L’importanza della teologia nel movimento ecumenico[1]

 

Kurt Cardinale Koch

 

1. L’impegno ecclesiologico nell’ecumenismo

“Promuovere il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti del sacro Concilio ecumenico Vaticano II.” Già nella sua prima frase, il Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano Secondo, “Unitatis redintegratio”, esprime uno degli obiettivi conciliari fondamentali, ed illustra quello che è e deve essere il punto cruciale dell’ecumenismo. Il Decreto pone come fondamento teologico di tale compito ecumenico il fatto che da Cristo la Chiesa è stata voluta e fondata “una e unica”. Questa convinzione di fede fondamentale si trova a dover fare i conti con il fatto, sperimentato nel corso della storia e tutt’oggi, che è alquanto difficile percepire concretamente la Chiesa come “una e unica” a causa dell’esistenza de facto di una pluralità di Chiese e di Comunità ecclesiali. Poiché tali comunità propongono se stesse agli uomini “come la vera eredità di Gesù Cristo”, si può avere la fatale impressione che “Cristo stesso sia diviso”. Il Concilio giunge pertanto alla conclusione che la divisione nella Chiesa “si oppone apertamente alla volontà di Cristo”, è “di scandalo al mondo” e “danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura”[2].

Nel confessare la Chiesa “una e unica”, il Decreto mette in evidenza che l’ecumenismo è il compito impellente di tutta la Chiesa, come viene sottolineato esplicitamente nell’articolo 5: “La cura di ristabilire l’unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e tocca ognuno secondo le proprie possibilità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici e storici.”[3] La teologia deve dunque apportare un contributo essenziale all’adempimento del compito ecumenico; essa, infatti, comprende se stessa e si realizza come un servizio reso al dovere intellettuale della fede della Chiesa ed al suo approfondimento. Dato che la Chiesa non è primariamente tema e oggetto della teologia, ma è soprattutto, in modo più profondo, il soggetto e l’ambito vitale nel quale la teologia si attua, e dato che Chiesa e teologia sono interdipendenti l’una dall’altra in maniera permanente, la teologia cristiana si realizza sempre all’interno della Chiesa e nasce dalla Chiesa; in questo senso fondamentale, essa è teologia ecclesiale. Soltanto così, può contribuire al ristabilimento della Chiesa “una e unica”.

È dunque facilmente comprensibile che, nella teologia, il contributo ecumenico debba accompagnarsi a molti altri. Di fatti, esistono svariate forme di impegno ecumenico, tra cui l’ecumenismo dello scambio culturale, l’ecumenismo della collaborazione sociale e soprattutto l’ecumenismo di vita e d’incontro personale con i rappresentati delle diverse Chiese. Tra i frutti più importanti del movimento ecumenico, Papa Giovanni Paolo II ha annoverato soprattutto la “fraternità ritrovata”[4], che si concretizza nei numerosi incontri, nello scambio di visite, nei vari dialoghi, creando una rete di relazioni amichevoli e fraterne. Di importanza cruciale è l’ecumenismo spirituale, definito dal Concilio “l’anima di tutto il movimento ecumenico”[5]. Il lavoro ecumenico è infatti un compito spirituale, realizzato nella convinzione che lo Spirito Santo porterà avanti e porterà a compimento l’opera ecumenica che esso stesso ha iniziato, e ci mostrerà nella preghiera il cammino da seguire.[6]

Solo in un clima di ecumenismo spirituale e solo nella vita dell’ecumenismo della carità potrà prosperare anche il dialogo della verità con altre Chiese e Comunità ecclesiali cristiane, secondo gli impulsi forniti dal Concilio. L’ecumenismo spirituale e l’ecumenismo della carità sono infatti il prerequisito essenziale per poter condurre un dialogo teologico; al contempo, essi richiedono il dialogo della verità, ovvero la seria discussione teologica sulle differenze teologiche che sono ancora fonte di divisione, al fine di pervenire ad una comunione ecclesiale ed eucaristica. Il dialogo della carità ed il dialogo della verità sono indivisibili tanto quanto carità e verità sono inseparabili, come ha ricordato Papa Benedetto XVI in maniera incisiva: “La carità senza la verità diventa cieca e una caricatura di se stessa; la verità senza la carità diventa crudele e rischia di perdere la sua stessa essenza.”[7]

 

2. L’ecumenismo della verità nei diversi dialoghi teologici

Sul cammino del dialogo teologico della verità è stato possibile, nel corso degli ultimi cinquant’anni, stilare e pubblicare molti documenti di convergenza e di consenso su questioni attinenti alla fede cristiana ed alla costituzione della Chiesa, testi che sono diventati realmente “documenti di intesa crescente”[8]. Per illustrare il lavoro teologico all’interno del movimento ecumenico, è opportuno presentare brevemente i dialoghi che sono stati condotti a partire dal Concilio Vaticano Secondo, conformemente all’obiettivo indicato dal Decreto sull’ecumenismo. Al fine di concretizzare il compito ecumenico individuato dal Concilio, il terzo capitolo del Decreto sull’ecumenismo si sofferma su “due principali categorie di scissioni” che “hanno intaccato l’inconsutile tunica di Cristo”[9], ovvero, da un lato, il grande scisma nella Chiesa tra Oriente ed Occidente nell’XI secolo e, dall’altro, la divisione all’interno della Chiesa d’Occidente nel XVI secolo.[10] Si tratta di scissioni molto diverse tra loro, che richiedono un tipo differente di lavoro nei dialoghi ecumenici, come avviene ormai da svariati decenni.

a) Prime divisioni nella Chiesa dopo il Concilio di Calcedonia

Già prima del grande scisma nella Chiesa dell’XI secolo tra Oriente e Occidente, si verificarono in Oriente le prime divisioni della storia del cristianesimo nel IV e V secolo, poiché alcune comunità, non avendo accettato le decisioni dottrinali cristologiche del Concilio di Efeso e soprattutto del Concilio di Calcedonia del 451, si separarono dalla Chiesa dell’impero. Facciamo dunque una distinzione tra le Chiese calcedonesi e le Chiese non-calcedonesi. Queste ultime, oggi definite Chiese ortodosse orientali, comprendono i copti, gli armeni, i siriani, gli etiopi e i malankaresi; per la loro più ampia diffusione, sono presenti anche in Occidente, sempre più note all’opinione pubblica soprattutto a causa delle tensioni e dei conflitti che scoppiano nel mondo arabo.

Poiché, all’epoca, la responsabilità della Chiesa nelle questioni di fede e la politica imperiale erano difficilmente separabili, nelle scissioni sopramenzionate entrarono in gioco in maniera non trascurabile anche motivi politici. Ma il motivo teologico alla loro base è la disputa che si accese intorno alla corretta formulazione della confessione cristologica. Il Concilio di Calcedonia optò per la definizione secondo la quale Gesù Cristo, essendo vero uomo e vero Dio, è una persona in due nature. Le Chiese precalcedonesi rimasero invece fedeli a quella convinzione di fede che venne espressa in particolare da Cirillo di Alessandria con la formula che afferma che l’unica natura divina si è fatta carne in Gesù di Nazareth.

Dato che queste divisioni nella Chiesa riguardavano il fulcro della fede cristiana, è facile comprendere perché, nel dialogo teologico con le Chiese ortodosse orientali, siano state trattate innanzitutto questioni cristologiche. Il risultato incoraggiante al quale hanno condotto i dialoghi teologici è la costatazione che tale disputa dipendeva essenzialmente da un problema linguistico, poiché, pur impiegando differenti concetti filosofici e teologici di “persona” e “natura”, si voleva testimoniare la stessa fede ecclesiale in Cristo[11]. Già la prima consultazione di Pro-Oriente tenutasi a Vienna nel 1971 con l’obiettivo di analizzare la grande disputa sul Concilio di Calcedonia e di superare il fardello del passato ebbe un esito positivo: si pervenne ad un ampio consenso nella fede cristologica, pur con divergenze nella terminologia teologica. Questo risultato si concretizzò nella famosa “formula cristologica di Vienna”, che esprime chiaramente l’unità di divinità e umanità in Gesù Cristo ed al contempo le distingue una dall’altra, senza utilizzare termini specifici controversi come physis, hypostasis e prosopon.[12]

Su questo fondamento teologico è stato possibile approvare dichiarazioni di consenso cristologiche firmate dal Vescovo di Roma e da diversi capi di Chiese ortodosse orientali. In primo luogo, va ricordata la dichiarazione comune del 1971 di Papa Paolo VI e del Patriarca siriano di Antiochia, Mar Ignatius Jaqub III, che affermarono insieme che tra le due Chiese “nella fede nel mistero della Parola di Dio, che si è fatta carne e vero uomo, non sussiste alcuna differenza, anche se nel corso dei secoli sono insorte difficoltà a causa di una diversa terminologia teologica nella professione di fede”[13]. Nel 1984, in maniera ancora più chiara, Papa Giovanni Paolo II ed il Patriarca siro-ortodosso di Antiochia e di tutto l’Oriente, Ignatius Zakka I Iwas, nella loro dichiarazione comune, sottolinearono che “la confusione e gli scismi avvenuti tra le due Chiese negli ultimi secoli non hanno toccato minimamente la sostanza della loro fede, poiché sono insorti solo a causa delle differenze nella terminologia, nella cultura e nelle varie formule elaborate dalle diverse scuole teologiche per esprimere lo stesso contenuto”[14]. Con questa dichiarazione, 1500 anni dopo il Concilio di Calcedonia è stato possibile risolvere ufficialmente le differenze cristologiche tra la Chiesa siro-ortodossa e la Chiesa romano-cattolica. Su tale dichiarazione, i due capi di Chiesa hanno basato un accordo pastorale sull’amministrazione dei sacramenti della penitenza, dell’eucaristia e dell’unzione degli infermi ai fedeli dell’altra Chiesa in situazioni specifiche.[15] Questo accordo è stato definito giustamente “storico”, poiché per la prima volta nella storia è stata approvata una limitata communicatio in sacris, nonostante il permanere della divisione tra le Chiese.

Queste dichiarazioni comuni non comportano ancora una comunione eucaristica. Ma sulla base di questi sviluppi positivi ha potuto prendere avvio, nel 2003, la Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, che nel frattempo ha prodotto due documenti: il primo su “Natura, costituzione e missione della Chiesa”[16] ed il secondo sulla comunione e la comunicazione tra le Chiese nei primi cinque secoli di storia. Nella sua terza fase di dialogo, la Commissione si sta concentrando soprattutto su questioni di teologia dei sacramenti, per potersi dedicare in seguito a problemi ecclesiologici ed in particolare alla questione del primato del Vescovo di Roma, al fine di progredire sul cammino verso il superamento della divisione.

b) La divisione nella Chiesa tra Oriente e Occidente

Il grande scisma all’interno della Chiesa tra Oriente e Occidente è perlopiù associato all’anno 1054, quando furono lanciate le rispettive scomuniche. Si tratta però di una data più simbolica che storica. Di fatti, nel mondo cristiano occidentale e orientale, il Vangelo venne recepito sin dall’inizio in modo diverso e fu vissuto e ritrasmesso in tradizioni e forme culturali differenti. Le comunità cristiane orientali ed occidentali convissero con queste differenze all’interno della Chiesa indivisa, ma si allontanarono progressivamente le une dalle altre e finirono col comprendersi sempre più difficilmente. [17] Sono stati soprattutto questi diversi approcci interpretativi e queste diverse forme di spiritualità a causare in gran parte la divisione nella Chiesa, come ha giustamente osservato il Cardinale Walter Kasper: “I cristiani non si sono allontanati principalmente a causa delle loro discussioni e non si sono divisi intorno a formulazioni dottrinali, ma si sono estraniati gli uni dagli altri a causa del loro diverso modo di vivere.”[18]

Certamente, a questo progressivo allontanamento contribuirono anche concezioni teologiche divergenti, che portarono in seguito alla grande controversia sul cosiddetto Filioque, ovvero intorno alla professione di fede relativa al fatto che lo Spirito Santo procede soltanto dal Padre o, come affermano i latini, dal Padre e dal Figlio. Ma, all’inizio, neppure questa differenza teologica costituì un vero e proprio motivo di conflitto. La ricerca teologica ha mostrato piuttosto che le aspre dispute che si accesero in seguito coinvolsero perlopiù problemi linguistici; essa ha evidenziato anche che l’aggiunta del Filioque va compresa nel contesto del pensiero teologico occidentale, così come il suo rifiuto deve essere considerato nell’orizzonte del pensiero orientale[19]. Più tardi, quando ormai non era più possibile intendersi, la diversità di opinioni teologiche fu presa come scusa per giustificare le polemiche; così, nella questione del Filioque venne ravvisata la ragione più profonda del successivo scisma all’interno della Chiesa.

Alla luce di questo processo di progressivo estraniamento, che si è ulteriormente accentuato dopo la divisione del secondo millennio, va apprezzato come un grande passo in avanti il fatto che, nella seconda metà del secolo scorso, siano stati intrapresi intensi sforzi volti all’intesa ed alla riconciliazione, nella Chiesa, tra Oriente e Occidente. Il punto culminante di tali sviluppi fu certamente il grande evento che ebbe luogo il 7 dicembre 1965, quando, poco prima della conclusione del Concilio Vaticano Secondo, nella cattedrale del Fanar a Costantinopoli e nella Basilica di San Pietro a Roma, fu letta la dichiarazione comune dei massimi rappresentanti delle due comunità ecclesiali – Papa Paolo VI e il Patriarca ecumenico Athenagoras –, con la quale venivano cancellate le rispettive scomuniche del 1054 “dalla memoria e dal seno della Chiesa”, affinché non fossero più “un ostacolo al riavvicinamento nella carità”[20]. Questo atto, con il quale si estrasse il veleno della scomunica dall’organismo della Chiesa e si sostituì al “simbolo della divisione” il “simbolo della carità”[21], divenne il punto di partenza del dialogo ecumenico della carità e del dialogo teologico della verità.

Poiché la Chiesa cattolica condivide con le Chiese ortodosse una solida base di convinzioni di fede, è facile comprendere perché il dialogo teologico si sia concentrato innanzitutto sul rafforzamento del fondamento di fede comune.[22] Ciò vale in particolare per il primo decennio, dal 1980 al 1990, durante il quale è stato possibile pervenire ad ampie convergenze tra la teologia ortodossa e la teologia cattolica su tematiche riguardanti il mistero della Chiesa e soprattutto l’eucaristia, gli altri sacramenti, il rapporto tra fede, sacramento e Chiesa, ed il sacramento del ministero ordinato. Nel secondo decennio, tra il 1990 ed il 2000, le conversazioni sono diventate sempre più difficili, poiché hanno affrontato in maniera più dettagliata i problemi relativi all’uniatismo ed al proselitismo, con la conseguenza che, nel 2000, il lavoro della Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse è stato interrotto.

Tra i grandi meriti di Papa Benedetto XVI vi è quello di aver fatto in modo che, poco tempo dopo l’inizio del suo Pontificato, tale Commissione teologica riprendesse i lavori ed approvasse, durante la Plenaria di Ravenna del 2007, il documento intitolato “Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Communio ecclesiale, conciliarità e autorità”[23]. Questo documento sostiene che a tutti i livelli della vita della Chiesa esistono sinodalità e primato, i quali sono interdipendenti. La comune affermazione di ortodossi e cattolici sul fatto che la Chiesa ha bisogno di un protos anche a livello universale può essere considerata come una pietra miliare sul cammino del dialogo cattolico-ortodosso. Da allora, al centro del dialogo condotto dalla Commissione teologica figura il tema del rapporto tra sinodalità e primato e, ad esso collegata, la questione del significato e della missione del Vescovo di Roma per una futura comunione delle Chiese. Dopo una fase lunga e difficile, nel corso della Plenaria tenutasi nel 2016 a Chieti, è stato possibile approvare un nuovo documento sul rapporto tra sinodalità e primato nel primo millennio. Nel settembre 2017, il Comitato di coordinamento, nel programmare le attività future, ha stabilito la formazione di due gruppi di lavoro che dovranno occuparsi rispettivamente delle questioni teologiche e canoniche ancora irrisolte, e del rapporto tra sinodalità e primato nel secondo millennio, fino ai giorni nostri.

Attualmente è impossibile prevedere quando potremo pervenire ad un solido consenso sulla controversa tematica del primato, che finora ha ostacolato la comunione ecclesiale. Poiché la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica sono, tra tutte le Chiese cristiane, quelle più vicine, la teologia è tenuta in modo particolare ad apportare il suo contributo affinché la Chiesa una ed indivisa in Oriente ed in Occidente venga ripristinata e rafforzata nella comunione eucaristica. Di fatti, la carità ecclesiale che si è risvegliata deve sfociare nell’agape eucaristica, come affermò con parole incisive il Patriarca Ecumenico Athenagoras cinquant’anni fa:  “È giunta l’ora del coraggio cristiano. Ci amiamo gli uni gli altri; professiamo la stessa fede comune; incamminiamoci insieme verso la gloria del sacro Altare comune, per fare la volontà del Signore, affinché la Chiesa rifulga, il mondo creda e la pace di Dio venga su tutti.”[24]

c) La divisione nella Chiesa d’Occidente

Per il superamento teologico della divisione del XVI secolo all’interno della Chiesa d’Occidente dobbiamo tener presente che diverse erano le condizioni di partenza. Mentre le Chiese ortodosse e le Chiese ortodosse orientali hanno la stessa struttura ecclesiologica della Chiesa cattolica, sviluppatasi a partire dal secondo secolo, ovvero una struttura di base sacramentale-eucaristica ed episcopale[25], il tipo di Chiesa che è emerso durante la Riforma è molto diverso dalla struttura ecclesiale della Chiesa primitiva. Di conseguenza, il dialogo teologico con le Chiese e le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma non potrà concentrarsi su singole divergenze dottrinali, quali la questione del primato del Vescovo di Roma, ma dovrà fare i conti anche con una diversa struttura ecclesiale.

Il primo dialogo teologico allacciato dalla Chiesa cattolica subito dopo la conclusione del Concilio Vaticano Secondo è stato quello con la Federazione Luterana Mondiale, che si è rivelato molto fruttuoso nel corso degli ultimi cinquant’anni. Un passo decisivo sul cammino della crescente comunione ecclesiale è stato compiuto soprattutto con la Dichiarazione Congiunta sulla dottrina della giustificazione, firmata il 31 ottobre 1999 ad Augsburg dalla Federazione Luterana Mondiale e dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani[26]. L’ampio consenso conseguito proprio sulla questione centrale che aveva condotto alla Riforma del XVI secolo e, di conseguenza, alla divisione nella Chiesa va considerato come una vera e propria pietra miliare ecumenica. L’importanza di tale evento è stata ulteriormente confermata dal fatto che, nel frattempo, i metodisti e i riformati si sono associati alla Dichiarazione Congiunta ed anche gli anglicani l’hanno approvata. Sulla base di questo consenso differenziato sulla dottrina della giustificazione, è stato possibile, nel 2017, commemorare insieme l’inizio della Riforma di cinquecento anni fa. In preparazione a questa commemorazione comune, la Commissione luterana-cattolica per l’unità ha prodotto e pubblicato il documento “Dal conflitto alla comunione”, che dà voce a significativi consensi teologici sulla dottrina della giustificazione, sul rapporto tra Sacra Scrittura e Tradizione, Eucaristia e ministero ecclesiale.

La Dichiarazione Congiunta sulla dottrina della giustificazione riconosce che le conseguenze ecclesiologiche del consenso non sono state ancora chiarite. Ciò significa concretamente che tra le priorità del dialogo ecumenico con le Chiese e le Comunità cristiane nate dalla Riforma deve figurare adesso la precisazione teologica del concetto di Chiesa. Alla luce di ciò, ho suggerito che cattolici e luterani inizino a lavorare insieme ad una nuova dichiarazione congiunta sulla Chiesa, sull’eucaristia e sul ministero.[27] Ho potuto costatare con soddisfazione come questa mia proposta sia stata accolta favorevolmente: il dialogo luterano-cattolico negli Stati Uniti ha già prodotto un proprio documento sul tema: “Declaration on the way: Church, Eucharist and Ministry”[28]; anche la Commissione luterana-cattolica in Finlandia ha pubblicato recentemente i risultati del suo dialogo ecumenico in un testo intitolato: “Communion in Growth. Declaration on Church, Eucharist and Ministry”[29]. Se si pervenisse alla stesura e alla pubblicazione di una dichiarazione analoga a quella sulla dottrina della giustificazione, una Dichiarazione congiunta sulla Chiesa, sull’eucaristia e sul ministero, questo rappresenterebbe certamente un passo decisivo verso una visibile comunione ecclesiale, che rappresenta e deve continuare a rappresentare anche l’obiettivo del dialogo con le Chiese e le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma.   

Un chiarimento della natura della Chiesa e dell’unità della Chiesa si rivela urgente anche alla luce della costatazione che, nella storia, la divisione nella Chiesa del XVI secolo ha comportato ulteriori scissioni, ed una crescente diversificazione del mondo protestante: all’interno di questa grande varietà nel protestantesimo mondiale, all’interno di questo pluriverso di Chiese e Comunità ecclesiali - troppo vasto per essere compreso nella sua interezza –, sono costatabili solo sforzi marginali volti ad una maggiore unità, mentre si diversificano sempre più i processi di frattura e crescono le frammentazioni. Questo fenomeno ha trovato in tempi recenti un’ulteriore conferma nella rapida e numericamente forte crescita di gruppi evangelicali e carismatici e di movimenti pentecostali nell’emisfero meridionale – e nel frattempo anche in altri continenti.[30] In particolare, il pentecostalismo è diventato la seconda comunità cristiana, in termini di partecipazione, dopo la Chiesa cattolica. Si tratta di un fenomeno caratterizzato da un’espansione così rapida da giustificare l’espressione “pentecostalizzazione” del mondo cristiano; per lo stesso motivo, è legittimo vedere in esso una nuova forma – e più precisamente la quarta forma – dell’essere cristiani, accanto alle Chiese ortodosse e ortodosse orientali, alla Chiesa cattolica e alle Chiese e Comunità cristiane nate dalla Riforma.[31] Con queste nuove comunità, va naturalmente individuato un ordine del giorno ecumenico diverso rispetto a quello dei dialoghi con le Chiese storiche, che sono state finora i nostri partner ecumenici privilegiati. Ciò significa concretamente che la geografia mondiale della cristianità si è profondamente modificata e che la situazione ecumenica è diventata molto più complessa, se non confusa: a tutto questo sono legate nuove sfide teologiche.

 

3. La scienza liturgica al servizio dell’unità

Con questa breve panoramica dei principali dialoghi ecumenici si è voluto mostrare quanto indispensabile sia il contributo della teologia al ripristino dell’unità dei cristiani. Ma ancora più importante della teologia è la dossologia, la lode liturgica a Dio, nella quale i cristiani delle varie Chiese si avvicinano gli uni agli altri più di quanto non facciano con la sola teologia. In questo senso, il teologo protestante Edmund Schlink ha ricordato che, proprio dal punto di vista ecumenico, è essenziale che le affermazioni dogmatiche dei dialoghi ecumenici siano continuamente ritradotte nel contesto dossologico, affinché, nell’incontro liturgico comune con Cristo, ci avviciniamo maggiormente anche gli uni agli altri.[32] Di fatti, se Cristo è presente in modo particolare nella celebrazione della liturgia, i cristiani, che ascoltano insieme la Parola di Dio, che pregano insieme e che partecipano insieme al servizio liturgico, incontrano realmente Cristo, e si avvicinano a lui e gli uni agli altri; è così che si attua l’ecumenismo nel senso più profondo della parola.[33]

a) La dossologia come ponte nel dialogo ecumenico

Pertanto, nell’impegno ecumenico volto alla ricomposizione dell’unità dei cristiani, anche la scienza liturgica deve apportare un contributo del tutto speciale.[34] Tra la ricerca ecumenica dell’unità dei cristiani e la vita liturgica delle Chiese esiste infatti un legame inscindibile, e questo soprattutto da un triplice punto di vista.

In primo luogo, il dolore causato dalle divisioni tuttora esistenti nella Chiesa e dalla mancanza di una piena comunione tra i cristiani viene percepito in maniera più acuta nella vita liturgica delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, e soprattutto nella sua forma sacramentale-eucaristica. Questo dolore fu espresso con parole pregnanti dal Cardinale Augustin Bea, il primo Presidente dell’allora Segretariato per l’unità dei cristiani, il quale osservò che il “sacramentum unitatis” era diventato “il segno dell’unità perduta”. Poiché nelle liturgie delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali traspare chiaramente anche la disunità tra i credenti, è legittimo parlare di “epifania di empie divisioni”[35].  Una simile costatazione costituisce un solido motivo per sviluppare una scienza liturgica ecumenica al servizio dell’unità dei cristiani.[36]

Lo stretto nesso tra liturgia ed ecumenismo mette in luce anche un secondo aspetto, questa volta positivo. Esso deriva dal modo in cui l’impegno ecumenico concepisce se stesso, secondo la convinzione fondamentale espressa dal Concilio Vaticano Secondo: “Si devono conoscere lo spirito e il pensiero dei fratelli separati.” Questa convinzione è il prerequisito per ogni dialogo ecumenico di cui parla concretamente il Decreto sull’ecumenismo; i cattolici devono acquisire “una migliore conoscenza della dottrina e della storia, della vita spirituale e liturgica, della psicologia religiosa e della cultura propria dei fratelli”[37]. Ad esempio, basandosi su questo fondamento conciliare, le “Linee guida per la crescita della collaborazione tra le Chiese in Europa”, che hanno assunto il nome di “Charta ecumenica”, esprimono in maniera particolarmente riuscita l’impegno consistente nell’ “imparare a conoscere e ad apprezzare le celebrazioni e le altre forme di vita spirituale delle Chiese”[38]. Ancora più apprezzabile sarebbe un’analisi precisa di come si rapportano tra loro due movimenti sorti nel secolo scorso, pressoché allo stesso tempo: il movimento liturgico, che fu promosso prevalentemente dalla Chiesa cattolica, ed il movimento ecumenico, che maturò soprattutto nelle Chiese e Comunità ecclesiali protestanti. Un simile studio fornirebbe senz’altro nuovi spunti sul legame tra scienza liturgica e teologia ecumenica.

In terzo luogo, il rapporto tra liturgia ed ecumenismo risulta particolarmente chiaro se rivolgiamo la nostra attenzione al fulcro stesso dell’impegno ecumenico, ravvisato dal Decreto sull’ecumenismo nell’ecumenismo spirituale. Di fatti, tra la dimensione spirituale dell’ecumenismo e la vita liturgica delle Chiese vi è una corrispondenza al livello più profondo. Per questo, la liturgia potrebbe e dovrebbe essere intesa in maniera più consapevole come il campo di forza per il riavvicinamento ecumenico tra i cristiani, come ha osservato giustamente il Metropolita greco-ortodosso Damaskinos Papandreou: “Sulla base del patrimonio di fede comune – e soprattutto in virtù dei comuni obiettivi – i cristiani devono unirsi gli uni agli altri anche nella preghiera comune rivolta al Padre. Molto più importante dell’incontro ecumenico dovrebbe essere l’incontro nella preghiera.”[39] La scienza liturgica, in questo, ricorda alla teologia il suo stesso nodo cruciale: che le parole rivolte a Dio sono più essenziali e più autentiche delle parole su Dio, e che la teologia può essere un credibile discorso su Dio soltanto se il suo punto di partenza ed il suo punto di arrivo sono sempre un colloquio con Dio, ovvero se la teologia diventa dossologia. Se prendiamo sul serio l’importanza prioritaria della dossologia rispetto alla teologia, allora la questione decisiva non sarà comprendere quale ruolo la preghiera e la liturgia hanno nella teologia, ma quale posto occupa la teologia nella preghiera e nella liturgia[40]. Soltanto così, la teologia potrà resistere alla sua tentazione fondamentale: quella di sganciarsi dal colloquio con Dio e di ritirarsi in speculazioni astratte. Si tratta di quel pericolo descritto in maniera calzante dal sociologo Franz-Xaver Kaufmann: “Al posto del colloquio con Dio subentra il parlare di Dio, poi il discorso su Dio e infine soltanto il discorso sul discorso su Dio – il discorso sulla teologia o la riflessione.”[41] La scienza liturgica “in casa” della teologia ricorda invece che il pensiero teologico ha come criterio fondamentale il fare posto alla preghiera e alla liturgia stessa. Tale consapevolezza rende fruttuosa la scienza liturgica anche e soprattutto dal punto di vista ecumenico.

b) Lo scambio ecumenico dei doni liturgici

Riflettiamo dunque sul contributo specifico che la scienza liturgica può apportare al compito ecumenico e prendiamo come punto di riferimento un’importante indicazione offertaci dal Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano Secondo. Secondo tale Decreto, la vera essenza del dialogo ecumenico non consiste semplicemente in uno scambio di idee, di pensieri e di teorie, ma consiste in uno scambio arricchente di doni. Ciò vale in modo particolare nel caso della liturgia, poiché le Chiese e le Comunità ecclesiali preservano i loro doni più belli proprio nella loro vita liturgica e, nelle loro liturgie, attingono alla loro più grande ricchezza spirituale. Il Concilio dunque, nel presentare l’essenza dell’ecumenismo, ci invita anche ad uno scambio di doni liturgici tra le diverse comunità di fede cristiane.

In primo luogo va costatato che un simile scambio di doni liturgici ha già avuto luogo nella storia dell’ecumenismo. Se ripensiamo ai principi della Costituzione conciliare sulla sacra liturgia e a quelli della riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano Secondo, riconosceremo inevitabilmente che la Chiesa cattolica si è ispirata alle liturgie di altre Chiese. Le liturgie delle Chiese e delle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma hanno avuto un forte impatto sulla riscoperta dell’importanza specifica della Parola di Dio e del suo ruolo all’interno della liturgia della Chiesa cattolica. Dal Concilio Vaticano Secondo in poi, la centralità della Parola di Dio nella liturgia cattolica è un aspetto indiscusso; essa ha trovato espressione in modo particolare nella Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, che sottolinea il legame naturale tra l’annuncio della Parola di Dio e la liturgia, e soprattutto l’eucaristia: “La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli.”[42]

La teologia e la forma liturgica della Chiesa cattolica sono state influenzate in maniera fruttuosa anche dalle liturgie delle Chiese ortodosse e ortodosse orientali. Nel presente contesto, dovremo limitarci a menzionare i rispettivi modi di comprendere la liturgia. Nella prassi e nella scienza liturgica della tradizione occidentale l’enfasi è posta principalmente sull’assemblea della comunità e, di conseguenza, sulla forma che la liturgia deve assumere per corrispondere in maniera più adeguata alla consapevolezza della fede della comunità. Diversamente da quanto accade in Occidente con questa marcata accentuazione della prospettiva comunitaria, la liturgia nella tradizione orientale è concepita primariamente come un evento cosmico, nel senso che la liturgia, e soprattutto l’eucaristia, è un’anticipazione del canto di lode escatologico di tutto il cosmo; la liturgia celeste s’immette già nella liturgia terrena, è presente in essa, di modo che cielo e terra si toccano. Nella concezione delle Chiese orientali, la liturgia è molto più della semplice assemblea di una comunità di fedeli – grande o piccola che sia. Essa viene piuttosto celebrata nelle grandezze del cosmo, abbraccia sia la storia che la creazione e rende trasparente la parete divisoria tra la liturgia celeste e quella terrena. Accogliendo questa visione orientale della liturgia, soprattutto Papa Benedetto XVI ha voluto rivitalizzare, come elemento centrale di un rinnovamento liturgico all’interno della Chiesa cattolica, la dimensione cosmica della liturgia: “La liturgia cristiana è un evento cosmico – nella preghiera il creato si unisce a noi e noi al creato; in tal modo, si dischiude il cammino verso quella nuova creazione attesa da tutte le creature.”[43]

Gli esempi sopracitati testimoniano gli influssi esercitati dalle liturgie di altre Chiese sulla liturgia della Chiesa cattolica. Naturalmente, lo scambio di doni liturgici avviene anche nell’altro senso; anche in questo caso, solo pochi esempi dovranno bastare. Dopo il Concilio, la teologia e la prassi liturgica della Chiesa cattolica hanno notevolmente agevolato, nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, un’interpretazione ed una definizione – meno gravate da retaggi storici – della cena del Signore come eucaristia, rivalorizzando la preghiera eucaristica all’interno della liturgia della cena del Signore come aspetto centrale di tale celebrazione. Quale conseguenza positiva di questi sviluppi, definiti giustamente da F. Schulz “frutto di una convergenza ecumenica”[44], va costatato il fatto che l’antica preghiera eucaristica della costituzione ecclesiastica di Sant’Ippolito è stata accolta dagli anglicani inglesi e americani, dai luterani degli Stati Uniti e dai riformati della Svizzera francese nelle loro raccolte di preghiere eucaristiche ed è diventata dunque de facto una preghiera eucaristica ecumenica. Strettamente legato a quanto appena detto, il modo in cui viene compreso il sacrificio nella teologia e nella liturgia della Chiesa cattolica, ispirato al concetto orientale di anafora, ha fatto sì che anche nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, all’interno delle quali, soprattutto al tempo della Riforma, la dimensione sacrificale dell’eucaristia era molto controversa, ci si sia avvicinati in modo nuovo al concetto di sacrificio e ne sia stata rivitalizzata l’interpretazione biblica, secondo la quale Dio dona ciò che noi uomini gli doniamo, ma anche noi uomini doniamo realmente a Dio, o meglio dobbiamo restituire a Dio, ciò che egli stesso ci ha dato.[45]

Con questi pochi esempi si è voluto evidenziare che le liturgie delle diverse Chiese possono arricchirsi reciprocamente; si è voluto altresì mostrare quale contributo può apportare la scienza liturgica al superamento di differenze teologiche ereditate dal passato come fonti di divisione nella Chiesa e, dunque, allo sforzo ecumenico di ricomporre l’unità dei cristiani. Soffermiamoci ora, nella parte conclusiva di questa riflessione, sulla teologia del diritto canonico della Chiesa, che ha anch’essa un ruolo specifico da svolgere nell’approfondimento dell’impegno ecumenico.

 

4. L’impegno giuridico della Chiesa nell’ecumenismo

Già Papa Giovanni XXIII, nell’annunciare il Concilio Vaticano Secondo il 25 gennaio 1959, prospettò anche una riforma del diritto canonico e usò i verbi “accompagnare e coronare” per descrivere il legame tra Concilio e rinnovamento del diritto canonico, convinto che tale rinnovamento dovesse accompagnare e coronare il lavoro del Concilio, al fine di tradurre gli orientamenti conciliari nella vita, nella guida e nella disciplina della Chiesa[46]. Su questa stessa scia, Papa Giovanni Paolo II, nella sua Costituzione apostolica del 1983 per la promulgazione del nuovo codice di diritto canonico, “Sacrae disciplinae leges”, sottolineò che il rinnovamento postconciliare del diritto canonico intendeva “tradurre in linguaggio canonistico” la ecclesiologia conciliare[47]. Egli affermò persino che il nuovo codice era parte integrante del Concilio, era l’ “ultimo documento conciliare”[48].

A Papa Giovanni Paolo II premeva molto il legame tra l’ecclesiologia conciliare e la codificazione del diritto della Chiesa universale anche e precisamente in riferimento all’impegno ecumenico della Chiesa. Egli riteneva infatti che l’obiettivo della ricomposizione dell’unità dei cristiani fosse uno dei motivi centrali anche della codificazione del diritto canonico universale.[49] Il CIC prevede di fatti l’obbligo giuridico esplicito della Chiesa cattolica di partecipare al movimento ecumenico. Poiché si sottolinea espressamente che “la Chiesa è tenuta a promuovere per volontà di Cristo”[50] il ristabilimento dell’unità tra tutti i cristiani, il fondamento dell’impegno ecumenico è ravvisato nel testamento di Gesù; ciò consente di parlare di un dovere ecumenico de iure divino.

Quanto il legislatore nella Chiesa universale abbia voluto inserire nella normativa il dovere dell’impegno di promuovere l’obiettivo ecumenico risulta evidente anche alla luce di ciò che viene raccomandato al Vescovo diocesano[51]: “Abbia un atteggiamento di umanità e di carità nei confronti dei fratelli che non sono nella piena comunione con la Chiesa cattolica, favorendo anche l’ecumenismo, come viene inteso dalla Chiesa.”[52] Il fatto che questo dovere ecumenico figuri all’interno della descrizione dei compiti del Vescovo diocesano e, più precisamente, dell’esercizio del suo ministero pastorale dimostra chiaramente che la promozione dell’ecumenismo nel ministero del Vescovo diocesano non è né l’espressione di un hobby personale, né un esercizio pastorale opzionale che può essere rinviato davanti a priorità apparentemente più importanti. Piuttosto, il compito di promuovere l’ecumenismo è implicito nel ministero pastorale stesso del Vescovo, che è essenzialmente un servizio all’unità, ovvero a quell’unità che deve essere intesa in maniera più ampia della semplice unità della propria comunità diocesana e che comprende anche i battezzati non cattolici.

Ancora più esplicito di quello contenuto nel Codice del 1983 per la Chiesa latina è l’obbligo giuridico ecumenico formulato nel Codice dei Canoni delle Chiese orientali, il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium (CCEO), che, promulgato nel 1990 da Papa Giovanni Paolo II, è importante da un triplice punto di vista[53]. La sua rilevanza fondamentale a livello ecumenico va individuata innanzitutto nel fatto che la Chiesa cattolica dispone, per la prima volta nella storia, di due codici canonici diversi e riconosce così una certa pluralità giuridica. In secondo luogo, mentre il CIC non contiene una sezione specifica e sistematica sulla responsabilità ecumenica, ma vi fa riferimento con varie norme, situandola soprattutto all’interno del servizio di evangelizzazione della Chiesa, nel CCEO, accanto a singoli canoni significativi a livello ecumenico, è dedicato al compito ecumenico della Chiesa un titolo a parte, ovvero il Titolo XVIII, che si chiama “L’ecumenismo cioè la promozione dell’unità dei cristiani”[54]. Nel canone fondamentale n. 902, tutti i cristiani ed in particolare i pastori della Chiesa sono esortati a “pregare il Signore per questa desiderata pienezza di unità della Chiesa” e ad adoperarsi partecipando all’opera ecumenica “suscitata dalla grazia dello Spirito Santo”.

In terzo luogo, sempre da un punto di vista ecumenico, colpisce il limite temporale della validità del CCEO e dunque il suo carattere transitorio. Come già il Concilio Vaticano Secondo, nel suo Decreto sulle Chiese orientali cattoliche, aveva riconosciuto nell’affermazione conclusiva che tutte le loro disposizioni giuridiche erano valide “per le presenti condizioni, fino a che la Chiesa cattolica e le Chiese orientali separate si uniscano nella pienezza della comunione”[55], così anche Papa Giovanni Paolo II nella sua Costituzione apostolica “Sacri canones” osservava che i canoni del CCEO hanno validità “fino a quando non vengono abrogati o modificati dalla massima autorità della Chiesa per giusti motivi”, il più importante di questi motivi essendo quello “della piena comunione di tutte le Chiese d’oriente con la Chiesa cattolica”[56]. Da ciò risulta chiaro che il limite temporale della validità del CCEO è legato ad una prospettiva ecumenica, e che le Chiese cattoliche orientali hanno una particolare responsabilità ecumenica, definita esplicitamente nel Decreto conciliare sulle Chiese orientali: “Alle Chiese orientali aventi comunione con la Sede apostolica romana, compete lo speciale ufficio di promuovere l’unità di tutti i cristiani, specialmente orientali, secondo i principi del Decreto «sull’ecumenismo» promulgato da questo santo Concilio.”[57] Pertanto, il limite temporale della validità del CCEO significa concretamente che quando sarà realizzata la piena comunione tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse e ortodosse orientali, il compito del CCEO sarà esaurito e dovrà essere messa a punto una nuova normativa.

Con ciò, si dischiude una prospettiva incoraggiante, ovvero quella dell’elaborazione di un diritto canonico ecumenico. Nella situazione attuale, questo non è ancora realizzabile, poiché occorrerà giungere prima all’unità della Chiesa. Al momento si può parlare soltanto di una giurisdizione della Chiesa cattolica sull’ecumenismo. Ma se prendiamo sul serio il dovere fondamentale di tutti i battezzati nei confronti dell’ecumenismo sancito dal diritto canonico, è evidente il grande contributo che tale diritto può apportare anche e precisamente dal punto di vista ecumenico nel mantenere sveglia e nel promuovere una delle priorità centrali del Concilio Vaticano Secondo. Entrambi i codici di diritto canonico mostrano che l’impegno ecumenico deriva dall’ecclesiologia stessa del Concilio e che si tratta di un dovere vincolante. Ciò che è stato ricordato a proposito del diritto di tutta la Chiesa vale anche per la teologia nel suo complesso: essa assolve il proprio compito e la propria missione ecclesiale soltanto se si pone al servizio della ricomposizione dell’unità della Chiesa, e se vi apporta il suo insostituibile contributo.

 

 

[1] Conferenza nel Dies Academicus della Facoltà di Teologia di Lugano, il 19 aprile 2018.

[2] Unitatis redintegratio, n. 1.

[3] Unitatis redintegratio, n. 5.

[4] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 41 e 42.

[5] Unitatis redintegratio, n. 8. Cfr. K. Koch, Rediscovering the soul of the whole ecumenical movement (UR 8). Necessity and perspectives of an ecumenical spirituality, in: The Pontifical Council for Promoting Christian Unity (Ed.), Information Service Nr. 115 (2004) 31-39.

[6] Vgl. W. Pannenberg, Die Ökumene als Wirken des Heiligen Geistes, in: St. Leimgruber (Hrsg.), Gottes Geist bei den Menschen. Grundfragen und spirituelle Anstösse (München 1999) 68-77.

[7] J. Kardinal Ratzinger, Gottes Wort ist niemandes Knecht. Zum Wesen christlicher Existenz (München 1981) 6.

[8] Vgl. H. Meyer u. a. (Hrsg.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. Sämtliche Berichte und Konsenstexte interkonfessioneller Gespräche auf  Weltebene. Band 1: 1931-1982 (Paderborn – Frankfurt a. M. 1983), Band 2: 1982-1990 (Paderborn – Frankfurt a. M. 1992); Band 3: 1990-2003 (Paderborn – Frankfurt a. M. 2003); J. Oeldemann u. a. (Hrsg.), Band 4: 2001-2010 (Paderborn – Leipzig 2012).

[9] Unitatis redintegratio, n. 13.

[10] Su questa distinzione tra i due tipi di divisione nella Chiesa cfr J. Ratzinger, Die ökumenische Situation – Orthodoxie, Katholizismus und Reformation, in: Ders., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie (München 1982) 203-214.

[11] Vgl. Th. Hainthaler, Hermeneutische Aspekte bei christologischen Erklärungen mit den Kirchen des Ostens, in: S. Ernst, G. Gade (Hrsg.), Glaubensverantwortung in Theologie, Pastoral und Ethik = Festschrift für Peter Knauer (Freiburg i. Br. 2015) 146-171.

[12] Vgl. D. Winkler, Ökumene zwischen Stolper- und Meilensteinen. Der Dialog von PRO ORIENTE mit den orientalisch-orthodoxen Kirchen, in: J. Marte, R. Prokschi (Hrsg.)., WERKSTATT PRO ORIENTE. Erfolgsgeschichte eines Ost-West-Dialogs (1964-2014) = PRO ORIENTE Band XXVIII (Innsbruck – Wien 2014) 100-123.

[13] Gemeinsame Erklärung des Papstes Paul VI. und des syrischen Patriarchen von Antiochien Mar Ignatius Yaqub III. vom 27. Oktober 1971, in: H. Meyer, H. J. Urban, L. Vischer (Hrsg.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. 1931-1982 (Paderborn – Frankfurt a. M. 1983) 528-529.

[14] Erklärung von Papst Johannes Paul II. und dem syrisch-orthodoxen Patriarchen von Antiochien und dem Ganzen Osten, Ignatius Zakka I. Iwas, zu gegenseitigen pastoralen Hilfen 23. Juni 1984, in: H. Meyer, D. Papandreou, H. J. Urban, L. Vischer (Hrsg.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. Band 2: 1982-1990 (Paderborn – Frankfurt a. M. 1992) 571-574.

[15] Vgl. J. Oeldemann, Gemeinsamer Glaube und pastorale Zusammenarbeit. 25 Jahre Weggemeinschaft zwischen der Syrisch-Orthodoxen Kirche und der Römisch-Katholischen Kirche (Basel 2011).

[16] Dokumentiert in: J. Oeldemann – F. Nüssel – U. Swarat – A. Vletsis (Hrsg.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. Sämtliche Berichte und Konsenstexte Interkonfessioneller Gespräche auf Weltebene. Band 4: 2001-2010 (Paderborn – Leipzig  2012) 849-868.

[17] Vgl. Y. Congar, Zerrissene Christenheit. Wo trennten sich Ost und West? (Wien 1959).

[18] W. Kardinal Kasper, Wege der Einheit. Perspektiven für die Ökumene (Freiburg i. Br. 2005) 208.

[19] Vgl. M. Böhnke / A. E. Kattan / B. Oberdorfer (Hrsg.), Die Filioque-Kontroverse. Historische, ökumenische und dogmatische Perspektiven 1200 Jahre nach der Aachener Synode (Freiburg i. Br. 2011).

[20] Déclaration commune du pape Paul VI et du Patriarche Athénagoras exprimant leur décision d´enlever de la mémoire et du milieu de l´Èglise les sentences d´excommunication de l année 1054, in: Tomos Agapis. Vatican-Phanar (1958-1970) (Rome – Istanbul 1971), Nr. 127.

[21] J. Ratzinger, Rom und die Kirchen des Ostens nach der Aufhebung der Exkommunikation von 1054, in: Ders., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie (München 1982) 214-230.

[22] Vgl. K. Cardinal Koch, Auf dem Weg zur Wiederherstellung der einen Kirche in Ost und West, in: D. Schon (Hrsg.), Dialog 2.0 – Braucht der orthodox-katholische Dialog neue Impulse? (Regensburg 2017) 19-41.

[23] Dokumentiert in: J. Oeldemann - F. Nüssel – U. Swarat – A. Vletsis (Hrsg.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. Sämtliche Berichte und Konsenstexte Interkonfessioneller Gespräche auf Weltebene. Band 4: 2001-2010 (Paderborn – Leipzig 2012) 833-848.

[24] Télégramme du patriarche Athénagoras au pape Paul VI, à l’occasion de l’anniversaire de la levée des anathèmes le 7 décembre 1969, in: Tomos Agapis. Vatican-Phanar (1958-1970) (Rome – Istanbul 1971) Nr. 277.

[25] Vgl. K. Koch, Die apostolische Dimension der Kirche im ökumenischen Gespräch, in: Communio. Internationale katholische Zeitschrift 40 (2011) 234-252.

[26] Dokumentiert in: H. Meyer / D. Papandreou / H. J. Urban / L. Vischer (Hrsg.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. Band 3: 1990-2001 (Paderborn – Frankfurt a. M. 2003) 419-441.

[27] K. Koch, Auf dem Weg zur Kirchengemeinschaft. Welche Chance hat eine gemeinsame Erklärung zu Kirche, Eucharistie und Amt? in: Catholica 69 (2015) 77-94.

[28] Committee on Ecumenical and Interreligious Affairs, United States Conference of Catholic Bishops – Evangelical-Lutheran Church in America, Declaration on the Way. Church, Ministry, and Eucharist (Minneapolis 2015).

[29] Communion in Growth. Declaration on the Church, Eucharist, and Ministry. A Report from the Lutheran-Catholic Dialogue-Commission for Finland (Helsinki 2017).

[30] Vgl. J. Müller – K. Gabriel (Eds.), Evangelicals, Pentecostal Churches, Charismatics. New religious mouvements as a challenge for the Catholic Church (Quezon 2015).

[31] M. Eckholt, Pentekostalismus. Eine neue „Grundform“ des Christseins. Eine theologische Orientierung zum Verhältnis von Spiritualität und Gesellschaft, in: T. Kessler / A.-P. Rethmann (Hrsg.), Pentekostalismus. Die Pfingstbewegung als Anfrage an Theologie und Kirche = Weltkirche und Mission. Band 1 (Regensburg 2012) 202-225, zit. 202.

[32] Vgl. E. Schlink, Die Struktur der dogmatischen Aussage als ökumenisches Problem, in: Ders., Der kommende Christus und die kirchlichen Traditionen. Beiträge zum Gespräch zwischen den getrennten Kirchen (Göttingen 1961) 24-46. Vgl. auch W. Pannenberg, Analogie und Doxologie, in: Ders., Grundfragen systematischer Theologie. Gesammelte Aufsätze (Göttingen 1971) 181-201.

[33] Vgl. A. Hänggi, Einheit durch Gottesdienst?, in: K. Schlemmer (Hrsg.), Gottesdienst – Weg zur Einheit. Impulse für die Ökumene (Freiburg i. Br. 1989) 11-18, bes. 16.

[34] Vgl.  K. Kardinal Koch, Liturgiereform und Einheit der christlichen Kirchen, in:  G. W. Lathrop / M. Stuflesser (Hrsg.), Liturgiereformen in den Kirchen. 50 Jahre nach Sacrosanctum concilium  = Theologie der Liturgie. Band 5 (Regensburg 2013) 111-124, Ders., Gabe und Aufgabe. Roms Liturgiereformen in ökumenischer Perspektive, in: St. Heid (Hrsg.), Operation am lebenden Objekt. Roms Liturgiereformen von Trient bis zum Vaticanum II (Berlin 2014) 11-26.

[35] T. Berger, Prolegomena für eine ökumenische Liturgiewissenschaft, in:  Archiv für Liturgiewissenschaft 29 (1987) 1-18, zit. 2.

[36] Vgl. K. Schlemmer (Hrsg.), Gottesdienst – Weg zur Einheit. Impulse für die Ökumene (Freiburg i. Br. 1989); Ders. (Hrsg.), Gemeinsame Liturgie in getrennten Kirchen (Freiburg i. Br. 1991). Vgl. ferner K.-H. Bieritz, Chancen einer ökumenischen Liturgik, in: Zeitschrift für Katholische Theologie 100 (1978) 470-483; H. –J. Feulner, „Ut omnes unum sint“. Zur ökumenischen Bedeutung einer vergleichenden Liturgiewissenschaft, in: Ders., Liturgies in East and West. Ecumenical Relevance of Early Liturgical Development (Wien 2013).

[37] Unitatis redintegratio, n. 9.

[38] N. 5.

[39] D. Papandreou, Die ökumenische und pneumatologische Dimension der orthodoxen Liturgie, in: K. Schlemmer (Hrsg.), Gemeinsame Liturgie in getrennten Kirchen (Freiburg i. Br. 1991) 35-52.

[40] Vgl. O. Cullmann, Das Gebet im Neuen Testament (Tübingen 1994).

[41] Zit. bei H. Windisch, Laien-Priester. Rom oder der Ernstfall? Zur „Instruktion zu einigen Fragen über die Mitarbeit der Laien am Dienst der Priester“  (Würzburg 1998) 55.

[42] Dei verbum, n. 21.

[43] J. Ratzinger, Geleitwort zur koreanischen Ausgabe von „Der Geist der Liturgie“, in: R. Voderholzer – Ch. Schaller – F.-X. Heibl (Hrsg.), Mitteilungen Institut-Papst-Benedikt XVI. Band 2 (Regensburg 2009) 53-55, zit. 54.

[44] F. Schulz, Das Eucharistiegebet in den Kirchen der Reformation als Frucht ökumenischer Konvergenz. Rezeption und Revision, in: K. Schlemmer (Hrsg.), Gemeinsame Liturgie in getrennten Kirchen (Freiburg i. Br. 1991) 82-118.

[45] Vgl. K. Lehmann und E. Schlink (Hrsg.), Das Opfer Jesu Christi und seine Gegenwart in der Kirche. Klärungen zum Opfercharakter des Herrenmahles = Dialog der Kirchen. Band 3 (Freiburg i. Br. – Göttingen 1983).

[46] Giovanni XXIII, Questa festiva ricorrenza il 25 gennaio 1959, in: AAS 51 (1959) 65-69.

[47] Giovanni Paolo II, Sacrae disciplinae leges.

[48] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al corso sul nuovo codice di diritto canonico, il 21 novembre 1983.

[49] Cfr. K. Koch, L’attività legislativa di Giovanni Paolo II e la promozione dell’unità dei cristiani, in: L. Gerosa (ed.), Giovanni Paolo II: Legislatore della Chiesa. Fondamenti, innovazioni e aperture. Atti del Convegno di Studio (Città del Vaticano 2013) 160-177.

[50] Can. 755 §1 CIC 1983.

[51] Cfr. Card. K. Koch, Il Vescovo e l’ecumenismo, in: Congregazione per i Vescovi (ed.), Duc in altum. Pellegrinaggio alla Tomba di San Pietro. Incontro di riflessione per i nuovi Vescovi (Città del Vaticano 2001) 263-281.

[52] Can. 383 §3 CIC 1983.

[53] Cfr. K. Koch, L’incidenza del CCEO sul dialogo ecumenico, in: Pontificio Consiglio per i testi legislativi (ed.), Il Codice delle Chiese orientali. La storia, le legislazioni particolari, le prospettive ecumeniche. Atti del convegno di studio tenutosi nel XX anniversario della promulgazione del Codice dei Canoni delle Chiese orientali (Città del Vaticano 2011) 43-50.

[54] Canones 902-908 CCEO.

[55] Orientalium ecclesiarum, n. 30.

[56] Giovanni Paolo II, Constitutio Apostolica “Sacri canones” del 18 ottobre 1990.

[57] Orientalium ecclesiarum, n. 24.