Conferenza presso la Facoltà Valdese di Teologia
Roma, 13 febbraio 2017

Il primato dell’accogliere rispetto al fare.
Sull’attualità della dottrina cristiana della giustificazione[1]

 

1.    Pietra miliare e sfida continua

Nel 2017, il mondo cristiano commemora i cinquecento anni della Riforma. Trattandosi del primo centenario della Riforma in epoca ecumenica, a connotare la commemorazione non saranno più toni confessionalmente faziosi e polemici, ma uno spirito ecumenico. Queste circostanze favorevoli sono dovute in particolare al fatto che non ricorderemo soltanto i cinquecento anni della Riforma, ma anche cinquant’anni di intenso dialogo tra cattolici e protestanti, un lasso di tempo durante il quale abbiamo potuto scoprire quanto ci accomuna. Risultato positivo dei dialoghi ecumenici è stato quello di mostrare che, nelle verità fondamentali della fede cristiana, è stato possibile formulare un consenso ecumenico, evidenziando altresì che le differenze teologiche tuttora esistenti non mettono in discussione tale consenso e che, di conseguenza, le condanne dottrinali del XVI secolo, sia da parte cattolica che da parte protestante, non hanno oggi più valenza tra i partner ecumenici.[2]

                Questo è vero soprattutto a proposito della “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione”[3] firmata il 31 ottobre 1999 ad Augsburg dalla Federazione Luterana Mondiale e dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Il fatto che proprio sulla questione centrale che condusse, nel XVI secolo, alla Riforma ed in seguito alla divisione della Chiesa è stato possibile conseguire un ampio consenso può essere considerato come una vera e propria pietra miliare ecumenica. Le rispettive interpretazioni ed applicazioni del messaggio neotestamentario della giustificazione dell’uomo per grazia divina nella fede in Gesù Cristo hanno rappresentato infatti, nel XVI secolo, il fulcro delle dispute teologiche e sono diventate il motivo principale della divisione della Chiesa in occidente, come testimoniano sia gli scritti confessionali luterani sia le condanne dottrinali del Concilio di Trento, che hanno avuto sinora forza vincolante e dunque, come effetto, anche quello di mantenere divise le Chiese.

                Precisamente alla luce della dottrina della giustificazione risulta evidente che la Riforma del XVI secolo nella Chiesa d’occidente e la successiva divisione della Chiesa erano legate a letture ed interpretazioni controverse del messaggio biblico; sotto questo aspetto, possiamo dire che la frattura si è spinta in un certo senso fin dentro alla Sacra Scrittura. Il dialogo ecumenico degli ultimi decenni ha mostrato[4] che anche il superamento di tale divisione ed il ripristino dell’unità della Chiesa potranno avvenire soltanto sul cammino di una lettura e di un’interpretazione comuni della Sacra Scrittura. Di fatti, l’ascolto comune della Parola di Dio testimoniata nella Sacra Scrittura ha condotto ad una fondamentale convergenza nella comprensione della dottrina della giustificazione[5].

                L’espressione “consenso su verità fondamentali della dottrina della giustificazione”, utilizzata nella “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione”, esprime il concetto che sviluppi differenti di singole affermazioni sono conciliabili con il “consenso differenziato” e che esistono questioni tuttora aperte che richiedono un ulteriore chiarimento[6]: “esse riguardano, tra l’altro, la relazione esistente tra Parola di Dio e insegnamento della Chiesa, l’ecclesiologia, l’autorità nella Chiesa e la sua unità, il ministero e i sacramenti, ed infine la relazione tra giustificazione e etica sociale.”[7] Le riflessioni seguenti non vertono sulle tematiche ancora aperte, ma sulla questione - ben più fondamentale - di come il messaggio ecumenico comune della giustificazione possa essere trasmesso in maniera credibile nel mondo di oggi, un mondo al quale manca spesso la sensibilità per cogliere la reale importanza di questo messaggio.

 

2. Il testo tuttora valido della dottrina della giustificazione in un contesto mutato

È eloquente il fatto che questa questione ermeneutica fondamentale venga posta sia da parte protestante che da parte cattolica. L’ecumenista protestante Wolfhart Pannenberg ha osservato che, da un lato, Martin Lutero, con il suo concetto fondamentale di giustificazione dell’uomo per fede, si contrappone al sistema medievale della mediazione salvifica della Chiesa e della sua gerarchia, un sistema esemplificato soprattutto dal sacramento della penitenza, ma, dall’altro lato, lui stesso è profondamente radicato nella prassi e nella mentalità medievali. Più precisamente, Pannenberg vede le radici della dottrina della giustificazione di Lutero nel sacramento e nella teologia della penitenza della Chiesa medievale e si spinge sino ad affermare che, senza la pietà medievale della penitenza, sarebbe impossibile comprendere la dottrina della giustificazione di Lutero che, in questo punto, si differenzia persino da quella di Paolo. Secondo Pannenberg, ciò vale soprattutto per la dialettica - fondamentale per il pensiero di Lutero - tra legge e vangelo, nel senso che Lutero ha ampiamente sviluppato la sua dottrina della giustificazione basandosi sul concetto medievale del sacramento della penitenza, con la sua sequenza di legge divina che accusa e di assoluzione del peccatore pentito: “Come la coscienza del penitente si trova innanzitutto di fronte alla legge ed è spaventata da ciò che esigono i comandamenti divini prima di sperimentare il conforto attraverso l’assoluzione del sacerdote, così, secondo Lutero, la parola del vangelo vuole risollevare il cuore che prima era afflitto davanti alla legge.”[8]

                Partendo da questa visione critica del radicamento della dottrina della giustificazione di Lutero nella pietà medievale della penitenza, Pannenberg non giunge alla conclusione che oggi si debbano prendere le distanze dalla dottrina protestante della giustificazione per fede. Infatti, tale critica non tocca minimamente il concetto fondamentale alla base della dottrina della giustificazione di Lutero, secondo cui l’uomo può entrare in comunione con Dio soltanto attraverso la fede, soprattutto nel suo extra nos, concetto su cui s’impernia la libertà del cristiano. Poiché la dottrina della giustificazione per fede permette al singolo cristiano un accesso diretto a Dio, per Pannenberg l’idea della libertà cristiana è la conseguenza essenziale di tale dottrina e, dunque, “la più importante eredità della Riforma”[9], rispetto alla quale il linguaggio adoperato da Lutero, influenzato dalla pietà medievale della penitenza, era “l’abito - condizionato dal tempo - di questo concetto di libertà cristiana”[10]. Pannenberg è dunque convinto che la teologia protestante sia chiamata oggi a sviluppare un’interpretazione della salvezza cristiana “che non si orienti più principalmente verso la questione della colpa, ma verso quella del senso, partendo dalla quale si potrà chiarire in modo nuovo anche il senso dell’esperienza della colpa”[11].

                In una direzione simile si muove anche l’approccio dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger alla dottrina della giustificazione di Lutero, il cui elemento radicale è anche da lui ravvisato nel fatto che essa “riporta tutta l’antropologia e dunque anche tutte le altre tematiche dottrinali alla dialettica tra legge e vangelo”[12]. Dietro a questa dialettica, Ratzinger scorge l’esperienza di vita personale di Lutero, segnata da quel timore di Dio che permeò le fondamenta stesse della sua esistenza, nella tensione tra le aspettative di Dio e la sua consapevolezza dei propri peccati, fino a che Dio stesso non gli apparve anche “sub contrario”. Per liberarsi dal pesante fardello dell’esperienza del peccato, fu indispensabile per Lutero la certezza della salvezza, ovvero la convinzione che, nonostante tutto, sarebbe stato salvato ed accolto da Dio, e che questa accoglienza da parte di Dio è salda e inamovibile. All’esperienza opprimente del proprio Io, Lutero contrappose dunque il “sola fede” come contrappeso salvifico. Ma, secondo il Cardinale Joseph Ratzinger, l’esperienza del cristiano medio di oggi si allontana molto dall’esperienza esistenziale di Lutero e dall’impellente, conseguente ricerca di un Dio misericordioso. Il cristiano odierno, infatti, non sperimenta più nel modo in cui faceva Lutero la consapevolezza dei propri peccati, lo sconvolgimento della propria vita originato dalla maestà di Dio ed il grido esistenziale che invoca la grazia divina: “Il nostro problema non è più l’esperienza del fardello dei nostri peccati, ma l’assenza dell’esperienza del peccato, che presuppone a sua volta l’assenza di Dio ed il suo disinteresse nei nostri confronti.”[13]

                La stessa domanda che Joseph Ratzinger si era posto circa la dottrina della giustificazione di Lutero, egli l’ha ripetuta, come Papa Benedetto XVI, nel settembre 2011, in occasione del suo incontro con i rappresentanti del Consiglio della Chiesa evangelica di Germania, nell’ex convento degli agostiniani a Erfurt, quando, con parole di grande apprezzamento, ha riconosciuto nella vita e nell’opera di Martin Lutero la sua appassionata ricerca di Dio[14]: “Ciò che lo animava era la questione su Dio, che ha rappresentato la profonda passione e la forza trainante della sua vita e di tutta la sua opera. ‘Come faccio ad avere un Dio misericordioso?’ Questa domanda lo ha toccato nell’intimo; essa era dietro ogni sua ricerca e battaglia teologica.” Benedetto XVI ha inoltre osservato che Lutero non cercava un Dio qualsiasi, ma credeva in quel Dio che ci ha mostrato il suo volto tangibile nell’uomo Gesù di Nazaret; pertanto, Lutero ha concretizzato ed approfondito la sua appassionata ricerca di Dio nel cristocentrismo della sua spiritualità e della sua teologia. Tuttavia, mentre elogia, quali priorità cruciali di Lutero, la centralità della questione su Dio ed il cristocentrismo, Benedetto XVI si chiede, nel caso in cui la ricerca di un Dio misericordioso fosse ancora importante oggi, anche tra i cristiani: “Cosa significa nella nostra vita la questione su Dio? E nel nostro annuncio? La maggior parte delle persone, e tra queste anche molti cristiani, partono dal presupposto che Dio, in ultima analisi, non si interessi ai nostri peccati e alle nostre virtù. Egli saprebbe che, in fondo, noi tutti siamo fatti di carne. E, anche credendo in un aldilà ed in un giudizio divino, praticamente tutti siamo convinti che Dio dovrà essere misericordioso e che alla fine, con la sua misericordia, passerà oltre i nostri piccoli errori. La questione non ci preoccupa più.”

                Le due posizioni teologiche menzionate brevemente dimostrano che oggi l’enfasi posta dalla dottrina della giustificazione di Lutero sull’esperienza dell’essere peccatori ed il messaggio del perdono dei peccati in ambito ecumenico devono essere sottoposti ad una questione critica, a causa soprattutto della costatazione che esiste una grande differenza tra l’esperienza di fede di Lutero e la situazione esistenziale dei cristiani di oggi. Tra questi due mondi, vi è la forte critica sviluppatasi in epoca moderna nei confronti della coscienza del peccato nella fede cristiana, critica che ha trovato un esponente difficilmente superabile in Friedrich Nietzche, che ha stigmatizzato il concetto di peccato e di pentimento come aberrazione giudeo-cristiana: “Il peccato è un sentimento ebraico e un’invenzione ebraica, e se si considera questo sfondo…. ci si rende conto che il cristianesimo di fatto ebbe di mira ‘l’ebraizzazione’ del mondo intero.”[15] Il prendere atto di questa critica sferzante non deve avere come conseguenza quella di estromettere dall’annuncio e dalla teologia cristiani il discorso sul peccato e sul perdono dei peccati. Una dottrina della giustificazione che non facesse menzione del peccato e del giudizio divino, né del giudizio divino e della grazia, non sarebbe più una dottrina della giustificazione cristiana.

                D’altro canto sarebbe bene, nell’odierna interpretazione della dottrina della giustificazione cristiana, partire dai suoi contenuti positivi di grazia e di misericordia e, da lì, tornare all’idea negativa dell’esperienza del peccato. In questo senso, non molto tempo fa, il Papa emerito Benedetto XVI ha osservato che, attraverso il tema della misericordia di Dio, può essere portato alla luce in modo nuovo il significato della giustificazione per fede: “A partire dalla misericordia di Dio, che tutti cercano, è possibile anche oggi interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione e farlo apparire ancora in tutta la sua rilevanza.”[16] Muovendomi nella stessa direzione, tenterò qui di seguito di avanzare alcune riflessioni al riguardo, cominciando con la questione tradizionale del rapporto tra fede e opere nella vita di fede del cristiano. Da un lato, alla base di questa tematica vi è la dialettica tra legge e vangelo, di centrale importanza per la teologia protestante; dall’altro, essa è una questione tuttora aperta nel dialogo cattolico-protestante.

 

3.   La giustificazione alla luce dell’amore e della misericordia di Dio

“La libertà cristiana o evangelica è una libertà della coscienza, attraverso la quale la coscienza è liberata dalle opere, non affinché esse non avvengano, ma affinché non si faccia affidamento su di esse.”[17] Questa affermazione di Martin Lutero testimonia in maniera esemplare che egli non respingeva in alcun modo le opere del cristiano, ma si opponeva con enfasi teologica al fatto che il cristiano si affidi alle sue opere. Non si può e non si deve fare affidamento sulle proprie opere soprattutto per ciò che riguarda la propria salvezza. Infatti, là dove è in gioco l’aspetto centrale e autentico della vita cristiana, la felicità ed il successo dell’uomo, quello che conta non è il fare dell’uomo. La salvezza è concessa all’uomo non in base alle sue opere e neppure in base a forme esteriori di pietà quali le indulgenze; queste, agli occhi di Lutero, veicolano piuttosto un’ingannevole certezza di salvezza, dando l’impressione che si possa acquistare da Dio la propria salvezza e che ci si possa riscattare da soli del proprio peccato davanti a lui. Là dove è in gioco la salvezza dell’uomo, si dischiude piuttosto una passività dell’individuo che non può essere né taciuta né rimossa, ovvero l’apertura al dono non manipolabile di Dio nella sua grazia. Ecco il motivo più profondo per cui l’Apostolo Paolo, davanti all’uomo che vorrebbe vantarsi delle proprie prestazioni, insiste sul fatto che l’individuo deve considerare tutto ciò che è e tutto ciò che ha non come il risultato delle proprie azioni, ma soltanto come dono immeritato di Dio: “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7).

a) Essere redenti significa essere amati

Con queste parole, Paolo ha riassunto il contenuto ed il significato della fede biblica nella giustificazione. Ma le parole di Paolo lasciano anche trapelare il fatto che questa innegabile passività non si mostra per la prima volta nella redenzione, ma la si incontra già nella creazione. Nessuno può infatti darsi la vita da solo; l’unica cosa che ci si può dare da soli è la morte. Da soli non ci possiamo dare la vita; la vita la si può solo ricevere. L’uomo non è, primariamente, un essere che agisce; egli è piuttosto un vivente che, sin dall’origine, vive in una ricettività creaturale, come professa la fede cristiana: Dio ha creato l’uomo come una meraviglia, e proprio per questo, l’uomo può essere anche redento. Ecco il motivo per cui la fede cristiana è in grado di superare il concetto moderno che l’uomo ha dato di sé, espresso nella classica formula di Cartesio, “Cogito ergo sum”, e di capovolgerlo completamente attraverso il messaggio liberatorio della fede: cogitor ergo sum, o, ancora meglio, amor ergo sum: sono amato, dunque sono.

                In ciò risiede l’identità più profonda della fede cristiana. Il mistero cristiano centrale dell’amore di Dio per noi uomini è la corrente calda non solo della creazione, ma anche della redenzione. Come noi uomini non possiamo crearci da soli, così non possiamo neppure redimerci da soli, ma possiamo solo essere redenti. Già la stessa esperienza umana ci mostra che l’essere amati precede il saper amare. Proprio l’amore di Dio per noi uomini è il fondamento di una vita redenta e dunque capace di dare amore. Soltanto se siamo pronti a riconoscere e ad accettare che siamo amati da Dio, raggiungiamo il luogo dove si può parlare di redenzione. Noi uomini possiamo dunque essere redenti soltanto grazie all’amore; l’essere redenti consiste essenzialmente nell’essere amati, come ha osservato esplicitamente Papa Benedetto XVI nella sua enciclica sulla speranza cristiana, “Spe salvi”: “Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l’uomo è «redento», qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha «redenti».”[18]

                A questa idea se ne collega un’altra, ovvero che la redenzione non sopraggiunge a noi uomini dall’esterno, ma viene a noi dall’interno. Nel nostro intimo, noi uomini siamo toccati in modo più intenso e più personale dall’amore. L’amore è essenzialmente uno “schierarsi a favore dell’esistenza dell’amato”[19], un Sì totale nei confronti dell’amato per il fatto che esiste e che è un bene che esista. L’amore di Gesù Cristo che sta dalla parte di coloro che egli ama non ha confini. L’amore cerca noi uomini proprio là dove abbiamo più bisogno di lui e dove, dunque, non possiamo fare a meno della redenzione. Come l’amore dei genitori per i figli può essere messo alla prova - e di fatti è spesso messo alla prova - quando i figli si allontanano, vanno per la loro strada e a volte prendono quella sbagliata, ma i genitori continuano ad essere dalla loro parte, così Dio continua ad amarci anche quando prendiamo le distanze da lui. Egli non ci serba rancore per la nostra mancanza di fedeltà e non attua alcuna vendetta, a differenza di ciò che facciamo spesso noi uomini. Piuttosto, si occupa di noi con amorevole premura, concedendoci così un futuro nuovo, di redenzione.

                Poiché l’amorevole premura di Dio per noi uomini non ha confini, egli ci ha amati sino alla fine, pagando il suo amore con la vita. Ha portato il fardello più pesante di questo mondo, ovvero il carico dei peccati, prendendo su di sé la croce: per noi uomini e per la nostra redenzione. L’amore e la croce non sono dunque contrapposti, ma sono inscindibilmente legati. La croce di Gesù ci rivela la logica del suo amore radicale e ci mostra che Dio non si è accontentato di professare il suo amore per noi a parole, ma ha pagato per questo amore un caro prezzo, versando per noi uomini il suo sangue sulla croce ed accogliendoci in maniera definitiva. La croce di Gesù ci manifesta l’agire coerente di un buon pastore che ama senza limiti, che vuole essere vicino a noi uomini nel baratro più profondo e nelle catacombe più nascoste di una vita cosparsa di croci, per redimerci con il suo amore. La croce è dunque la manifestazione dell’amore più grande del nostro redentore.

b) Il primato soteriologico dell’accogliere rispetto al fare

Nel suo messaggio soteriologico essenziale, la dottrina della giustificazione per fede afferma che là dove si tratta della salvezza degli uomini, Dio stesso agisce su di essi; di conseguenza, non è l’uomo che ha bisogno di giustificarsi davanti a Dio, né d’altronde è in grado di farlo, ma è Dio che giustifica l’uomo, ovvero lo accoglie. L’uomo non deve compiere quest’azione o quest’altra, ma deve fare una cosa sola, in maniera coerente: deve compiere un passo fuori da se stesso e affidarsi completamente ad un altro, ovvero a Dio. Il motivo della giustificazione non è ciò che l’uomo offre o fa, ma è la premura amorosa e misericordiosa di Dio per l’uomo. Giustificazione non significa conteggio di azioni e prestazioni dell’uomo, ma riconoscimento della grazia di Dio. È Dio che accetta l’uomo anche se inaccettabile e che lo giustifica, nonostante questa sua inaccettabilità. Da parte sua, l’uomo deve semplicemente accogliere quanto Dio compie: questo significa avere fede. Fede, secondo la breve, insuperabile espressione di Paul Tillich, significa appunto: “accettare il fatto che vengo accettato, nonostante sia inaccettabile.”[20]

                La dottrina della giustificazione porta dunque alla luce tutta la profondità del concetto biblico di “fede”. Nella fede, che è piena fiducia in Dio, avviene quell’unica cosa essenziale, che è stata definita “rivoluzione copernicana nella vita dell’individuo” da Papa Benedetto XVI in una delle sue prime pubblicazioni, ovvero il fatto che non ci consideriamo più come il centro del mondo intorno al quale gli altri devono ruotare, e che, piuttosto, iniziamo ad accettare con massima serietà “che siamo una delle tante creature di Dio, che si muovono insieme intorno a Dio, centro di tutto”.[21] La fede è quell’atto originario con il quale l’uomo non cerca più in se stesso il centro della vita, ma fa affidamento e si radica nella profondità della sua esistenza, che può essere soltanto Dio.

                Pertanto, la fede biblica nella giustificazione contiene il messaggio liberatorio secondo cui l’uomo può avere la certezza di essere accolto da Dio in maniera definitiva nel suo essere uomo senza dover far niente e senza poter far niente al riguardo. Questa esperienza di essere riconosciuto e amato come uomo, indipendentemente dalle proprie prestazioni ed, in alcune circostanze, nonostante le proprie prestazioni, o comunque in maniera distinta da esse, l’uomo può farla soltanto nell’incontro personale con Dio. La fede cristiana nella giustificazione si rivela dunque avvocata della grazia nel mezzo della società odierna, così tanto minacciata da una mancanza di misericordia individuale e strutturale che si basa essenzialmente sull’idea che l’uomo vada identificato con le proprie prestazioni.

                Il grande beneficio per l’uomo offerto dalla fede cristiana nella giustificazione consiste invece nella differenza fondamentale che essa vede tra l’uomo e le sue prestazioni. Nell’essere uomo dell’uomo, essa opera infatti una distinzione tra essere persona e essere attore. Davanti ad ogni agire, la fede cristiana nella giustificazione prende molto sul serio l’uomo come persona fondamentalmente distinta dalle sue azioni, una persona che diventa tale non per il suo agire, ma per il fatto di essere accolta da Dio. Ad agire l’uomo inizia soltanto spinto dall’amore, che scaturisce dalla fede. Dal punto di vista soteriologico, da ciò deriva la conseguenza senz’altro più fondamentale, ovvero che la prestazione dell’uomo è un suo diritto, ma in nessun modo la sua giustificazione. L’uomo è infinitamente più del bilancio delle sue azioni e soprattutto infinitamente più del bilancio delle sue cattive azioni. Questo è il motivo per cui la pena di morte – solo per citare un esempio – è totalmente incompatibile con la dottrina della giustificazione. La pena di morte cancella la distinzione cruciale tra essere persona ed essere attore ed identifica completamente il crimine dell’uomo con la sua persona. Ciò contraddice in pieno la misericordia.

                La conseguenza fondamentale della fede cristiana nella giustificazione è l’inversione radicale del rapporto, ormai consolidato nella vita quotidiana, tra essere e fare, tra persona e opera, tra grazia e prestazione: non è assolutamente la prestazione che fa dell’uomo un uomo; piuttosto, è l’uomo che è stato reso in grado di compiere prestazioni. Non sono le opere che fanno una persona; è la persona che, creata, liberata e redenta da Dio, compie le opere. Neppure le opere buone fanno buone le persone; piuttosto, soltanto le buone persone sono capaci di fare buone opere.

                In ciò risiede il messaggio della fede biblica nella giustificazione, che al tempo della Riforma è stato rivitalizzato e che oggi possiamo professare in una comunione ecumenica. Esso è di fondamentale importanza anche per la Chiesa cattolica, come dimostra soprattutto il posto occupato, all’interno del Catechismo della Chiesa cattolica, dalla dottrina della grazia e della giustificazione. A prima vista, può sorprendere se non addirittura infastidire il fatto che tale dottrina venga presentata nel mezzo della sezione del Catechismo intitolata “La vita in Cristo” che si occupa di etica, e dunque nel contesto di una riflessione antropologica sul giusto agire dell’uomo. Ma questa prima impressione viene superata se si considera che l’etica cristiana, nella prospettiva cattolica, non è semplicemente un’etica basata sulla legge, ma un’etica dialogica, che fa derivare l’agire morale dell’uomo dal suo incontro personale con Dio, ovvero non lo intende come un agire autarchico e autonomo, ma come risposta al dono dell’amore e dunque come un essere accolti all’interno della dinamica dell’amore di Dio, l’unico che può rendere l’uomo davvero libero. Da questo punto di vista, l’agire etico è al contempo un vero e proprio dono, poiché il dono non diminuisce o annulla la capacità dell’uomo di agire, ma permette all’uomo di essere pienamente se stesso.

c) La collaborazione tra la grazia di Dio e la libertà dell’uomo

Dobbiamo ora ritornare alla questione dell’importanza delle opere nella fede cristiana e chiederci in maniera più approfondita se la fede cristiana nella giustificazione, in riferimento alla salvezza, non preveda alcuna collaborazione da parte dell’uomo. Più in particolare, si tratta di capire se e come l’uomo, dopo l’introduzione del dono della salvezza da parte di Dio, può collaborare a tale salvezza, fino a che punto può agire in virtù della nuova forza infusagli dalla grazia divina, e quale peso abbia anche il suo operato nel momento del giudizio di Dio, di modo che gli possa essere attribuita una parte di responsabilità non solo nel caso di una eventuale condanna, ma anche nel caso della sua salvezza. Con ciò abbiamo toccato il tema sicuramente più delicato e difficile del consenso sulla dottrina della giustificazione. Non a caso, la “Dichiarazione Congiunta sulla dottrina della giustificazione” sottolinea che i cattolici, quando affermano il “carattere meritorio” delle buone opere, intendono evidenziare “la responsabilità dell’uomo nei confronti delle sue azioni”, senza contestare con ciò “il carattere di dono delle buone opere, e tanto meno negare che la giustificazione stessa resta un dono immeritato della grazia”[22]. Diversamente, tra i riformatori fu soprattutto Martin Lutero a muoversi in maniera decisa nella direzione di una risposta negativa a tali domande, in particolare nella disputa appassionata che egli ebbe con l’umanista Erasmo da Rotterdam e con la visione ottimista della libertà umana espressa nel suo “De libero arbitrio”. Rispondendo a ciò, Lutero si spinse sino a dire in “De servo arbitrio”, con una tagliente incisività difficilmente superabile, che l’uomo è come un animale da sella, cavalcato o da Dio o dal diavolo[23]. Simili sferzanti affermazioni ci inducono a chiederci se sia possibile avere una visione ecumenica comune del rapporto tra l’agire divino e l’agire umano, ovvero tra la grazia di Dio e la libertà dell’uomo nell’evento salvifico, alla luce della fede nella giustificazione.

                Indubbiamente, il consenso ecumenico s’impernia sul fatto che il fulcro dell’interpretazione riformatrice della fede è la dottrina della giustificazione dell’uomo non in virtù delle sue opere, ma esclusivamente in virtù della vera fede in Gesù Cristo. “Giustizia” non significa e non implica più un fare - come avveniva nella tradizione aristotelica secondo cui l’uomo era giustificato se agiva giustamente -, ma un “essere in virtù di Dio: il dono di Dio nella fede in Gesù Cristo”[24]. Ma questo solleva precisamente la domanda seguente: il carattere incondizionato della grazia di Dio che giustifica lascia spazio ad una collaborazione dell’uomo – o addirittura la attiva - rendendola possibile e sostenendola, oppure l’onnipotenza di Dio comporta anche il suo agire da solo, che implica l’accettazione, da parte dell’uomo, di una mera passività?[25]

                A questa domanda di grande importanza ecumenica si può trovare una risposta soltanto partendo dalla testimonianza biblica di Dio. Tale testimonianza evidenzia che noi uomini riceviamo da Dio tutto ciò che siamo e tutto ciò che siamo in grado di fare, e che l’agire umano non è commensurabile con quanto Dio ci dona, ma anche che il Dio di cui parla la Bibbia vuole essere un vero e proprio Dio della relazione; per questo, Dio chiama l’uomo a porsi davanti a lui, cosicché ciò che l’uomo è e ciò che l’uomo fa conta, nonostante l’incommensurabilità tra uomo e Dio; e Dio invita l’uomo a collaborare alla sua opera: “Non siamo le marionette di Dio, alle quali non si chiederebbe né si permetterebbe di agire in maniera responsabile davanti a lui.”[26]

                La testimonianza biblica della relazione che Dio ha con l’uomo deve essere approfondita partendo dalla cristologia e dalla soteriologia. Nella fede cristiana, è evidente che la redenzione è un processo che, destinato all’uomo, ha origine in Dio. Il fulcro decisivo della fede cristiana nella redenzione non è l’ira di Dio che deve essere mitigata dall’uomo, ma l’amore che Dio rivolge liberamente all’uomo. Non è l’uomo che riconcilia Dio con sé, ma è Dio che, nel suo amore gratuito, perdona l’uomo. La morte di Gesù sulla croce non è il prezzo che l’umanità peccatrice, per espiare la propria colpa, paga a Dio, offeso dai peccati degli uomini. La morte di Gesù è piuttosto il dono che Dio stesso fa di sé e del suo amore a noi uomini. Da un lato, questa dimensione catabasica della soteriologia cristiana va sottolineata chiaramente. Dall’altro, essa non deve offuscarne la dimensione anabasica. Gesù Cristo, infatti, non è soltanto il Dio che si è abbassato fino a noi uomini, ma è anche l’uomo che si è innalzato sino a Dio: “Gesù non è soltanto l’epifania dell’amore divino, che deve essere vista e compresa esclusivamente dall’alto verso il basso, ma è anche un rappresentante dell’umanità, nel quale la natura umana cede se stessa a Dio in ciò che ha di più prezioso e di più puro.”[27] Pertanto, anche la morte in croce di Gesù deve essere intesa non soltanto come un dono amorevole che Dio fa di se stesso a noi uomini, ma anche come un auto-consegnarsi amorevole, senza riserve, dell’uomo Gesù a Dio.

                Le due dimensioni dell’evento salvifico, catabasica e anabasica, sono indissociabili e si compenetrano; detto in altre parole: la riconciliazione “non è una discesa senza ascesa”[28]. Soltanto alla luce di questa prospettiva fondamentale cristologica-soteriologica possono essere affrontate anche le tematiche ecumeniche tuttora controverse, tra cui in particolare la questione ecclesiologica consistente nel capire se un’interpretazione sacramentale dell’azione redentrice di Dio, secondo la quale tale azione avviene sempre anche tramite la mediazione di ciò che è terreno-umano e di ciò che è ecclesiale, sia compatibile con la dottrina della giustificazione. Alla base della questione ecclesiologica vi è quella agiologica e mariologica: si tratta di comprendere se, nella redenzione donataci attraverso Cristo, abbia un ruolo anche l’intercessione dei santi in generale e di Maria in particolare. Per la fede cattolica, è evidente che la venerazione dei santi è una forma di adorazione di Dio, come evidenzia la Prefazio dei Santi: “Nella festosa assemblea dei santi risplende la tua gloria, e il loro trionfo celebra i doni della tua misericordia.” Quando si venera un santo, si adora quel Dio che a lui è venuto e che da lui è stato accolto. In questo senso, l’invocazione dei santi non nega minimamente l’unicità della mediazione di Gesù Cristo; piuttosto, grazie a tale mediazione, i Santi anche in cielo, da dove ci aiutano, possono continuare a vivere l’amore per il prossimo. Quello che possiamo dire per i santi, lo possiamo dire ancora di più per Maria, che è stata scelta da Dio affinché diventasse la madre di suo Figlio; il suo contributo alla storia della salvezza è stato però reso possibile soltanto dalla grazia divina. Nella figura di Maria incontriamo dunque la personificazione della dottrina della giustificazione, come sottolinea giustamente il documento “Communio Sanctorum”: “secondo il pensiero cattolico, la Madre di Cristo è la personificazione dell’evento della giustificazione per sola grazia e per sola fede”[29].

                Queste prospettive, a cui si è accennato solo brevemente, devono essere naturalmente approfondite nei dialoghi ecumenici per poter conseguire solidi consensi. Ma da quanto detto finora dovrebbe risultare evidente anche che si potrà rispondere a queste difficili domande soltanto se verrà chiarita la questione fondamentale, comprendendo cioè se, nell’evento della giustificazione, l’uomo è solo oggetto dell’agire salvifico di Dio, oppure, come soggetto della fede, egli collabora con Dio, conformemente a quanto espresso dal Catechismo della Chiesa cattolica: “La giustificazione stabilisce la collaborazione tra la grazia di Dio e la libertà dell’uomo. Dalla parte dell’uomo essa si esprime nell’assenso della fede alla Parola di Dio che lo chiama alla conversione, e nella cooperazione della carità alla mozione dello Spirito Santo, che lo previene e lo custodisce.”[30] Si capisce che la libertà dell’uomo, di cui parla il Catechismo, è una libertà a cui siamo pervenuti attraverso Cristo. Secondo la fede biblica, l’uomo all’origine non è libero, seppure sia destinato e chiamato alla libertà. Egli dipende dunque da Dio, fondamento assoluto della sua libertà, affinché possa essere liberato dalla sua schiavitù ed affinché possa impiegare davvero liberamente questa libertà ricevuta, come ha riassunto in maniera incisiva Paolo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Nel discorso sulla liberazione dell’uomo operata da Dio e sul suo passaggio dalla schiavitù alla libertà, si trova l’interpretazione dell’evento della giustificazione nel contesto della dottrina cristiana sulla libertà, conformemente a quanto affermato da Paolo e ripreso in modo nuovo da Martin Lutero nel suo scritto “Sulla libertà del cristiano”.

 

4.   La testimonianza ecumenica del primato dell’amore

Per comprendere in maniera più approfondita la collaborazione tra grazia di Dio e libertà dell’uomo nel quadro della salvezza, può essere utile riflettere sul paragone utilizzato dal teologo medievale Bonaventura per illustrare la forza della speranza escatologica. Bonaventura raffronta il movimento della speranza al volo dell’uccello, che si libra nell’aria e che dall’aria si lascia portare. Ma per volare, l’uccello deve innanzitutto stendere le ali più che può ed impiegare, nel loro movimento, tutte le sue energie. Lui stesso deve poi mettersi in moto per spiccare il volo e salire ad alta quota. Vivere nella speranza significa dunque volare. Chi spera, infatti, deve sforzarsi, come fa l’uccello, di muoversi e di muovere tutte le sue membra, per contrastare la forza di gravità che tira verso il basso, per raggiungere le vere altezze e per lasciarsi portare dall’aria.[31] Con questo paragone, Bonaventura suggerisce che la grande speranza della fede non rende superfluo l’agire dell’uomo, ma gli consente al contrario di acquisire la giusta forma e la sua libertà. Volare richiede tutte le nostre energie; ma è possibile soltanto se ci affidiamo totalmente all’aria che ci circonda e che ci porta. Come l’uccello può volare perché sa essere leggero, così anche il cristiano sarà in grado di volare meglio se non darà a se stesso troppo peso e se, soprattutto, non si lascerà schiacciare dalla forza di gravità dei peccati.

                Nella stessa direzione punta un’immagine analoga utilizzata da Martin Lutero per chiarire il rapporto tra fede ed opere: “Il Vangelo è come una brezza fresca e delicata nella grande calura estiva, è consolazione nell’angoscia della coscienza… Ma non appena la brezza del Vangelo ha dato ristoro e conforto alle nostre forze, noi non dobbiamo rimanere indolenti, coricarci e russare; ovvero, quando lo Spirito di Dio ha appagato, acquietato e consolato la nostra coscienza, allora dobbiamo dimostrare anche la nostra fede con le buone opere che Dio ci ha comandato ed indicato nei dieci comandamenti.”[32] Di fatti, chi, nella fede, è sollevato dalla tormentosa preoccupazione della propria salvezza può e deve farsi carico delle preoccupazioni degli uomini e del mondo.

                Se teniamo a mente queste similitudini, comprendiamo anche perché il teologo cattolico Otto Hermann Pesch, esperto di Lutero, ha definito la disputa scoppiata al tempo della Riforma sulla fede e sulle opere come “la più superflua di tutte le questioni controverse”[33]. Il cruciale messaggio della giustificazione dell’uomo per fede, riscoperto durante la Riforma, non ci divide come cristiani, ma ci unisce. E che non debba mai dividerci, nonostante sia avvenuto proprio questo per secoli, lo dimostra anche una testimonianza risalente ad un’epoca che precede l’apertura ecumenica della Chiesa cattolica durante il Concilio Vaticano Secondo, ovvero la testimonianza di Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), che il Catechismo della Chiesa cattolica presenta al fine di spiegare la propria interpretazione della dottrina della giustificazione: “Dopo l’esilio della terra, spero di gioire di te nella Patria; ma non voglio accumulare meriti per il cielo: voglio spendermi per il tuo solo amore [...]. Alla sera di questa vita comparirò davanti a te con le mani vuote; infatti non ti chiedo, o Signore, di tener conto delle mie opere. Tutta la nostra giustizia non è senza macchie ai tuoi occhi. Voglio perciò rivestirmi della tua giustizia e ricevere dal tuo amore l’eterno possesso di te stesso.”[34]

                Non è un caso che Santa Teresa abbia respinto l’immagine tradizionale della santità, che vede il santo come un eroe delle virtù, come uno “sportivo” capace di altissime prestazioni religiose. Per lei, la santità cristiana non si realizza in qualcosa di sensazionale e di eroico, ma vive nel quotidiano sotto il velo della discrezione di una fede non vistosa, così che è la fede stessa il contenuto essenziale della santità. Teresa è convinta che la santità consista non tanto in esercizi e prestazioni religiose, ma in un atteggiamento esistenziale di fondo nutrito dalla fede, nella vita di tutti i giorni. Per questo, ha distolto lo sguardo dalle buone azioni e dalle opere pie, annunciando e lodando piuttosto, con letizia, la grazia di Dio. Ella sapeva infatti che, nella vita della fede, in fin dei conti, tutto è grazia e che niente è così lontano dall’esistenza cristiana quanto la pia speculazione sulla ricompensa celeste per le opere buone: “Dobbiamo fare tutto ciò possiamo fare, per amore di Dio, ma è indispensabile in verità riporre tutta la nostra fiducia nell’Unico che santifica le nostre opere e che può santificarci senza di esse.”

                Questa è, nelle parole di una santa cattolica della fine del XIX scolo, la dottrina della giustificazione pura. Teresa, infatti, non solo ha annunciato il messaggio pienamente cristiano del “per sola grazia”, ma lo ha testimoniato con la sua stessa vita. Sforzandosi di vivere in tutto nella grazia di Dio, ha anticipato l’intesa ecumenica tra la Chiesa cattolica e le Chiese nate dalla Riforma, e questo è avvenuto sulla “piccola via” che ella ha intrapreso, un cammino sul quale la “sola fide” si riconcilia persino con la “sola caritate”, ed in prima linea non con l’amore umano, ma con l’amore di Dio per noi uomini.

                È un segno promettente il fatto che questa visione  ecumenica di una santa si sia realizzata. Con ciò, anche la tradizionale opposizione tra pietà cattolica e pietà protestante è stata superata, come mostra quanto scrive il grande teologo protestante e martire cristiano del regime nazista, Dietrich Bonhoeffer, parlando di una conversazione avuta una volta con un sacerdote francese: “Ci eravamo posti la semplice domanda di cosa volessimo realizzare in fondo con la nostra vita. Egli disse: voglio diventare un santo… Mi colpì molto in quel momento. Tuttavia dissentii, dicendo più o meno: io voglio imparare a credere.” Se Dietrich Bonhoeffer avesse conosciuto Santa Teresa d’Avila, probabilmente non avrebbe più visto una contrapposizione tra il diventare santi e l’imparare a credere, comprendendo che, per questa santa cattolica, il fulcro della santità cristiana è proprio la fede. Sicuramente, Teresa di Lisieux e Dietrich Bonhoeffer si saranno già accordati al riguardo, in cielo. A noi, nella nostra vita e nella nostra convivenza ecumenica, rimane il compito di trarre le giuste conseguenze da questa bella testimonianza di consenso ecumenico sulla dottrina della giustificazione, anche nelle sue diverse prospettive spirituali sviluppatesi all’interno delle varie tradizioni confessionali. E questo possiamo e dobbiamo farlo in particolare nel 2017, anno della commemorazione comune della Riforma, commemorazione che sarebbe stata impensabile senza un consenso ecumenico sulla dottrina della giustificazione.

 

 

 

 

[1].  Conferenza presso la Facoltà Valdese di Teologia a Roma, il 13 febbraio 2017.

 

 

[2].  Vgl. K. Lehmann und W. Pannenberg (Hrsg.), Lehrverurteilungen – kirchentrennend? I Rechtfertigung, Sakramente und Amt im Zeitalter der Reformation und heute (Freiburg i. Br. – Göttingen 1986); W. Pannenberg und Th. Schneider (Hrsg.), Lehrverurteilungen – kirchentrennend? IV Antworten auf kirchliche Stellungnahmen (Göttingen – Freiburg i. Br. 1994).

 

 

[3].  Federazione Luterana Mondiale e Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione.

 

 

[4].  Vgl. H. Meyer und G. Gassmann (Hrsg.), Rechtfertigung im ökumenischen Dialog. Dokumente und Einführung = Ökumenische Perspektiven Nr. 12  (Frankfurt a. M. 1987); John A. Rodano, Lutheran & Catholic Reconciliation on Justification. A Chronology of the Holy See’s Contributions, 1961-1999, to a New Relationship between Lutherans & Catholics and to Steps Leading to the Joint Declaration on the Doctrine of Justification (Cambridge 2009).

 

 

[5].  Cfr. The Biblical Foundations of the Doctrine of Justification. An Ecumenical Follow-Up to the Joint Declaration on the Doctrine of Justification (New Jersey 2012).

 

 

[6].  Vgl. B. J. Hilberath / W. Pannenberg (Hrsg.), Zur Zukunft der Ökumene. Die „Gemeinsame Erklärung zur Rechtfertigungslehre (Regensburg 1999); E. Pulsfort / R. Hanusch (Hrsg.), Von der „Gemeinsamen Erklärung“ zum „Gemeinsamen Herrenmahl“? Perspektiven der Ökumene im 21. Jahrhundert  (Regensburg 2002).

 

 

[7].  Dichiarazione congiunta sulla giustificazione, n. 43.

 

 

[8].  W. Pannenberg, Reformation zwischen gestern und morgen (Gütersloh 1969) 10.

 

 

[9].  W. Pannenberg, Reformation und Einheit der Kirche, in: Ders., Ethik und Ekklesiologie. Gesammelte Aufsätze (Göttingen 1977) 254-267, zit. 261.

 

 

[10].  W. Pannenberg, Protestantische Bussfrömmigkeit, in: Ders., Christliche Spiritualität. Theologische Aspekte (Göttingen 1986) 5-25, zit. 23.

 

 

[11].  W. Pannenberg, Thesen zur Theologie der Kirche (München 1970) 31.

 

 

[12].  J. Kardinal Ratzinger, Luther und die Einheit der Kirchen, in: Ders., Kirche, Ökumene und Politik. Neue Versuche zur Ekklesiologie (Einsiedeln 1987) 97-127, zit. 109.

 

 

[13].  J. Cardinal Ratzinger, Wie weit trägt der Konsens über die Rechtfertigungslehre? in: IkaZ Communio 29 (2000) 424-437, zit. 429.

 

 

[14].  Benedetto XVI, Discorso durante l’incontro con i rappresentanti del Consiglio della Chiesa evangelica in Germania, nell’ex Convento degli Agostiniani di Erfurt, il 23 settembre 2011.

 

 

[15].  F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft II, 125.

 

 

[16].  Intervista a S.S. il Papa emerito Benedetto XVI sulla questione della giustificazione per la fede, in:  D. Libanori (ed.), Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione della Chiesa e negli esercizi spirituali (Cinisello Balsamo 2016) 125-137, cit. 129.

 

 

[17].  M. Luther, WA 7, 606.

 

 

[18].  Benedetto XVI, Spe salvi, n. 26.

 

 

[19].  J. Ratzinger, Vorfragen zu einer Theologie der Erlösung, in: L. Scheffczyk (Hrsg.), Erlösung und Emanzipation (Freiburg i. Br. 1973) 141-155, zit. 148.

 

 

[20].  P. Tillich, Systematische Theologie. Band III (Stuttgart 1966) 254-258.

 

 

[21].  J. Ratzinger, Vom Sinn des Christseins. Drei Predigten (München 1966) 58.

 

 

[22].  Dichiarazione Congiunta sulla dottrina della giustificazione, n. 38.

 

 

[23].  M. Luther, WA 18, 635.

 

 

[24].  Ch. Schad, Rechtfertigung: Gottes Ja zu uns!, in: H. Schwier / H.-G. Ulrichs (Hrsg.), Nötig zu wissen. Heidelberger Beiträge zum Heidelberger Katechismus (Heidelberg 2012) 103-107, zit. 105.

 

 

[25].  Vgl. W. Kasper, Zum gegenwärtigen Stand des ökumenischen Gesprächs zwischen den Reformatorischen Kirchen und der Katholischen Kirche, in: Ders., Wege zur Einheit der Christen = Gesammelte Schriften. Band 14 (Freiburg i. Br. 2012) 299-318, bes. 306-310. Vgl. auch  K. Koch, Der Heidelberger Katechismus in katholischer Sicht heute, in: M. E. Hirzel, F. Mathwig, M. Zeindler (Hrsg.), Der Heidelberger Katechismus – ein reformierter Schlüsseltext = reformiert! Band 1 (Zürich 2013) 287-306.

 

 

[26].  J. Cardinal Ratzinger, Wie weit trägt der Konsens über die Rechtfertigungslehre? in: IkaZ Communio 29 (2000) 424-437, zit. 433.

 

 

[27].  J. Ratzinger, Theologie und Verkündigung im Holländischen Katechismus, in: Ders., Dogma und Verkündigung (München 1973) 65-83, zit.77.

 

 

[28].  K.-H. Menke, Das unterscheidend Christliche. Beiträge zur Bestimmung seiner Einzigkeit (Regensburg 2015) 67.

 

 

[29].  Bilaterale Arbeitsgruppe der Deutschen Bischofskonferenz und der Kirchenleitung der Vereinigten Evangelisch-Lutherischen Kirche Deutschlands, Communio Sanctorum. Die Kirche als Gemeinschaft der Heiligen (Paderborn – Frankfurt a. M. 2000) Nr. 267.

 

 

[30].  Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1993.

 

 

[31].  Bonaventura, Dominica I. Adv. Sermo XVI.

 

 

[32].  M. Luther, WA 40 III, 386.

 

 

[33].  O. H. Pesch, Hinführung zu Luther (Mainz 1982) 162.

 

 

[34].  Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2011.