Un motivo di gioia: cinquant’anni di dialogo tra la Chiesa e l’ebraismo

Rev.do Padre Norbert Hofmann, SDB
Segretario della Commissione per le relazioni con l'Ebraismo

 

La giornata di oggi, che la Chiesa in Italia, in Polonia, in Austria e nei Paesi Bassi festeggia come il “Giorno dell’Ebraismo”, offre un’ottima occasione per ricordare l’importanza della dichiarazione conciliare Nostra aetate (n. 4) quale fondamento del dialogo ebraico-cattolico. Il 28 ottobre del 1965 questo documento, decisivo per il dialogo con l’ebraismo, venne approvato dal Concilio Vaticano Secondo e promulgato da Papa Paolo VI; il 2015 segna quindi il cinquantesimo anniversario della sua promulgazione. Cinquant’anni di dialogo ufficiale con l’ebraismo da parte della Chiesa cattolica sono un motivo sufficiente per ringraziare il Dio di Israele, che è anche il Dio dei cristiani, per i buoni frutti prodotti dalla nostra comune collaborazione. Di fatti, la storia degli effetti di Nostra aetate (n. 4) negli ultimi cinquant’anni è una storia di successo, nella quale interlocutori scettici e diffidenti si sono progressivamente trasformati in amici, capaci di superare insieme anche le fasi più critiche.

Nel periodo immediatamente successivo al Concilio Vaticano Secondo, responsabile del dialogo con l’ebraismo fu originariamente il “Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani”. Ma il 22 ottobre del 1974, Papa Paolo VI fondò, come organo facente parte di tale ufficio, una Commissione specifica, la “Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo”, con il compito di concretizzare quanto affermato dalla dichiarazione conciliare, di trasformarlo in una realtà vivente tramite la collaborazione tra ebrei e cristiani e di fornire impulsi sempre nuovi alla loro reciproca amicizia. In questa “Magna Charta” del dialogo ebraico-cristiano viene presentata una delle sue priorità: “Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo.” Questo dialogo fraterno ha in ultima analisi lo scopo di spingere ebrei e cattolici a collaborare insieme per la giustizia, per la pace e per la tutela del creato; sulla base di una crescente amicizia e di una stima reciproca sempre più profonda, dobbiamo riuscire a dare al mondo una testimonianza comune della presenza e dell’opera salvifica di Dio. Ebrei e cristiani sono chiamati insieme, proprio oggi, nella società odierna, a rendere presente Dio in ogni circostanza, a parlare di Lui e ad annunciare i suoi insegnamenti per una felice convivenza umana. Davanti ad un ateismo sempre più diffuso e ad una secolarizzazione aggressiva che si fa strada in tutti i campi, ebrei e cristiani sono tenuti ad impegnarsi insieme per evitare che la dimensione religiosa venga estromessa dalla vita pubblica e per difenderla proprio lì, in maniera risoluta.

Se si considera come è nata la dichiarazione Nostra aetate, possiamo davvero parlare di un “piccolo miracolo”. Essa ha un padre, Papa Giovanni XXIII, che già al tempo in cui era visitatore apostolico e delegato a Sofia (1925-1935), e soprattutto delegato apostolico in Istanbul (1935-1944), aveva salvato, grazie al suo intervento personale, molti ebrei dai campi di concentramento nazisti. Papa Giovanni XXIII aveva la capacità di percepire con sensibilità ciò che andava mutando nella consapevolezza della Chiesa ed aveva il coraggio di spingere affinché tali cambiamenti si realizzassero. Nel Cardinale Augustin Bea (1881-1968), stimato biblista, il Papa trovò un prezioso collaboratore e lo nominò, nel giugno del 1960, primo Presidente del “Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani”. Quando Giovanni XXIII decise che il Concilio Vaticano Secondo doveva redigere una dichiarazione sull’ebraismo, Augustin Bea, incaricato dal Papa di occuparsene, dovette incamminarsi non solo su un territorio del tutto nuovo, ma anche su un terreno minato. Ci furono infatti veementi opposizioni all’interno ed all’esterno. All’interno, si sollevarono, tra l’altro, anche le voci dell’antigiudaismo. All’esterno, soprattutto da parte di alcuni paesi musulmani, si alzarono forti contestazioni e persino minacce rivolte contro le piccole minoranze cristiane in tali paesi. In queste circostanze, la storia del documento ebbe un corso alquanto turbolento. Inizialmente, la dichiarazione fu presentata nel 1962 come un documento autonomo, ma dovette essere ritirata a causa di aspre opposizioni. In seguito, essa venne inserita nella bozza del decreto sull’ecumenismo, poi in quella della dichiarazione sulla libertà religiosa ed infine si decise, per salvare l’essenziale, di introdurre il testo come capitolo di una nuova “Dichiarazione sulle religioni non-cristiane”, che prese il nome di Nostra aetate. Questo –va detto- fu un compromesso, poiché l’ebraismo per i cristiani non è una tra le tante religioni non cristiane. Il cristianesimo ha una relazione del tutto speciale, una relazione unica con l’ebraismo. Ma non era semplice mostrare l’evidenza di questa realtà e trovare una maggioranza che la accogliesse. Infine, la dichiarazione fu promulgata ufficialmente dal Concilio il 28 ottobre 1965 con 2221 voti favorevoli e 88 voti contrari.

Il documento contiene due affermazioni senza pari: un sì decisivo alle radici ebraiche del cristianesimo ed un no altrettanto risoluto a tutte le forme di antisemitismo. Sullo sfondo di Rom 9-11, il Concilio ricorda le origini ebraiche del cristianesimo, la nostra eredità comune come figli di Abramo ed il fatto che Gesù, sua madre Maria e gli apostoli erano ebrei e, come tali, hanno vissuto nella tradizione ebraica del loro tempo. Sulla vocazione di Israele, Paolo afferma in Rom 11,29: “perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili”. Per questo, la dichiarazione ha vietato di presentare gli ebrei come “rigettati da Dio” o “maledetti”. Il Magistero ha voluto che i termini spregiativi utilizzati nel passato dalla Chiesa nei confronti degli ebrei venissero abbandonati in maniera definitiva. Alla decisione teologica è seguita una decisione riguardante l’atteggiamento generale della Chiesa: la dichiarazione conciliare condanna “gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque ”. Alla luce di queste affermazioni, si può costatare che il Concilio non ha solo respinto l’antisemitismo come una teoria razziale completamente sbagliata, ma ha superato del tutto anche il vecchio antigiudaismo teologico, colpevole a volte di aver favorito l’antisemitismo. Con ciò, si preparava la strada pure all’abbandono della teoria della sostituzione, diffusa nella Chiesa fin dal II secolo, secondo la quale la Chiesa, come nuovo popolo dell’alleanza, sarebbe subentrata al vecchio popolo dell’alleanza ripudiato da Dio. Nostra aetate (n. 4) ha dunque spianato il terreno per una nuova semina e per una nuova fruttuosa epoca nelle relazioni ebraico-cattoliche.

Dopo cinquant’anni di dialogo ufficiale con l’ebraismo, Nostra aetate (n. 4) può essere considerata addirittura come un “testo profetico” per il suo tempo, poiché contiene, in maniera esplicita o implicita, tutto ciò che poi si è rivelato essenziale nel corso del dialogo. Per la prima volta, la Chiesa ha avuto il coraggio di assumere un nuovo orientamento teologico nei confronti dell’ebraismo, sebbene vada ricordato che questo approccio aveva fatto la sua comparsa anche al di fuori della Chiesa cattolica. Naturalmente anche prima del Concilio Vaticano Secondo sono stati prodotti dalla Chiesa cattolica testi che si occupano dell’ebraismo, ma un simile giudizio teologico sull’ebraismo rimane comunque del tutto innovativo e singolare. Ecco perché, rispetto ad altri testi conciliari, questo documento non si riferisce sistematicamente, nelle sue note a piè di pagina, a precedenti documenti del Magistero. Dal punto di vista teologico, però, la dichiarazione anticipa alcuni aspetti che non vengono sviluppati fino in fondo e che richiedono pertanto un’ulteriore riflessione per determinare in che modo le affermazioni fondamentali di Nostrae aetate (n. 4) potranno essere integrate in un ulteriore quadro teologico. Un tema di approfondimento dovrà essere ad esempio come si debba intendere l’universalità salvifica di Gesù Cristo sullo sfondo dell’affermazione di Papa Giovanni Paolo II, che ribadisce che l’antica alleanza di Dio con il popolo di Israele è sempre valida e irrevocata. Il quarto articolo di Nostra aetate apre dunque nuovi orizzonti teologici, che non sono stati ancora adeguatamente esplorati.

Nostra aetate (n. 4) fa sicuramente parte di quei testi conciliari che hanno prodotto un duraturo cambiamento ed hanno segnato una nuova svolta all’interno della Chiesa cattolica. Probabilmente senza questo documento, due Papi non avrebbero visitato la sinagoga di Roma, due Papi non si sarebbero recati ad Auschwitz-Birkenau per pregare per le vittime della shoah, quattro papi non avrebbero visitato la Terra Santa e forse non si sarebbero sviluppate relazioni diplomatiche ufficiali tra la Santa Sede e lo Stato di Israele. Sebbene le relazioni con l’ebraismo avessero assunto una forma istituzionale già sotto Papa Paolo VI, esse si sono intensificate considerevolmente durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II. Già per motivi legati alla sua storia personale, egli ebbe a cuore in modo particolare il miglioramento delle relazioni con l’ebraismo. Fu il primo Papa a recarsi in una sinagoga, il primo Papa a visitare Auschwitz, il primo Papa a compiere una visita ufficiale allo stato di Israele. Egli ruppe il ghiaccio e compì gesti indimenticabili di riconciliazione. Memorabile è il suo abbraccio con il Rabbino capo di Roma Elio Toaff davanti alla sinagoga di Roma, il suo raccogliersi in preghiera davanti alla lapide commemorativa scolpita in ebraico ad Auschwitz, la sua visita al muro del pianto a Gerusalemme. Sulla scia del suo predecessore, Benedetto XVI ha compiuto simili passi di riconciliazione, con il suo stile inconfondibile. E Papa Francesco ha già dimostrato chiaramente la sua volontà di portare avanti questo cammino, tanto più che egli, già al tempo in cui era Arcivescovo di Buenos Aires, ha intrattenuto buonissimi rapporti con la comunità ebraica locale. Il primo viaggio che Papa Francesco ha programmato di sua iniziativa all’estero è stato quello che lo ha condotto, nel maggio del 2014, in Israele, dove ha avuto un incontro con i due Gran Rabbini, ha pregato davanti al muro del pianto ed ha incontrato alcuni sopravvissuti dell’olocausto a Yad-wa-Shem. Il Santo Padre riceve continuamente delegazioni ebraiche in Vaticano e non si stanca mai di sottolineare, sulla base di Nostra aetate (n. 4), l’importanza di scoprire e di vivere in maniera autentica valori religiosi comuni.

È con riconoscenza e con gioia che potremo allora, alla fine del mese di ottobre di quest’anno, guardare agli ultimi cinquant’anni del dialogo ebraico-cattolico. Questo non è solo opera di uomini aperti al dialogo, poiché “se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (Salmo 127,1). Pertanto, la nostra gratitudine va innanzitutto all’Eterno ed Onnipotente, che, nella sua bontà, desidera riunire tutti i suoi figli affinché si riconcilino nel dialogo e testimonino insieme il suo grande amore per tutti gli uomini. Un mondo senza Dio è un mondo buio e disorientato; un mondo in cui Dio è presente è un mondo luminoso e fiducioso. Per questo, ebrei e cristiani sono chiamati a portare insieme Dio al mondo e a mantenerlo vivo nel mondo, per alimentare continuamente la speranza.

 

 

 

 

L'Osservatore Romano, 17 gennaio 2015