IL VESCOVO, IL DIALOGO ECUMENICO NEI TERRITORI
DI MISSIONE E LA PRESENZA DI NUOVI MOVIMENTI[1]

 

Kurt Cardinal Koch

 

Cari confratelli nell’episcopato che siete chiamati a lavorare nei territori di missione, è per me una grande gioia potervi incontrare e con voi discutere della particolare responsabilità del Vescovo per la promozione del dialogo ecumenico. Di fatti, cruciale per l’ecumenismo è la credibilità di come viene percepito il nostro compito, che è quello di testimoniare nel mondo il Dio vivente, che ci ha rivelato il suo vero volto in Gesù Cristo. Ma nel mondo di oggi, la divisione tra i cristiani è il maggiore ostacolo che si frappone a questa missione della Chiesa.

 

1. Missione ed ecumenismo come gemelli ecclesiali

Innanzitutto ci si potrebbe chiedere fino a che punto questa problematica riguarda i territori di missione, poiché le divisioni della Chiesa si sono verificate principalmente non nei territori di missione, ma nel mondo occidentale e tra oriente ed occidente. D’altro canto, però, si deve prendere atto del fatto che la missione cristiana non ha portato nelle altre culture soltanto il Vangelo di Gesù Cristo, ma anche le divisioni della Chiesa in Europa, così che le varie confessioni sono entrate in concorrenza tra loro nell’attività missionaria. Ecco la fondamentale costatazione che fu fatta durante la prima Conferenza Mondiale sulla Missione tenutasi ad Edimburgo nel 1910. Ai partecipanti era chiaro lo scandalo insito nel fatto che le varie confessioni cristiane che si erano fatte concorrenza nel loro lavoro missionario avevano danneggiato la credibilità dell’evangelizzazione soprattutto nei continenti più lontani. Il riconoscimento di tale colpa condusse, in senso positivo, alla convinzione che la testimonianza credibile dell’opera salvifica di Gesù Cristo per tutti gli uomini è possibile soltanto quando le Chiese e le Comunità ecclesiali cristiane riescono a superare le loro divisioni nella dottrina e nella vita ecclesiale. In questo spirito, ad Edimburgo soprattutto il vescovo anglicano missionario Charles Brent invitò a compiere sforzi più intensi per il superamento di quelle differenze relative alla dottrina e all’ordinamento delle Chiese che si frapponevano sul cammino verso l’unità. Alla luce del riconoscimento che la divisione della cristianità è il maggior ostacolo per la missione nel mondo, il compito missionario è da allora divenuto ancora più chiaramente uno dei temi fondamentali dell’ecumenismo e la dimensione ecumenica del lavoro missionario è percepita in maniera sempre più forte.

Da Edimburgo in poi, la responsabilità ecumenica e l’impegno missionario sono visti come indissociabili, come gemelli ecclesiali che si chiamano e si appoggiano a vicenda. Questo vale in modo particolare nei territori di missione, a cui Papa Francesco fa riferimento in maniera decisa nella sua Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium”: “Data la gravità della controtestimonianza della divisione tra cristiani, particolarmente in Asia e Africa, la ricerca di percorsi di unità diventa urgente. I missionari in quei continenti menzionano ripetutamente le critiche, le lamentele e le derisioni che ricevono a causa dello scandalo dei cristiani divisi.” Pertanto, “l’impegno per un’unità che faciliti l’accoglienza di Gesù Cristo smette di essere mera diplomazia o un adempimento forzato, per trasformarsi in una via imprescindibile dell’evangelizzazione.”[2]

L’inscindibile legame tra sforzo ecumenico e lavoro missionario non deriva soltanto dalla situazione storica della divisione del cristianesimo, ma si fonda in maniera ancora più essenziale sulla volontà stessa di Gesù Cristo. Infatti, nella sua preghiera sacerdotale alla vigilia della sua passione e morte, Gesù non ha solo invocato l’unità dei suoi discepoli, ma ne ha indicato il chiaro obiettivo: “perché …. il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv 17, 23). Con questa frase conclusiva, l’evangelista Giovanni sottolinea che l’unità dei discepoli di Cristo non è un fine in sé, ma si pone al servizio dell’annuncio credibile della missione di Gesù e della sua Chiesa nel mondo. In un mondo in cui il male è presente con così tanta forza, è possibile annunciare la salvezza di Dio soltanto se ciò avviene in maniera ecumenicamente riconciliata. L’ecumenismo è dunque un cantiere del futuro della Chiesa e proprio per questo fa parte della responsabilità del Vescovo, in particolare nei territori di missione.

Su questo stretto legame tra missione ed ecumenismo, il Concilio Vaticano Secondo ha posto un accento particolare.[3] Nell’ottica del Concilio, la missione è un movimento escatologico, nel quale la Chiesa accoglie in sé i grandi patrimoni delle culture dei popoli, li purifica, li arricchisce e si lascia da loro arricchire. Poiché per sua natura la Chiesa è missionaria, il Concilio ha interpretato anche la Chiesa come un movimento escatologico, più precisamente come popolo di Dio, nel suo pellegrinaggio terreno tra il “già” e il “non ancora”. In questa dinamica escatologica della Chiesa il Concilio ha integrato anche il movimento ecumenico, il quale consiste in uno scambio reciproco di doni tra le Chiese divise in un vicendevole arricchimento affinché la Chiesa possa riacquistare la sua vera pienezza cattolica. In questa prospettiva escatologica, il movimento ecumenico ed il movimento missionario sono legati inscindibilmente; missione ed ecumenismo sono le due forme della dinamica escatologica della Chiesa.

Si capisce allora perché il Concilio Vaticano Secondo ha visto il fondamento dell’ecumenismo nella natura teologica della Chiesa. Promulgando il Decreto sull’Ecumenismo a conclusione della terza sessione del Concilio, il beato Papa Paolo VI dichiarò esplicitamente che questo Decreto delucidava e completava la Costituzione Dogmatica sulla Chiesa: “ea doctrina explicationibus completa”[4]. Così facendo, il Papa non sminuiva assolutamente il valore teologico del Decreto sull’Ecumenismo, ma, nel suo significato teologico fondamentale, lo collegava piuttosto alla Costituzione Dogmatica sulla Chiesa. Già all’inizio della seconda sessione del Concilio, Papa Paolo VI, nel suo pregnante discorso di apertura, sottolineava che l’avvicinamento ecumenico costituiva uno degli obiettivi centrali ovvero il dramma spirituale per il quale il Concilio Vaticano Secondo era stato convocato.[5] Questa convinzione si è riflettuta poi nella prima frase del Decreto sull’Ecumenismo: “Promuovere il ristabilimento dell'unità fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti del sacro Concilio ecumenico Vaticano II”. L’urgenza di tale causa veniva anche giustificata con il fatto che la credibilità della missione della Chiesa era messa a repentaglio dalla divisione: “Tale divisione non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura.”[6]

Nello stesso spirito, il santo Papa Giovanni Paolo II, nella sua lungimirante enciclica sull’impegno ecumenico “Ut unum sint”, ha sottolineato che il cammino ecumenico è il cammino della Chiesa ed ha affermato in maniera inequivocabile che l’ecumenismo, il movimento a favore dell’unità dei cristiani, “non è soltanto una qualche ‘appendice’, che s’aggiunge all’attività tradizionale della Chiesa”. Al contrario, “esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo.”[7] Contro i vari dubbi nutriti sia dai fautori che dai detrattori dell’ecumenismo, Papa Giovanni Paolo II ha voluto far presente in modo inequivocabile che la Chiesa, con il Concilio Vaticano Secondo, si è impegnata in maniera irreversibile nell’ecumenismo e che questa decisione è irrevocabile.

 

2. L’ecumenismo come sacro compito del Vescovo

Questo vale in modo particolare per la responsabilità ecumenica del Vescovo diocesano, a proposito del quale si dice, nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (CCEO): “Poiché la sollecitudine di ristabilire l’unità di tutti quanti i cristiani spetta all’intera Chiesa, tutti i fedeli cristiani, ma specialmente i Pastori della Chiesa, devono pregare il Signore per questa desiderata pienezza di unità della Chiesa e darsi da fare partecipando ingegnosamente all’attività ecumenica suscitata dalla grazia dello Spirito Santo.”[8] E nel Codice di diritto canonico della Chiesa latina si legge: il Vescovo diocesano “abbia un atteggiamento di umanità e di carità nei confronti dei fratelli che non sono nella piena comunione con la Chiesa cattolica, favorendo anche l’ecumenismo, come viene inteso dalla Chiesa”[9]. In queste parole brevi e precise sono contenuti gli aspetti essenziali della responsabilità ecumenica del Vescovo, su cui mi soffermerò qui di seguito.

a) Il ministero pastorale del Vescovo a servizio dell’unità ecumenica

Il compito di promuovere l’ecumenismo figura in primo luogo nel CIC là dove vengono descritti i doveri del Vescovo diocesano e, più precisamente, l’esercizio del suo ministero di pastore. In questo contesto specifico, si fa presente che la promozione dell’ecumenismo nel ministero del Vescovo diocesano non è né una questione d’affabilità personale, né un esercizio pastorale opzionale che può essere rinviato davanti a priorità apparentemente più importanti. Esso non è una scelta arbitraria, ma un sacro compito. Infatti, il compito di promuovere l’ecumenismo è implicito nel ministero pastorale del Vescovo, che è essenzialmente un servizio all’unità, ovvero a quell’unità che deve essere intesa in maniera più ampia della semplice unità della propria comunità diocesana e che comprende anche e precisamente i battezzati non cattolici.

Il servizio reso dal Vescovo all’unità sia della propria Chiesa che della comunità ecumenica rappresenta una sfida del tutto particolare ai nostri giorni, poiché oggi la ricerca dell’unità ed il discorso su di essa sono percepiti come problematici se non addirittura come sospetti. A differenza di quanto avviene nella Tradizione, in cui, secondo l’assioma teologico “ens et unum convertuntur”, l’unità è intesa come senso e fondamento della realtà, oggi è il pluralismo ad essere diventato un concetto base nella percezione dell’esperienza della realtà. L’idea fondamentale della mentalità postmoderna consiste nella convinzione di non dovere e di non potere indagare col pensiero oltre la pluralità della realtà se non si vuole essere sospettati di propendere verso un pensiero totalitario; si è cioè convinti che la pluralità è l’unico modo in cui la totalità del reale ci si mostra, se mai lo fa. L’atteggiamento fondamentale postmoderno è segnato pertanto non solo dall’accettazione e dalla tolleranza della pluralità, ma anche e soprattutto da una chiara preferenza per il pluralismo.

Tale determinato rifiuto di ogni postulato di unità ha un impatto soprattutto nella discussione ecumenica, dove l’unità viene vista al massimo come un riconoscimento tollerante della diversità. Sulla base di questa convinzione si conclude spesso che le varie Chiese e Comunità ecclesiali non hanno più bisogno di ritrovare tra loro l’unità, ma devono piuttosto accettarsi e riconoscersi a vicenda nella loro diversità, e persino nella loro contraddittorietà confessionale. Non può dunque sorprendere che l’obiettivo del movimento ecumenico non sia più ricercato nella comunione-unità ecclesiale, ma soltanto nella cosiddetta intercomunione.

Con ciò tocchiamo uno dei problemi principali dell’attuale situazione ecumenica, che chiama in campo in particolare la responsabilità ecumenica del Vescovo. Questo problema consiste nel fatto che, nel corso degli ultimi decenni, l’obiettivo del movimento ecumenico è andato man mano offuscandosi. Soprattutto da parte di varie Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma è stato progressivamente abbandonato l’obiettivo originario dell’unità visibile nella fede comune, nei sacramenti e nei ministeri ecclesiali a favore del postulato di un mutuo riconoscimento delle diverse Comunità ecclesiali come Chiese e dunque come parti dell’unica Chiesa di Gesù Cristo. Con ciò, è vero, non si afferma la sostanziale invisibilità dell’unità della Chiesa; ma l’unità visibile della Chiesa risulta essere una mera somma delle varie comunità ecclesiali, cosicché viene in mente, per analogia, l’immagine di tante case monofamiliari, in cui le famiglie conducono la propria vita in maniera indipendente e si invitano a pranzo di tanto in tanto. Ma non si capisce come questo obiettivo ecumenico possa conciliarsi con l’immagine biblica della Chiesa quale Corpo indiviso di Cristo e con la preghiera sacerdotale di Gesù per l’unità dei suoi discepoli. Infatti, se si equipara la somma di tutte le comunità ecclesiali esistenti all’unico Corpo di Cristo, allora non solo l’unità della Chiesa diventa il semplice prodotto dei nostri sforzi umani, ma –cosa ancora più grave- la Chiesa di Cristo, una e unica, che professiamo nel Credo, si riduce a un fantasma, mentre fondamentale per lei è proprio il suo essere Corpo.

Un simile pluralismo ecclesiologico, privilegiato nel protestantesimo odierno, è inconciliabile con i principi cattolici dell’ecumenismo, come ha affermato esplicitamente Papa Benedetto XVI: “La ricerca del ristabilimento dell’unità tra i cristiani divisi non può pertanto ridursi ad un riconoscimento delle reciproche differenze ed al conseguimento di una pacifica convivenza: ciò a cui aneliamo è quell’unità per cui Cristo stesso ha pregato e che per sua natura si manifesta nella comunione della fede, dei sacramenti, del ministero.”[10] Pertanto, è una responsabilità particolare del Vescovo nella situazione ecumenica odierna sforzarsi di definire un adeguato obiettivo del movimento ecumenico e porsi al servizio dell’unità ricordando l’importanza fondamentale del pensiero unitario. Di fatti, nella Sacra Scrittura come nella Tradizione della Chiesa, l’unità si rivela una categoria talmente fondamentale che la divisione e la dispersione sono considerate come conseguenze della confusione babilonese delle lingue, a cui viene contrapposto il messaggio dell’unico Dio, dell’unico Redentore, dell’unico Spirito, dell’unico battesimo, dell’unica Chiesa e dell’unica umanità.

b) Il Vescovo come promotore spirituale del dialogo della carità

In secondo luogo, l’impegno ecumenico del Vescovo viene definito nel diritto canonico indicando l’ “atteggiamento di umanità e di carità” che deve avere “nei confronti dei fratelli che non sono nella piena comunione con la Chiesa cattolica”. Nel servizio del Vescovo si pone dunque chiaramente l’accento sul “dialogo della carità”. Questo dialogo non può naturalmente sostituire il “dialogo della verità”, ma ne costituiste lo spazio vitale organico ed il presupposto indispensabile. Tale visione si è concretizzata soprattutto nelle relazioni ecumeniche con le Chiese ortodosse, a proposito delle quali il memorabile atto con cui, il 7 dicembre del 1965, Papa Paolo VI ed il Patriarca ecumenico Athenagoras cancellavano le reciproche scomuniche del 1054 è diventato il punto di partenza di un nuovo rapporto tra le due Chiese sorelle. Con tale atto “dall’organismo della Chiesa” è stato tolto il “veleno” ed il “simbolo della divisione” è stato sostituito con “il simbolo della carità”.[11]

Con questo evento storico e con i successivi dialoghi ecumenici naturalmente non si è ancora raggiunto l’obiettivo della ricomposizione dell’unità della Chiesa e della comunione sacramentale. Ma tra le due Chiese si è sviluppata una solida rete di relazioni umane e di amicizie cristiane, che renderanno possibile un ulteriore avvicinamento sul cammino comune. Legata a ciò è la riscoperta della fraternità cristiana, grazie alla quale i cristiani divisi non si pongono più gli uni di fronte agli altri come nemici confessionali o indifferenti vicini, ma si incontrano come fratelli e sorelle. Nel frattempo, questo ecumenismo di vita si è diffuso anche tra i fedeli: per molti cristiani l’ecumenismo non è più un termine sconosciuto che incute timore, ma è ormai una realtà vissuta nel quotidiano. Ciò è vero soprattutto quando ci si comporta secondo la regola di vita ecumenica, che consiste nella partecipazione dei cristiani e delle Chiese alla vita degli altri cristiani e delle altre Chiese nella gioia come pure nella sofferenza, nel senso che là dove una Chiesa si rallegra anche le altre si rallegrano con lei e là dove una Chiesa soffre le altre soffrono con lei.

Tale “sym-patheia” cristiano-ecumenica, alla quale è chiamato in particolar modo il Vescovo, ci rivela anche il senso più profondo del dialogo ecumenico. Come sottolinea il Decreto sull’Ecumenismo, il dialogo ecumenico non è soltanto uno scambio di idee, ma un molto più profondo scambio di doni[12], nel quale i vari partner ecumenici condividono le proprie ricchezze gli uni con gli altri e si arricchiscono così vicendevolmente. È allora fondamentale il fatto che questo scambio, nel quale non si comunica semplicemente “qualcosa”, ma si comunica qualcosa di noi stessi, non avviene in virtù di una liberalità filantropica, ma sulla base di un’unità già acquisita mediante l’unico battesimo. Poiché il battesimo è la porta d’ingresso nell’ecumenismo e l’ecumenismo sta o cade con il reciproco riconoscimento del battesimo, l’ecumenismo è sempre in sostanza un “ecumenismo battesimale”[13].

L’ecumenismo di vita ed il dialogo della carità trovano la loro più intensa espressione nell’ecumenismo spirituale, definito dal Decreto sull’Ecumenismo “l’anima di tutto il movimento ecumenico”[14]. La preghiera per l’unità è e rimane la forma fondamentale dell’ecumenismo e dunque la caratteristica distintiva di ogni sforzo ecumenico; e il servizio pastorale del Vescovo a favore dell’unità ecumenica è in prima linea un servizio a favore della preghiera e della promozione della preghiera per l’unità dei cristiani. Questa convinzione ha trovato molto presto la sua concreta e visibile espressione, essendo stata la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani un impulso all’origine del movimento ecumenico e dunque, fin dagli inizi, un’idea ecumenica. Essa fu promossa da Paul Wattson, un anglicano americano che poi passò alla Chiesa cattolica, e da Spencer Jones, appartenente alla Chiesa episcopaliana. L’idea fu appoggiata da Papa Leone XIII e fu introdotta in tutta la Chiesa cattolica da Papa Benedetto XV. In seguito, fu sviluppata dall’Abbé Paul Couturier, appassionato pioniere dell’ecumenismo spirituale che, riferendosi alla vicinanza ecumenica nella preghiera, usò la bella metafora del monastero invisibile. Questo fervido inizio del movimento ecumenico non può essere lasciato alle spalle; si tratta piuttosto di un inizio che continua a camminare con noi e che deve accompagnare tutti i nostri sforzi ecumenici.

L’importanza fondamentale dell’ecumenismo spirituale è legata al fatto che, con la preghiera per l’unità, noi cristiani testimoniano la nostra profonda convinzione che non possiamo noi stessi fare l’unità, né definire la sua forma e il momento in cui si realizzerà, ma possiamo solo riceverla in dono. L’ecumenismo cristiano deve sempre orientarsi verso la preghiera che Gesù stesso rivolse al Padre per l’unità dei suoi discepoli e, in un ultima analisi, non può essere altro che la partecipazione alla preghiera sacerdotale di Gesù. Come Gesù non ha comandato l’unità ai suoi discepoli né l’ha pretesa da loro, ma ha pregato per lei, così anche oggi la preghiera per l’unità dei cristiani ci ricorda che anche nel campo ecumenico non tutto è il risultato del nostro fare, ma che piuttosto dobbiamo avere fiducia nell’opera misteriosa dello Spirito Santo almeno quanto abbiamo fiducia nei nostri stessi sforzi ecumenici. Anche oggi e soprattutto oggi, l’ecumenismo credibile sta o cade con l’approfondimento della sua forza spirituale[15]. L’ecumenismo può crescere in ampiezza solo se si radica nella sua profondità spirituale. Il lavoro a favore dell’ecumenismo è dunque soprattutto un compito spirituale e l’ecumenismo spirituale è il cuore dell’ecumenismo cristiano. A dispetto di ogni attivismo e pragmatismo ecumenico, uno dei compiti principali del Vescovo nel suo servizio ecumenico di pastore è quello di ricordare e promuovere la chiara priorità dell’ecumenismo spirituale.

c) Il Vescovo come fiduciario dei principi cattolici dell’ecumenismo

L’ecumenismo spirituale non si sostituisce né tanto meno si contrappone al dialogo teologico della verità, il quale tenta di risolvere quelle questioni di fede controverse che tutt’ora rendono impossibile la comunione ecclesiale. Questa dimensione è menzionata nel terzo orientamento contenuto nel diritto canonico circa la responsabilità ecumenica del Vescovo. In esso viene definito infatti il modo in cui il Vescovo deve promuovere l’ecumenismo, ovvero così “come viene inteso dalla Chiesa”. Dietro a questa formulazione vi è la convinzione che, fin tanto che il ristabilimento dell’unità dei cristiani non sarà realizzato, non potrà esistere un ecumenismo neutro e neppure un’interpretazione ecumenica dell’ecumenismo davvero sostenibile. Piuttosto, ogni Chiesa e Comunità ecclesiale intende la sua responsabilità ecumenica alla luce del fondamento delle proprie convinzioni di fede. È in questo senso che il Concilio Vaticano Secondo, nel primo capitolo del suo Decreto sull’Ecumenismo, ha formulato i “principi cattolici sull’ecumenismo”, che sono fondamentali per “l’esercizio dell’ecumenismo” descritto nel secondo capitolo e che costituiscono anche il quadro di riferimento cruciale per il compito ecumenico del Vescovo.

Promuovere l’ecumenismo “come viene inteso dalla Chiesa” significa in prima linea mettere in luce l’autocomprensione della Chiesa cattolica, con la quale essa partecipa al movimento ecumenico e che viene espressa soprattutto nella Costituzione Dogmatica sulla Chiesa con la famosa formula del “subsistit”. Secondo questa formula, l’unica e vera Chiesa di Gesù Cristo “sussiste” nella Chiesa cattolica, che è in comunione con il Vescovo di Roma e con gli altri Vescovi, ovvero in essa è presente concretamente e permanentemente riscontrabile[16]. Questa fondamentale convinzione ecclesiologica del Concilio Vaticano Secondo indica che la Chiesa di Gesù Cristo non va considerata come un’entità che, nascosta dietro le varie comunità ecclesiali particolari, poi si realizza di fatto in vario modo nelle diverse realtà ecclesiali; piuttosto, essa è una realtà che esiste fin da ora ed ha un luogo concreto nella storia in cui è permanentemente identificabile. Il termine ecclesiologico “subsistit” indica dunque “il carattere particolare e non moltiplicabile della Chiesa cattolica”: “C’è la Chiesa come soggetto nella realtà storica.”[17] L’unità della Chiesa che il movimento ecumenico vuole ricomporre non è pertanto una realtà che fluttua liberamente; piuttosto, essa è già data nella Chiesa cattolica, ma, a causa delle varie divisioni, non ancora nella sua pienezza cattolica.

Con la formula ecclesiologica del “subsistit”, il Concilio Vaticano Secondo intendeva più precisamente esprimere insieme due convinzioni. Da una parte, ha voluto ribadire e rinnovare l’affermazione tradizionale secondo la quale la vera Chiesa di Gesù Cristo esiste per sempre nella Chiesa cattolica. Dall’altra, ha voluto lasciare spazio al riconoscimento dell’esistenza di elementi della vera Chiesa anche al di fuori dei confini della Chiesa cattolica, nella convinzione che, come ha sottolineato chiaramente il santo Papa Giovanni Paolo II, oltre i limiti della comunità cattolica non c’è un “vuoto ecclesiale”: “Parecchi elementi di grande valore (eximia) che, nella Chiesa cattolica sono integrati alla pienezza dei mezzi di salvezza e dei doni di grazia che fanno la Chiesa, si trovano anche nelle altre Comunità cristiane”.[18]  Alla luce di ciò, la formula del “subsistit” può essere letta in maniera positiva come “clausola di apertura”[19] ecumenica, che si basa soprattutto su un concetto di Chiesa graduato, secondo il quale le Chiese e le Comunità ecclesiali non cattoliche partecipano all’unità e alla cattolicità della Chiesa cattolica in gradi diversi.

A questo concetto di Chiesa per gradi diversi è strettamente legata, in una prospettiva ecumenica, anche la definizione del rapporto tra battesimo ed eucaristia nel pensiero cattolico. Da un lato, il Decreto sull’Ecumenismo individua nel battesimo il motivo dell’appartenenza di tutti i cristiani alla Chiesa: “Coloro infatti che credono in Cristo ed hanno ricevuto validamente il battesimo, sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica.”[20] Dall’altro lato, però, il Decreto sottolinea distintamente che il battesimo “è soltanto l’inizio e l’esordio”, poiché, di per sé, “tende interamente all’acquisto della pienezza della vita in Cristo” ed è pertanto ordinato “all’integra professione della fede, all’integrale incorporazione nell'istituzione della salvezza, quale Cristo l’ha voluta, e infine alla piena inserzione nella comunità eucaristica”[21]. Il battesimo è dunque il vincolo sacramentale dell’unità e l’esordio della comunione ecclesiale, il cui culmine e compimento è rappresentato però dalla celebrazione comune dell’eucaristia.

 

3. Nuove sfide nella responsabilità ecumenica

Il compito ecumenico del vescovo consiste nel servizio all’unità dei cristiani. Oggi si trova di fronte a sfide del tutto nuove, dato che la geografia mondiale del cristianesimo ha subito un profondo cambiamento e che la situazione ecumenica è diventata molto più indecifrabile. Ciò si vede soprattutto nel comparire di nuovi partner nel dialogo ecumenico. Gli incontri e i dialoghi ecumenici non si hanno soltanto tra le grandi Chiese storiche, ma anche con molti movimenti cristiani nuovi, soprattutto in campo evangelico. È di particolare importanza la crescita rapida e numerosa delle libere Chiese autoctone, di gruppi evangelicali e carismatici e di movimenti  pentecostali non solo nell’emisfero sud, ma anche in altri continenti.[22] Soprattutto il Pentecostalismo, con i suoi circa 400 milioni di seguaci, costituisce numericamente la seconda comunità cristiana dopo la Chiesa cattolico-romana. Si tratta di un fenomeno in tale espansione da dover parlare di una pentecostalizzazione attuale del Cristianesimo oppure vi si può vedere una nuova, “quarta forma dell’esser cristiani”, accanto alle Chiese Ortodosse e Ortodosse Orientali, alla Chiesa Cattolica e alle Chiese e Comunità Ecclesiali nate dalla Riforma.[23]

La rapida crescita delle cosiddette Chiese Pentecostali pone una delle sfide fondamentali della situazione ecumenica odierna. Infatti si capisce facilmente che nei dialoghi ecumenici con questi nuovi movimenti prevalgono altri punti rispetto ai dialoghi con le grandi Chiese storiche e anche la questione dell’unità si pone in modo diverso. Con il Pentecostalismo è emerso innanzitutto un modo totalmente nuovo dell’essere Chiesa, in cui la dimensione carismatica della fede e della vita di fede nella comunità svolge un ruolo importante. Questo nuovo tipo di Chiesa poi dipende anche dal fatto che il Pentecostalismo non ritiene di avere radici dirette nel 16° secolo, ma si considera frutto di una nuova effusione pentecostale dello Spirito Santo. Pertanto in esso il credere all’azione dello Spirito Santo e il percepirla nella vita quotidiana concreta hanno un ruolo importante, così come il cosiddetto Battesimo dello Spirito Santo che suggella la fede e l’esperienza.

 Per i territori di missione mi pare opportuna una terza osservazione. La forza dei movimenti pentecostali risiede senza dubbio in una coscienza evangelizzatrice chiaramente sviluppata, da cui le grandi Chiese storiche potrebbero imparare. È evidente che questa consapevolezza permette a tali movimenti di rivolgersi ai membri delle Chiese esistenti e conquistarli. Le grandi Chiese certo farebbero bene a interrogarsi in modo autocritico circa i motivi che spingono tanti fedeli a passare a questi movimenti. Le grandi Chiese non devono naturalmente cedere alla tentazione di far propri i metodi di evangelizzazione di tali movimenti, a volte dubbi. La tentazione più elementare consisterebbe nel degradare il Vangelo cristiano e farne una “Teologia de la prosperidad” (teologia della prosperità) assai problematica, un annuncio di fortuna prevalentemente economica in questo mondo, con cui l’opzione cristiana per i poveri e i deboli viene traformata nel suo contrario.

Un elemento con ciò strettamente collegato è che in parecchi movimenti pentecostali esistono forti tendenze al proselitismo. Il vescovo a questo proposito deve ricordare che ogni forma di proselitismo è contraria al Cristianesimo. Questa convinzione è costitutiva del Movimento Ecumenico, come risulta dal documento di studio adottato dall’Assemblea Plenaria del Consiglio Ecumenico delle Chiese a Nuova Delhi nel 1961 in cui è detto: “Proselitismo non è cosa totalmente diversa dalla vera testimonianza; è l’immagine distorta della  testimonianza. La testimonianza viene distorta quando si usano – segretamente o apertamente – arte della persuasione, corruzione, pressione illecita o intimidazione per ottenere un’apparente conversione.”[24] Oggi Papa Francesco ricorda costantemente che il proselitismo è nemico dell’ecumenismo, citando un’espressione di Papa Benedetto XVI: il Cristianesimo non cresce grazie al proselitismo, ma per attrazione.

Solo in questo modo coraggioso e umile e nella comunità ecumenica si può svolgere il compito di missione, che consiste in fondo nel portare Dio agli uomini e nel condurre gli uomini all’interno di una relazione personale con Dio che ha mostrato il suo volto in Gesù Cristo. La centralità della questione su Dio e l’annuncio cristocentrico sono gli aspetti basilari della testimonianza comune che oggi ci si aspetta e si esige dall’ecumenismo cristiano ed al cui servizio deve porsi in modo particolare il ministero pastorale del Vescovo. L’ecumenismo cristiano è chiamato a rendere una testimonianza comune soprattutto oggi, alla luce di quanto aveva spesso ribadito il beato Papa Paolo VI, ovvero che l’uomo odierno non ha bisogno di maestri, ma di testimoni e ha bisogno di maestri soltanto se essi possono essere percepiti anche ed in prima linea come testimoni.

In questo contesto, possiamo aggiungere allora che i testimoni più credibili della fede sono i martiri, che hanno testimoniato la propria fede con la loro vita fino alla morte. Ricordarci di loro ha particolarmente senso nel mondo di oggi, in cui la fede cristiana è la religione più perseguitata e l’ottanta per cento di tutti coloro che sono perseguitati a causa della loro fede sono cristiani. Questo fatto rappresenta una grande sfida per l’ecumenismo cristiano, perché oggi tutte le Chiese e le Comunità cristiane hanno i loro martiri, così che è giusto parlare di un “ecumenismo dei martiri”.

L’ecumenismo dei martiri, o l’ecumenismo della sofferenza, come sottolinea Papa Francesco, conferma ancora una volta la convinzione della Chiesa primitiva, che il sangue dei martiri è seme della Chiesa. Anche oggi, come cristiani, dobbiamo vivere nella speranza che il sangue dei martiri ecumenici del nostro tempo diventi un giorno seme di unità piena del Corpo di Cristo. Con questa speranza, vogliamo e dobbiamo proseguire il cammino dell’ecumenismo, poiché esso è il cammino della Chiesa e, aspetto ancora più profondo, è il compito affidatoci dal Signore. In tutto ciò, il Vescovo è chiamato in modo particolare a far continuamente presente che non esiste un’alternativa all’ecumenismo, ma soltanto obbedienza davanti alla preghiera e al comandamento di Gesù Cristo.

 

 

 

 

 

[1] Relazione per il Seminario di formazione per i nuovi Vescovi dei Territori di missione presso il Pontificio Collegio San Paolo Apostolo a Roma, il 4 settembre 2018.

[2]  Francesco, Evangelii gaudium, n. 246.

[3]  Cfr. K. Koch, Evangelisierung aus der „quellhaften Liebe“ heraus, in: M. Delgado / M. Sievernich (Hrsg.), Die grossen Metaphern des Zweiten Vatikanischen Konzils. Ihre Bedeutung für heute (Freiburg i. Br. 2013) 355-372.

[4] Ench. Vat. Vol 1 Documenti del Concilio Vaticano II, 178 f.

[5] Ench. Vat. Vol 1 Documenti del Concilio Vaticano II, 104f.

[6] Unitatis redintegratio, n. 1.

[7] Giovanni Paolo II., Ut unum sint, n. 20.

[8] Canone 902 CCEO.

[9] Canone 383 - § 3 CIC 1983.

[10] Benedetto XVI, Omelia durante i Vespri a conclusione della Settimana di Preghiera per l’unità die cristiani nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, il 25 gennaio 2011.

[11] J. Ratzinger, Rom und die Kirchen des Ostens nach der Aufhebung der Exkommunikation von 1054, in: Ders., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie (München 1982) 214-230, zit. 229.

[12] Unitatis redintegratio, n. 4.

[13] E.-M. Faber, Baptismale Ökumene. Tauftheologische Orientierungen für den ökumenischen Weg, in: D. Sattler / G. Wenz (Hrsg.), Sakramente ökumenisch feiern. Vorüberlegungen für die Erfüllung einer Hoffnung (Mainz 2005) 101-123. Vgl. auch W. Kardinal Kasper, Ekklesiologische und ökumenische Implikationen der Taufe, in: A. Raffelt (Hrsg.), Weg und Weite. Festschrift für Karl Lehmann (Freiburg i. Br. 2001) 581-599.

[14] Unitatis redintegratio, Nr. 8. Vgl. K. Koch, Wiederentdeckung der „Seele der ganzen Ökumenischen Bewegung“ (UR 8). Notwendigkeit und Perspektiven einer ökumenischen Spiritualität, in: Catholica 58 (2004) 3-21.

[15] Vgl. W. Kardinal Kasper, Wegweiser Ökumene und Spiritualität (Freiburg i. Br. 2007).

[16] Lumen gentium, n. 8 e Unitatis redintegratio, n. 4.

[17] J. Cardinal Ratzinger, Die Ekklesiologie der Konstitution Lumen gentium, in: Ders., Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio (Augsburg 2002) 107-131, zit. 127.

[18] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 13.

[19] W. Kardinal Kasper, Katholische Kirche. Wesen – Wirklichkeit – Sendung (Freiburg i. Br. 2011) 235.

[20] Unitatis redintegratio, n. 3.

[21] Unitatis redintegratio, n. 22.

[22]  Vgl. J. Müller – K. Gabriel (Eds.), Evangelicals, Pentecostal Churches, Charismatics. New religious mouvements as a challenge for the Catholic Church (Quezon 2015).

[23]  M. Eckholt, Pentekostalismus. Eine neue „Grundform“ des Christseins. Eine theologische Orientierung zum Verhältnis von Spiritualität und Gesellschaft, in: T. Kessler / A.-P. Rethmann (Hrsg.), Pentekostalismus. Die Pfingstbewegung als Anfrage an Theologie und Kirche = Weltkirche und Mission. Band 1 (Regensburg 2012) 202-225, zit. 202.

[24]  F. Lüpsen (Hrsg.), Neu-Delhi-Dokumente (Witten 1962) 104-106.