L’interpretazione delle Sacre Scritture secondo la tradizione ebraica e cristiana

Rev.do Padre Norbert Hofmann, SDB
Segretario della Commissione per le relazioni con l'Ebraismo

 

La “Giornata dell’ebraismo” che la Chiesa in Italia celebra oggi, 17 gennaio, è segno del grande apprezzamento da parte della Chiesa cattolica nei confronti degli ebrei. Questa giornata intende offrire ai cristiani l’opportunità di ricordare con gratitudine le radici ebraiche della loro fede, come pure di sensibilizzarli al dialogo attualmente in corso con l’ebraismo. La “Giornata dell’ebraismo” si celebra il 17 gennaio oltre che in Italia anche in Polonia, in Austria e nei Paesi Bassi, per iniziativa delle rispettive Conferenze episcopali. Questa giornata è una buona occasione per riflettere sulle Sacre Scritture che le due tradizioni hanno in comune.

Non c’è dubbio che l’ebraismo ai tempi di Gesù sia stato il fondamento sia dell’ebraismo rabbinico, che si sviluppò dopo la distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C., sia del cristianesimo primitivo, fondamento su cui entrambe le tradizioni si basano in termini spirituali e teologici. Le Sacre Scritture dell’ebraismo furono accolte come un fatto naturale dai primi cristiani, tutti provenienti dalla tradizione ebraica, ma poi, con il passare del tempo, vennero interpretate in modo diverso. I primi cristiani si rifacevano inoltre a una traduzione greca dei testi sacri dell’ebraismo, la cosiddetta Settanta; di fatti, il cristianesimo del I secolo d.C. aveva già iniziato a distanziarsi dall’orizzonte prettamente ebraico per radicarsi gradualmente nell’ambito ellenistico. All’epoca, il canone dell’Antico Testamento non era stato ancora definito. Sebbene la “Torah” (= i primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) e i “Profeti” avessero già la loro configurazione, gli “Scritti” erano ancora in divenire. La Settanta dei cristiani non è identica alla “Biblia Hebraica” degli ebrei; in essa vennero inclusi col tempo anche altri scritti, alcuni dei quali disponibili e tramandati solo in traduzioni greche. Questo è il motivo per cui l’Antico Testamento della “Bibbia cattolica” comprende più testi rispetto alla Bibbia ebraica. Nella “Bibbia cattolica”, i cosiddetti “libri deuterocanonici” completano il canone delle Sacre Scritture dell’ebraismo.

Pertanto, affermare che i primi cristiani adottarono l’Antico Testamento degli ebrei è sia giusto sia sbagliato. Certamente essi ripresero i libri fondamentali della “Torah”, dei “Profeti” e delle “Scritture”, ma li disposero in modo diverso e li integrarono con ulteriori testi o aggiunte. Inoltre, l’interpretazione delle Scritture comuni diverge. Per gli ebrei solo la “Torah” è Sacra Scrittura in senso stretto, ed è la sola ad essere intesa come necessaria all’edificazione spirituale. Già i primi cristiani si accostavano ai testi tramandati dall’ebraismo con una diversa prospettiva: la morte e la risurrezione di Cristo offrivano loro la chiave di lettura basilare. Per i cristiani, Gesù è il Messia d’Israele, predetto proprio da queste Scritture, il Messia che addirittura porta le Scritture a compimento: le promesse dell’Antico Testamento culminano dunque in Cristo, e si compiono per mezzo di lui, che è riconosciuto come il Salvatore e il Redentore definitivo. Per familiarizzare con l’interpretazione cristiana delle Sacre Scritture ebraiche, è utile considerare più da vicino il racconto di Emmaus e della manifestazione del Risorto in Luca 24. Gesù risorto insegna così ai discepoli di Emmaus: “… ‘Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?’ E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,26-2). Qui “Mosè” sta per il corpus della “Torah”. Quello che Gesù sta dicendo di sé è quanto segue: le Scritture ebraiche, in maniera celata, si riferiscono già a lui, in definitiva sono rivolte interamente a lui, possono essere interpretate solo con lui e mediante lui. Gesù risorto è dunque la chiave di lettura delle precedenti Sacre Scritture ebraiche. Quando Gesù si manifesta ai discepoli a Gerusalemme, dice: “Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (Lc 24,44). Gesù rappresenta in questo senso il compimento di tutte le promesse fatte da Dio nell’Antico Testamento: egli è la “recapitulatio” di tutto ciò che è in cielo e in terra (cfr. Ef 1,10). Per descrivere il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, Sant’Agostino sceglie un gioco di parole: il Nuovo è celato nell’Antico (in latino “latet”), ma l’Antico è rivelato nel Nuovo (“patet”).

Riassumendo: ebrei e cristiani hanno in parte le stesse Sacre Scritture, ma le leggono in modo diverso a seconda della propria tradizione. L’interpretazione delle Scritture segue criteri ermeneutici diversi, parametri diversi. Nel documento dal titolo “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana” (Pontificia Commissione Biblica, 2001), il cardinale Joseph Ratzinger, nella prefazione, affronta questo tema in maniera conciliante e mette in evidenza due delle affermazioni del documento: “Innanzitutto afferma che la lettura giudaica della Bibbia ‘è una lettura possibile, che è in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell’epoca del secondo tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente a questa’ (n. 22). A ciò aggiunge che i cristiani possono imparare molto dall’esegesi giudaica praticata per 2000 anni; a loro volta i cristiani sperano che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell’esegesi cristiana (ibidem). Io penso che queste analisi saranno utili per il progresso del dialogo giudeo-cristiano, ma anche per la formazione interiore della coscienza cristiana.” Il dialogo ebraico-cristiano dovrebbe quindi favorire la lettura comune della Bibbia e il reciproco arricchimento attraverso le condivisioni delle rispettive interpretazioni secondo le diverse tradizioni di fede.

Dalla comparsa, avvenuta a cavallo tra il XIX e il XX secolo, dell’interpretazione storico-critica della Bibbia, che in alcuni casi ha prevalso sulle altre e che viene praticata ancora oggi in maniera fruttuosa, pare irrilevante la religione o la confessione di appartenenza dell’esegeta, poiché questo metodo segue linee guida scientifiche di classificazione e di interpretazione dei testi. Eppure occorre tener presente che non si tratta di una “storiografia neutrale”, ammesso che esista una cosa del genere. L’Antico Testamento parla di Dio e della sua relazione d’amore con il popolo eletto d’Israele; il Nuovo Testamento parla invece di Gesù, il Cristo, che, quale figlio di Dio, proclama nella sua persona l’inizio del Regno di Dio. Si tratta di letteratura religiosa scritta per i fedeli che credono in Dio o nel Messia d’Israele, ai fini della formazione catechetica nella fede, o dell’attività missionaria tra i non credenti. Il quadro ermeneutico della stesura dei testi biblici è dunque la fede; l’interpretazione di tali testi sarà allora fruttuosa solo se avverrà nella rispettiva tradizione di fede. Questo vale sia per gli ebrei che per i cristiani, indipendentemente dalla loro confessione. Come cattolici, riconosciamo inoltre che le Sacre Scritture sono ispirate, cioè scritte su ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Dei Verbum 11). La Costituzione “Dei Verbum” del Concilio Vaticano II esorta gli esegeti a prestare particolare attenzione al riguardo: “Poiché Dio nella Sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana, l’interprete della Sacra Scrittura, per capir bene ciò che Egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi in realtà hanno inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole” (Dei Verbum 12).

Possiamo analizzare i testi sacri nelle loro singole parti, come studiamo e interpretiamo una poesia di Ovidio, ma saremmo lungi dal rendere loro giustizia se non li contestualizzassimo adeguatamente e se non tenessimo conto del quadro ermeneutico della fede. Su questa premessa interpretativa della Bibbia, i credenti ebrei e cristiani sono d’accordo, sebbene si riferiscano a criteri ermeneutici completamente diversi, segnati dalle rispettive tradizioni di fede. Gli ebrei non hanno bisogno del Nuovo Testamento, mentre i cristiani devono naturalmente interpretare anche l’Antico Testamento. Eppure non manca (e non è mancato nella storia) un interesse scientifico da parte degli ebrei nei confronti del Nuovo Testamento, considerato come una testimonianza contemporanea dell’ebraismo. In questo contesto, tra i nomi che potrebbero essere menzionati, vanno ricordati il p. Joseph Klausner, il p. David Flusser, e il giornalista Shalom Ben-Chorin. Il Nuovo Testamento è stato utilizzato da loro come fonte per la ricerca sul giudaismo dei tempi di Gesù, ed è stato confrontato con altre testimonianze ebraiche dell’epoca. È evidente che il Nuovo Testamento deve essere collocato nel contesto ebraico del suo tempo, sebbene vi si possano naturalmente individuare anche influenze ellenistiche. Basti pensare che l’apostolo Paolo, il quale visse e operò in ambiente ellenistico, fu educato secondo la tradizione ebraica tradizionale (cfr. Fil 3, 5-6), anche se scrisse i suoi testi in koinè greca, come era consuetudine fare all’epoca. Tuttavia, non si può spiegare il Nuovo Testamento con riferimento alle sole influenze ebraiche ed ellenistiche. In quanto raccolta di scritti ispirata, ha un indiscutibile “valore aggiunto”, legato all’effettiva identità di Gesù come Messia d’Israele e Figlio di Dio. I Vangeli possono essere anche considerati come storie di identità: chi è questo Gesù? Qual è il suo rapporto con Dio? Da dove trae la sua legittimità e la sua autorità? Ha davvero una natura divina? È davvero il Figlio di Dio, il Messia d’Israele?

Nel dialogo ebraico-cristiano degli ultimi tempi è sempre più percepibile la disponibilità a interpretare le Sacre Scritture insieme, nel rispetto reciproco, tenendo conto dell’altrui tradizione di fede e lasciandosi arricchire da essa. Di imminente pubblicazione è il libro “Gesù interprete dei Salmi. Fedeltà alla Tradizione e novità di senso” (Lucio Sembrano), nel quale si spiega come Gesù di Nazareth abbia pregato e interpretato i Salmi, dando loro compimento nella sua vita, e facendoci scoprire nel Salterio una pluralità di voci, che si possono riferire al suo mistero. Recentemente è uscito inoltre in Italia il terzo volume della cosiddetta “Bibbia dell’Amicizia” (a cura di Marco Cassuto Morselli e Giulio Michelini), in cui vengono presentate in parallelo, a confronto, l’interpretazione cristiana e l’interpretazione ebraica di alcuni brani dell’Antico Testamento. Vale la pena ricordare anche che, ultimamente, la parte ebraica ha mostrato interesse nei confronti del Nuovo Testamento come oggetto di studio scientifico, facendone risaltare di nuovo l’orizzonte ebraico. A tal proposito, va segnalata la seconda edizione del “Jewish Annotated New Testament” (a cura di Amy-Jill Levine e Marc Zvi Brettler), disponibile in inglese e in corso di traduzione in altre lingue.

Da un lato, ebrei e cristiani hanno in comune Sacre Scritture che essi interpretano in modo diverso nel proprio contesto religioso. Dall’altro, ciascuna comunità può essere arricchita dallo studio di importanti testi religiosi appartenenti all’altra tradizione di fede. Una lettura comune dei testi sacri, rispettosa delle dovute differenze, sarà sicuramente proficua per il dialogo ebraico-cattolico, in un mondo sempre più secolarizzato, al fine di ridare nuovo splendore ai tradizionali valori ebraico-cristiani all’interno di una società che corre sempre più il rischio di dimenticare Dio e d’ignorare la dimensione trascendente della vita.

 

 

 

L'Osservatore Romano, 17 gennaio 2022