue between the Catholic Church and the Jews since Nostra Aetate, in: P. Valkenberg and A. Cirelli (Ed.), Nostra Aetate. Celebrating Fifty Years of the Catholic Church´s Dialogue with Jews and Muslims (Washington D.C. 2016) 161-177. Vgl. jetzt auch J. Ahrens / N. J. Hofmann, Geschwister auf einer gemeinsamen Suche. Aktuelle Chancen und Herausforderungen im jüdisch-katholischen Gespräch (Ostfildern 2021).
[26] Pubblicato in lingua francesce in: AAS 67 (1975) 73-79.
[27] Pubblicato in lingua francesce in: La Documentation Catholique 76 (1985) 733-738.
[28] Pubblicato in lingua inglese in: The Pontifical Council for Promoting Christian Unity (Ed.), Information Service 97 I-II (1998) 18-22.
[29] Pubblicato nella Collana “Documenti Vaticani” (Città del Vaticano 2015).
[30] Cfr. E. Kessler, „Dabru Emet“, in: Ibid., N. Wenborn (Ed.), A Dictionary of Jewish-Christian Relations (Cambridge 2005).
[31] Vgl. N. J. Hofmann, „Auf dem Weg zu einer vertieften Partnerschaft zwischen Juden und Christen“, in: J. Ahrens – K.-H. Blickle – D. Bollag – J. Heil (Hrsg.), Hin zu einer Partnerschaft zwischen Juden und Christen. Die Erklärung orthodoxer Rabbiner zum Christentum (Berlin 2017).
[32] Vgl. N. J. Hofmann, Eine neue Phase des Gesprächs. Die jüngsten jüdisch-orthodoxen Dokumente zum jüdisch-christlichen Dialog, in: Kirche und Israel 33 (2018) 24-31.