L’EUCARESTIA COME FONTE E CULMINE
DELLA VITA PRESBITERIALE

 

 

Conferenza per l’incontro di spiritualità per il clero dell’Arcidiocesi di Firenze

23 novembre 2022

 

1. Unità tra Chiesa, Eucaristia e sacerdozio

La liturgia della Chiesa è “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa” e, al tempo stesso, “la fonte da cui promana tutta la sua energia”[1]. Quanto la Costituzione del Concilio Vaticano Secondo sulla Sacra Liturgia “Sacrosanctum concilium” afferma a proposito della liturgia della Chiesa in generale si applica in modo particolare alla celebrazione dell’Eucaristia, che costituisce il fulcro della Chiesa, il fulcro da cui scaturisce e a cui ritorna tutta la vita di fede. Questo mostra lo stretto legame esistente tra Chiesa ed Eucaristia, e il fatto che la Chiesa non solo celebra l’Eucaristia, ma nasce continuamente nell’Eucaristia, come sottolinea il famoso teologo conciliare Henri de Lubac con la sua memorabile frase: “C’est l’Église qui fait l’Euchariste, mais c’est aussi l’Euchariste qui fait l’Église.”[2]

Da ciò si comprende anche il perché, nella vita e nell’opera del sacerdote, che è al servizio della santificazione dei battezzati, la celebrazione eucaristica occupi un posto centrale, come evidenzia di nuovo la Costituzione sulla Liturgia: “Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore.”[3] Quest’affermazione contiene essenzialmente tutto ciò che si può e si deve dire sull’Eucarestia come fonte e culmine della vita sacerdotale. Di fatti, conformemente al Nuovo Testamento e secondo la più antica tradizione della Chiesa, la missione specifica del sacerdote consiste nell’annunciare, con rendimento di grazie, la morte e risurrezione del Signore alla famiglia di Dio radunata per celebrare l’Eucaristia; consiste altresì nel glorificare il Dio uno e trino, nel rendere sempre presente l’evento salvifico del passato e nell’attualizzare il sacrificio di Gesù Cristo sulla croce in virtù del potere sacramentale conferitogli dalla consacrazione.

Ciò che il sacerdote realizza in virtù della sua autorità spirituale e sacramentale deve farlo proprio nella sua vita e nel suo ministero, e deve vivere quell’esortazione che il Vescovo gli ha rivolto nella consacrazione sacerdotale quando gli sono stati consegnati il ​​pane e il vino: “Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Sii consapevole di ciò che farai, imita ciò che celebrerai. Conforma la tua vita al mistero della Croce di Cristo Signore”. Al sacerdote viene così permanentemente ricordato che la croce e l’Eucaristia sono inscindibilmente legate non solo nella vita terrena di Gesù, ma anche nella sua propria vita quotidiana.

 

2. L’importante ruolo esistenziale dell’Eucaristia come sacrificio di Cristo e della Chiesa

L’importante ruolo esistenziale sia del sacerdote che presiede la celebrazione eucaristica, sia dei credenti che la celebrano viene espresso nella Costituzione del Concilio Vaticano Secondo sulla liturgia con l’idea del sacrificio. Nell’ottica del Concilio, celebrare l’Eucaristia significa essenzialmente offrire il sacrificio divino a Dio Padre nella celebrazione della Messa e unire ad esso il dono della propria vita. Questa è una visione dell’Eucaristia che negli ultimi decenni è stata sempre più messa in discussione, perché oggi prevale l’idea opposta che parlare dell’Eucaristia come sacrificio non metterebbe in luce il suo legame esistenziale con la vita, ma lo oscurerebbe. Ci sono sicuramente molte ragioni per le riserve diffuse oggi verso il concetto di sacrificio. Esse potranno essere superate solo se, parlando di “sacrificio” nell’Eucaristia e nel ministero sacerdotale al suo servizio, prendiamo coscienza dell’interpretazione fondamentalmente nuova del termine, radicata nella fede cristiana. È solo dal concetto di “sacrificio” che deriva l’importante ruolo esistenziale della celebrazione eucaristica, al quale Papa Benedetto XVI ha fatto riferimento con parole pregnanti nella sua Esortazione apostolica postsinodale “Sacramentum caritatis”: l’insistenza sul fatto che l’Eucaristia, in quanto sacrificio di Cristo, è anche sacrificio della Chiesa e del singolo credente, dice “tutta la densità esistenziale implicata nella trasformazione della nostra realtà umana afferrata da Cristo (cfr Fil 3,12)”[4]. Chi va a fondo della verità di questa affermazione non può assolutamente ritenere che il carattere sacrificale dell’Eucaristia appartenga alle reliquie obsolete della fede cristiana. Piuttosto, si convincerà che è possibile percepire ciò che di grande e di bello Cristo ci mostra e dona nell’Eucaristia, e che è possibile individuare il legame tra Eucaristia e vita, e l’importanza esistenziale del ministero sacerdotale al suo servizio, solo se rendiamo grazie per il sacrificio di Cristo e della Chiesa.[5]

 

a) L’Eucaristia come attualizzazione sacramentale del sacrificio di Cristo

La comprensione fondamentalmente nuova del termine cristiano di “sacrificio” appare evidente se facciamo una distinzione tra il concetto cristiano e l’interpretazione storico-religiosa generale di sacrificio. Secondo quest’ultima, vi è una netta separazione tra sacerdote che offre il sacrificio e offerta sacrificale; diversamente, nella morte in croce di Gesù, il sacerdote e l’offerta coincidono pienamente. Il sacrificio di Gesù sulla croce non è un’offerta materiale, ma è l’offerta di sé. Il vero e nuovo sacrificio di Gesù Cristo non consiste più nel dono di animali e cose a Dio, ma nel dono di sé che il Figlio fa al Padre per la salvezza degli uomini. Poiché, in Gesù, il pastore è diventato agnello, per mettersi dalla parte degli agnelli oppressi e tormentati, Gesù ha superato il culto veterotestamentario dei sacrifici animali. A Gesù non poteva bastare l’offerta a Dio di cose materiali − animali o prodotti della natura − come avveniva nel tempio di Gerusalemme. Nel dono di sé fatto da Gesù, i sacrifici animali del tempio sono sostituiti dal nuovo culto offerto da Cristo sulla croce al Padre, come sottolinea Papa Francesco nella sua Lettera apostolica sulla formazione liturgica del popolo di Dio: “Se non avessimo avuto l’ultima Cena, vale a dire l’anticipazione rituale della sua morte, non avremmo potuto comprendere come l’esecuzione della sua condanna a morte potesse essere l’atto di culto perfetto e gradito al Padre, l’unico vero atto di culto.”[6]

Nel nuovo culto, che consiste nel dono di sé fatto da Gesù Cristo per noi uomini, non c’è più un’offerta vicaria di sacrifici animali, ma un’offerta piena della propria vita. Il dono della vita è il sacrificio che Gesù ha fatto per offrirci il suo amore senza limiti. Guardando la croce di Gesù, il teologo russo-ortodosso Alexander Schmemann ha mostrato molto bene che il concetto cristiano di sacrificio è essenzialmente legato “non al peccato e al male, ma all’amore” ed è quindi “autorivelazione e autorealizzazione dell’amore”: “Non c’è amore senza sacrificio, perché l’amore come dono di sé all’altro, come dono della propria vita per l’altro, come piena obbedienza all’altro, è sacrificio.”[7]

Questa comprensione e questa esperienza del sacrificio dell’amore sulla Croce non può rimanere senza conseguenze per coloro che celebrano l’Eucaristia e specialmente per il sacerdote che la presiede. Di fatti, siamo coinvolti in questo amore di Cristo crocifisso tramite l’Eucaristia quale attualizzazione sacramentale del dono delle propria vita da parte di Gesù sulla croce, affinché noi stessi possiamo donare il nostro amore nella vita concreta. Celebriamo l’Eucaristia e così diventiamo noi stessi eucaristici. Avendo Gesù compiuto la sua vera Eucaristia sulla croce, l’Eucaristia non si limita ad essere un atto liturgico, ma vuole essere realizzata innanzitutto nella nostra esistenza. Nel suo libro su Gesù di Nazaret, Papa Benedetto XVI ha ricordato esplicitamente che la liturgia eucaristica vuole continuare nella vita di tutti i giorni e che quindi non può esserci una linea di demarcazione definitiva tra liturgia e vita: “ ‹Caritas›, la premura per l’altro, non è un secondo settore del cristianesimo accanto al culto, ma è radicato proprio in esso e ne fa parte. Nell’Eucaristia, nello ‹spezzare il pane›, la dimensione orizzontale e quella verticale sono collegate inscindibilmente.”[8]

Da questo legame tra Eucaristia e vita dipende anche il nucleo più profondo dell’Eucaristia come celebrazione cultuale. Poiché l’evento stesso della croce è culto, ovvero è il nuovo culto del dono di sé di Gesù Cristo che opera la riconciliazione, esso può anche diventare culto nella celebrazione dell’Eucaristia come attualizzazione sacramentale del sacrificio di sé che Gesù Cristo ha offerto sulla croce una volta per tutte, e come dono del suo frutto salvifico alla comunità dei fedeli riuniti nel culto divino. Più precisamente, l’Eucaristia è commemorazione nel senso di attualizzazione sacramentale del sacrificio di Gesù Cristo sulla croce, così come confessiamo nella preghiera, soprattutto nella terza preghiera eucaristica: “Celebrando il memoriale della passione redentrice del tuo Figlio, della sua mirabile risurrezione e ascensione al cielo, nell’attesa della sua venuta nella gloria, ti offriamo, o Padre, in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e santo”. E lo diciamo con chiarezza ancora maggiore nella prima preghiera eucaristica: “memores igitur offerimus” – “celebriamo… e offriamo”. Commemorando, nella celebrazione eucaristica, il sacrificio di Gesù Cristo sulla croce, questo sacrificio si attualizza, e noi siamo condotti al suo interno in modo tale che la nostra stessa vita diventi eucaristica. L’Eucaristia vuole infatti trasformare coloro che vi partecipano. In forza dell’Eucaristia, possiamo e dobbiamo imparare continuamente cosa significa vivere come cristiani e soprattutto vivere come sacerdoti, ovvero come persone che sono radicate così profondamente in Cristo crocifisso e risorto attraverso l’Eucaristia da potersi offrire agli altri quali ostie viventi nel quotidiano, e da poter trasformare la propria vita quotidiana in un’unica preghiera eucaristica, come ha affermato san Francesco d’Assisi con parole molto belle.

Lasciare che la propria vita si trasformi nell’Eucaristia, affinché diventi eucaristica, è una sfida particolare per il sacerdote che è al servizio dell’attualizzazione sacramentale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Al sacerdote è dunque richiesto uno speciale “sacrificio”. Questo consiste nel rinunciare al proprio io o almeno nel limitarlo. Poiché il sacerdote non può parlare in nome proprio nell’evento sacramentale dell’Eucaristia, ma solo con l’Io di Cristo, il servizio sacerdotale all’Eucaristia richiede una profonda abnegazione del sacerdote, che prende a modello l’affermazione di Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Solo immergendosi profondamente in Cristo, il sacerdote può offrire sé stesso come umile immagine e strumento di Cristo, rendendolo accessibile ai sensi dei fedeli come “il Signore che è invisibilmente presente e operante nella sua comunità”[9], così che Cristo possa portare agli uomini la salvezza. Proprio nell’Eucaristia, il ministero sacerdotale è un puro riferimento iconografico e una trasparenza mediatrice verso Cristo.

Il sacerdote lo ricorda anche indossando i paramenti liturgici, che incorporano la soggettività della persona del sacerdote nel suo compito sacramentale. Lo obbligano a svolgere il suo ministero in modo tale che Cristo possa apparire nell’Eucaristia e lui non sia tentato di servire l’ “epifania” del proprio Io nel suo servizio liturgico. Il sacerdote deve essere consapevole che proprio nella celebrazione dell’Eucaristia egli è vicario di Cristo, cioè solo vicario, ma vicario di Cristo stesso. L’alta dignità di rappresentare Cristo nel sacramento e di agire “in persona Christi” deve andare di pari passo con l’umiltà di essere suo vicario.

 

b) L’Eucaristia come sacrificio della Chiesa

In sintesi, il servizio liturgico del sacerdote consiste nel fatto che l’Eucaristia possa essere vissuta come attualizzazione sacramentale del sacrificio di Gesù Cristo sulla croce. Come tale, però, è anche realmente un sacrificio della Chiesa stessa, ovvero un’adorazione e glorificazione di Dio piena di gratitudine, in memoria delle sue grandi opere. Con questo sacrificio, la Chiesa, sotto la guida del sacerdote, professa la sua disponibilità a lasciarsi coinvolgere, come Corpo di Cristo, nel sacrificio di Cristo e a intendere il sacrificio di sé stessa nell’obbedienza come sua sposa – così come Maria ha dovuto dire di sì alla morte di Gesù sulla croce. La Chiesa non solo offre il sacrificio di Cristo, ma deve diventare essa stessa un’offerta, secondo le parole della Preghiera eucaristica, e in particolare della quarta: “Guarda con amore, o Dio, il sacrificio che tu stesso hai preparato per la tua Chiesa; e a tutti coloro che parteciperanno a quest’unico pane e a quest’unico calice, concedi che, riuniti in un solo corpo dallo Spirito Santo, diventino offerta viva in Cristo, a lode della tua gloria.”

La Chiesa – è vero − non offre a Dio altro dono che quello che lui stesso le ha preparato. Davanti a un dono così prezioso, però, ci rendiamo conto che non possiamo rimanere al di fuori dell’offerta di questo dono, ma che siamo invitati e esortati a lasciarci coinvolgere personalmente in essa, diventando noi stessi “un’offerta viva in Cristo, a lode della sua gloria”. Nella preghiera eucaristica chiediamo quindi a Dio che il sacrificio di Gesù Cristo, che celebriamo sacramentalmente nell’Eucaristia, non sia semplicemente qualcosa di esterno a noi e che non ci appaia meramente come un’offerta materiale, simile ai sacrifici dei tempi antichi e di altre religioni. Se così fosse, non avremmo osato fare il passo decisivo verso ciò che è tipicamente cristiano. Chiediamo a Dio che l’offerta di sé fatta da Cristo a Dio e agli uomini, che celebriamo nell’Eucaristia, diventi qualcosa di interiore e che noi stessi possiamo essere trasportati nel flusso dell’amore di Gesù che si dona agli altri. In altre parole: chiediamo a Dio che noi stessi diventiamo come Cristo e con Cristo Eucaristia, e così graditi a Dio e disponibili verso gli uomini. Dalla celebrazione sacramentale che attualizza il dono di Gesù sulla croce deriva infatti il dono di sé della comunità cristiana che celebra l’Eucaristia e del sacerdote che la presiede. Il fine dell’Eucaristia è “l’offerta di tutto il Cristo, capo e membra”, ovvero “l’offerta di noi stessi con Lui, la partecipazione al dono di sé fatto da Gesù Cristo, il dono di sé da parte della comunità, della Chiesa come ostia viva nella quotidianità del mondo”[10].

Tutto ciò facilita una comprensione genuinamente biblica del concetto di sacrificio. Con “sacrificio” si intende prima di tutto la kenosi di Dio e il dono che egli fa di sé a noi uomini. L’essenza del sacrificio è che Dio stesso ci dona ciò che poi noi gli doniamo; di conseguenza, nel sacrificio l’iniziativa viene tutta da Dio. In questo senso fondamentale, Cristo non è in primo luogo un dono che potremmo o dovremmo offrire a Dio nell’Eucaristia. La prima offerta è già opera dell’amore di Dio, che ci ha dato suo Figlio. Noi quindi non facciamo altro che restituire Cristo a Dio, Padre celeste, nell’Eucaristia. Questo concetto di sacrificio è stato espresso anche nel canone romano fin dai tempi antichi, quando si afferma: “offriamo alla tua maestà divina, tra i doni che ci hai dato, la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna, calice dell’eterna salvezza.” Al movimento discendente del dono che Dio fa a noi uomini segue dunque il movimento inverso di ascesa da noi uomini a Dio e il dono di noi stessi che a lui offriamo. Ecco perché la prima frase della spiegazione biblica del sacrificio, ovvero che Dio dona affinché noi possiamo donare, è subito seguita dalla seconda frase, nella quale si sostiene che noi uomini doniamo realmente, o meglio restituiamo ciò che Dio ci ha donato, e benediciamo ciò con cui Dio ci ha benedetti. Questa dimensione della comprensione cristiana del sacrificio è già presente nella pietà dei Salmi e dei profeti, ad esempio nell’intuizione secondo cui uno spirito contrito è il vero sacrificio davanti a Dio, le nostre preghiere possono salire come incenso verso Dio, e la preghiera rivolta a Dio conta più di mille arieti.

Basandosi su questa pietà dell’Antico Testamento, in cui le preghiere di lode e di ringraziamento, le berakhot, hanno una grande importanza, la Chiesa primitiva ha ravvisato il nucleo essenziale dell’Ultima Cena di Gesù nella berakha-eucharistia, da cui è emerso più tardi il canone della messa romana, che è nato interamente dalla preghiera di Israele e dalla preghiera di Gesù e che ci invita a restituire a Dio nella lode eucaristica ciò che abbiamo ricevuto da lui, ovvero a rendere tutto eucaristico[11]. Per permettere alla Chiesa di restituire se stessa a Dio, l’Eucaristia deve essere al centro della vita e dell’opera del sacerdote ed egli stesso deve vivere come persona eucaristica. Per questo ha bisogno di una “cultura eucaristica della vita”, descritta da Karl Hillenbrand con le seguenti parole: “L’Eucaristia è ‘il punto centrale’ degli avvenimenti quotidiani che tiene insieme la ‘ruota del tempo’, il punto di riferimento a cui tutte le azioni individuali del sacerdote sono orientate e solo in virtù del quale esse diventano possibili e sensate.”[12]

 

c) L’offerta della Chiesa come sacrificio

La preghiera eucaristica, che il sacerdote presiede e guida, è un sacrificio della Chiesa, nel senso che è l’entrare della Chiesa nella preghiera di Gesù Cristo, è l’unione della Chiesa con il Figlio e con il consegnarsi del Figlio al Padre, un consegnarsi che, sulla croce, è diventato anche il consegnarsi dell’umanità a Cristo. Cristo stesso, di fatti, è la vera offerta, che rende anche noi offerte nel renderci simili a Dio e nell’unirci a Dio. In tal senso, è Cristo stesso che si sacrifica nell’Eucaristia per noi, in noi e con noi; noi, invece, diventiamo un sacrificio, e più precisamente il “sacrificium amoris”, perché lasciamo che Cristo ci trasporti dentro il movimento verso Dio e quindi nel “sursum corda”, che è l’atteggiamento di fondo caratteristico della celebrazione eucaristica. La comunione con Dio e con il prossimo è il fine ultimo del sacrificio dell’Eucaristia. Che il sacrificio abbia una “funzione creatrice di unità”[13] è l’idea di fondo della comprensione dell’Eucaristia da parte di Agostino nella sua grande opera “La città di Dio”[14], in cui osserva in maniera significativa: “Vero sacrificio è ogni opera con cui ci si impegna a unirci in santa comunione a Dio.”[15]

La comunione con Dio si stabilisce più intensamente e più intimamente nell’Eucaristia. In essa avviene la trasformazione dell’uomo peccatore e auto-centrato in un uomo conformato a Dio. L’uomo si conforma a Dio quando diventa amore. Ma l’amore è vero solo quando conduce noi uomini a Dio e ci orienta così verso il nostro vero obiettivo, perché l’unità tra gli esseri umani può avvenire soltanto se diventiamo una sola cosa e se entriamo in comunione con Dio. Al riguardo, Agostino ci offre un’ulteriore descrizione di cosa sia il sacrificio nella concezione cristiana della fede: “tutta la città redenta, cioè l’assemblea comunitaria dei santi, viene offerta a Dio come sacrificio universale per la mediazione del sacerdote grande che nella passione offrì anche se stesso per noi”[16].

Qui risiede il motivo per cui possiamo celebrare l’Eucaristia solo in comunione con tutta la Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi, come sottolineiamo nella Preghiera eucaristica con la triplice affermazione della comunione universale della Chiesa. Il “memento ecclesiae” riguarda innanzitutto la comunione di tutta la Chiesa viva, e la sua unità visibile ed esprimibile con il Vescovo locale e con il Vescovo di Roma come Papa della Chiesa universale. La menzione dei nomi del Vescovo locale e del Papa nella preghiera eucaristica esprime concretamente il fatto che si celebra davvero l’unica Eucaristia, il che è possibile soltanto nella Chiesa “una”. La menzione del Vescovo locale e del Papa è “espressione della communio, solo nella quale la singola celebrazione eucaristica ha senso per sua intima natura”[17]. Nel “memento sanctorum” esprimiamo la nostra convinzione di fede secondo cui la celebrazione dell’Eucaristia fin da ora ci dona fiducia nella piena realizzazione della partecipazione alla risurrezione di Gesù Cristo, che però potrà giungere a compimento soltanto nella comunione dei santi già realizzata nei cieli. Infine, nel “memento mortuorum” sono inclusi anche tutti i defunti, perché invochiamo per loro la misericordia di Dio e l’accoglienza nella gloria del Padre.

Memento ecclesiae, memento sanctorum e memento mortuorum: con questo triplice memento, da intendersi più precisamente come “attualizzazione, in termini di parola, della comunione eucaristica e della comunione di sacrificio che vanno oltre il tempo e lo spazio”[18], viene espressa nella lingua liturgica l’unità inscindibile tra comunione ecclesiale e comunione eucaristica, nei confronti della quale il sacerdote ha una responsabilità speciale. Il sacerdote deve adoperarsi affinché l’Eucaristia sia realmente celebrata come sacramento ecclesiale, affinché la comunione ecclesiale possa essere vissuta nel senso più profondo come comunione eucaristica e affinché l’ecclesiologia eucaristica riscoperta dal Concilio Vaticano Secondo sia realmente presente nella coscienza di fede dei battezzati. Tale ecclesiologia afferma che il “Corpo di Cristo”, come dono eucaristico, e il “Corpo di Cristo”, come comunione ecclesiale, formano un unico sacramento indissolubile, che la Chiesa è, nella sua più intima natura, un’assemblea eucaristica, e che, di conseguenza, Chiesa è soprattutto là dove viene celebrata l’Eucaristia.

Paolo ha colto in modo particolarmente profondo il nesso inscindibile e vitale tra la comunione eucaristica e la comunione ecclesiale. Per tale legame ha trovato un’espressione pregnante nel capitolo decimo della prima Lettera ai Corinzi, usando il termine “Corpo di Cristo” sia per l’offerta eucaristica sia per la comunione ecclesiale: “il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1 Cor 10,16-17). Quanto sia importante per Paolo il legame inscindibile tra Eucaristia e comunione ecclesiale emerge soprattutto dal fatto che, differenziandosi da tutti gli altri racconti neotestamentari sull’Ultima Cena, egli dà un ordine diverso alle parole pronunciate da Gesù sul pane e sul calice, e più precisamente antepone le parole sul calice alle parole sul pane. La ragione di questa collocazione lampante e intenzionale non può che risiedere nella volontà di Paolo di chiarire ulteriormente il collegamento tra Eucaristia e comunione ecclesiale. Egli passa direttamente dal “Corpo di Cristo”, a cui il fedele prende parte grazie al pane eucaristico, al “Corpo di Cristo” che è la Chiesa. Evidenzia così il fatto che la Chiesa si edifica mediante l’Eucaristia e che l’unità dei tanti credenti nell’unica Chiesa viene dall’unico pane eucaristico e quindi dall’unico Cristo: poiché Cristo è uno, anche il pane eucaristico è uno solo; e poiché i credenti entrano in comunione con l’unico Cristo attraverso questo unico pane, la Chiesa non può che essere una.

L’enfasi posta da Paolo sulla dimensione ecclesiale dell’Eucaristia continua naturalmente anche con i Padri della Chiesa. Ciò vale soprattutto per Agostino, che coglie così profondamente il legame vitale tra Eucaristia e Chiesa da riassumerlo nella pregnante espressione: “Se voi siete il Corpo di Cristo e le sue membra, allora il vostro stesso mistero è posto sulla mensa eucaristica…Voi sarete ciò che vedete e riceverete ciò che siete.”[19] Per Agostino, l’Eucaristia è dunque “segno di unità e vincolo di amore”[20]. Similmente, Papa Leone Magno afferma: “Passiamo in ciò che riceviamo.”[21] Questo rende perfettamente chiaro che la corporeità del sacramento eucaristico non può essere separata dalla corporeità della communio ecclesiale senza dissolvere sia la Chiesa che il sacramento eucaristico. In ciò risiede il senso profondo dell’espressione usata nella tradizione cattolica romana – “comunione”– quando si riceve il dono eucaristico. Di fatti, la Chiesa nasce ed esiste perché Cristo risorto si comunica agli uomini, entra in comunione con loro e li conduce così alla comunione gli uni con gli altri.

Il compito speciale del sacerdote è rendere visibile ed esperibile il mistero della communio, ovvero il fatto che la Chiesa proviene e nasce continuamente dall’Eucaristia, e che nella comunità eucaristica concreta la Chiesa è pienamente presente, ma non è presente l’intera Chiesa, la quale è piuttosto una rete mondiale di comunità eucaristiche. Per poter assolvere tale compito in modo credibile, il sacerdote deve considerarsi rappresentante e garante della cattolicità della Chiesa ed essere consapevole che il suo presiedere l’Eucaristia e il suo ruolo di guida della comunità sono inscindibilmente legati. Proprio perché presiede l’Eucaristia, il sacerdote è anche il pastore del popolo di Dio, ed è più intensamente impegnato nella guida della comunità quando presiede l’Eucaristia. Il compito di guidare la comunità non va inteso in senso secolare come “amministrare ciò che è a disposizione”, ma in senso sacramentale come “riportare nuovamente la vita ecclesiale della comunità al fondamento che non si trova più nella comunità”[22]. Il sacerdote, quale pastore della sua comunità, è consacrato sacramentalmente per mostrare che il vero capo della Chiesa e di ogni comunità è Cristo risorto, e che di conseguenza la Chiesa dipende da Cristo e ha in lui il vero punto di riferimento della sua unità. Il segno sacramentale della consacrazione sacerdotale mostra che ciò che è decisivo nella Chiesa viene da Cristo, e indica così l’extra nos dell’Eucaristia: “Il fatto che l’Eucaristia richieda il sacramento del ministero sacerdotale si basa proprio sul fatto che la comunità non può darsi l’Eucaristia da sola; essa deve riceverla dal Signore con la mediazione dell’unica Chiesa.”[23] In questo senso, il sacerdote è, nella sua persona, il costante e permanente ricordo che la Chiesa ha il suo fondamento solo in Gesù Cristo e che Egli ha il primato su tutte le cose (cfr. Col 1,18).

 

d) L’Eucaristia come sacrificio di santificazione

Per mantenere viva la consapevolezza di questo fondamento cristologico della Chiesa e dell’Eucaristia nella coscienza di fede della comunità e, prima di tutto, del sacerdote, la pratica dell’adorazione eucaristica risulta particolarmente utile. La convinzione, da essa implicata, che la presenza eucaristica di Gesù Cristo durerà per sempre, anche dopo la fine della celebrazione liturgica, contiene la bella promessa che l’attualizzazione sacramentale di Gesù Cristo non sia primariamente, e certamente non esclusivamente, ai fini di un servizio liturgico, ma sia soprattutto per il bene della Chiesa. Poiché Cristo si dona alla sua Chiesa nell’Eucaristia, in quanto la sua presenza trova nei segni del pane e del vino una forma concreta e percepibile dai sensi, non si capisce perché la sua presenza non dovrebbe rimanere fin tanto che sono presenti i segni eucaristici nella Chiesa. Nei doni eucaristici l’Eucaristia continua a vivere come cristallizzata, anche quando la liturgia come momento di celebrazione è terminata.

Non può quindi esserci contrapposizione tra la comunione nell’Eucaristia e l’adorazione eucaristica. Piuttosto, esse si completano e si supportano a vicenda. La comunione vuole andare infatti oltre sé stessa: da un lato, nella comunicazione quotidiana dei cristiani tra loro e, dall’altro, nella comunicazione personale del singolo cristiano con Cristo, che trova il suo culmine nell’adorazione eucaristica. L’adorazione eucaristica, correttamente intesa, è il proseguimento e lo sviluppo di quanto avviene nell’Eucaristia, e insieme la preparazione e l’iniziazione spirituale alla celebrazione eucaristica, come ha sottolineato Agostino affermando esplicitamente che nessuno può mangiare la carne eucaristica senza prima averla adorata: “Nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoravit.”[24] La celebrazione dell’Eucaristia può raggiungere la sua grandezza e la sua forza nella vita di fede dei fedeli e nel ministero sacerdotale solo nello spirito dell’adorazione, perché questa ci ricorda che la stessa celebrazione eucaristica è il più grande atto di adorazione della Chiesa.

La pratica dell’adorazione eucaristica, che è un aspetto essenziale della cultura eucaristica del sacerdote, ci ricorda anche che l’adorazione di Dio è proprio la dimensione che più strettamente collega la liturgia terrena della Chiesa alla liturgia celeste dell’Agnello. Nulla di ciò che celebriamo nella liturgia della Chiesa ha un carattere così profetico ed escatologico come l’adorazione eucaristica. Essa anticipa quanto promesso nella Gerusalemme celeste per l’eternità, come osserva magnificamente Raniero Cantalamessa: “La consacrazione e la comunione cesseranno, ma non finirà mai la contemplazione dell’Agnello immolato per noi. È proprio ciò che fanno i santi in cielo (cfr. Ap 5,1ss). Quando ci inginocchiamo davanti al tabernacolo, ci uniamo fin da ora al coro della Chiesa di quel mondo: loro davanti all’altare, noi dietro l’altare; loro in visione, noi in fede.”[25]

Quanto più sperimentiamo come sacerdoti che l’Eucaristia anticipa l’inno di lode escatologico del mondo intero e che, nell’Eucaristia, la liturgia celeste si estende nella liturgia della Chiesa, tanto più prendiamo coscienza della profondità del nostro servizio sacerdotale all’Eucaristia, ricordatoci da un’importante figura di sacerdote. Il famoso teologo francese Marc Oraison fu prima medico e in seguito divenne sacerdote. Nelle sue memorie racconta qual è stato il suo cammino da medico a sacerdote. Come chirurgo egli conobbe diversi successi nella lotta contro la malattia e la morte. Eppure prese sempre più coscienza dei limiti dell’arte medica e del suo potere. Davanti all’insormontabilità della morte e alla capitolazione della medicina, si sviluppò sempre di più in lui il desiderio di rendere presente la risurrezione di fronte alla morte, ovvero di celebrare la Santa Messa. Per lui diventare sacerdote non significò dire addio a ciò che in realtà voleva come medico, ovvero poter offrire alle persone una risposta credibile e consolante davanti alla morte. Oraison trovò questa risposta nella fede nella risurrezione di Gesù Cristo, a cui noi prendiamo parte come battezzati e che celebriamo nell’Eucaristia. Non è quindi un caso che all’Eucaristia venne dato ben presto il bel nome di “pharmakon athanasias”, rimedio dell’immortalità, e che un importante titolo onorifico attribuito a Gesù Cristo nell’antichità fosse “medico”.

Ecco la definizione più bella dell’identità del sacerdote: il suo servizio terapeutico consiste nell’essere testimone della Risurrezione e nel compiere la terapia divina. Se il servizio sacerdotale dell’Eucaristia è soprattutto un servizio di guarigione e di santificazione, allora, quando gettiamo uno sguardo all’Eucaristia, si dischiude un’ulteriore dimensione del concetto cristiano di sacrificio. “Sacrificium” significa letteralmente “consacrato”. Nell’Eucaristia, dunque, si realizza la preghiera che Gesù rivolse al Padre alla vigilia della sua passione per i discepoli di tutti i tempi: “Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17,17-19). Secondo questa preghiera di Gesù, “consacrare se stessi” può essere tradotto come “sacrificare se stessi”, e “sacrificare se stessi” in definitiva non significa altro che consacrarsi. Chi viene consacrato nell’Eucaristia, perché si lascia condurre dentro il sacrificio di Gesù Cristo, assume seriamente la responsabilità di portare la santificazione eucaristica nella vita quotidiana. L’Eucaristia, infatti, non può limitarsi ad essere un atto liturgico, ma deve trasformarsi in amore e santificazione nel quotidiano.

Se l’amore è in definitiva l’unico culto gradito a Dio, si comincia anche a comprendere perché la tradizione biblica applichi già un linguaggio cultuale-eucaristico all’esistenza cristiana nella vita quotidiana e, viceversa, consideri la missione della Chiesa e del liturgista nel mondo come frutto dell’Eucaristia. Il fatto che il vero sacrificio consista nel dono di sé incondizionato a Dio, nella fiducia in Dio e nella preghiera ci è stato suggerito nel Nuovo Testamento con l’idea del sacrificio della parola, la “logike latreia”. Paolo esorta i cristiani di Roma a offrire sé stessi “come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”; è questo il vero “culto spirituale” (Rm 12,1). La stessa convinzione si ritrova nella Lettera agli Ebrei: “Per mezzo di lui [Cristo] dunque offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome. Non dimenticatevi della beneficenza e della comunione dei beni, perché di tali sacrifici il Signore si compiace” (Ebrei 13,15-16). Il rendimento di grazie come sacrificio è dunque il vero culto, che abbraccia tutta la vita del cristiano, prima ancora che si realizzi nel culto liturgico in senso stretto.

 

3. La vita sacerdotale come un diventare Eucaristia

Solo così l’Eucaristia è il centro della Chiesa e il cuore della vita cristiana.[26] Tutta la vita e tutta l’attività cristiana emanano da questo cuore della Chiesa e vi rifluiscono di nuovo. Poiché nella celebrazione dell’Eucaristia sperimentiamo più intensamente l’amore sconfinato di Gesù Cristo, che ha donato la propria vita fino al sacrificio della croce, l’Eucaristia è anche la grande scuola dell’amore. L’amore eucaristico conduce quindi, come naturale conseguenza, al divenire eucaristico della vita, che vuole compiersi anche nell’esistenza del sacerdote. Chi entra nella sequela di Gesù e chi presiede addirittura in nome suo l’Eucaristia diventa partecipe del mistero pasquale dell’amore sanguinante di Gesù sulla croce.

Ciò mostra con particolare chiarezza il motivo della risposta data da Gesù ai figli di Zebedeo, che gli chiedevano di farli sedere alla sua destra e alla sua sinistra nella sua gloria. Gesù spiega loro inequivocabilmente che questo sedere nella gloria del cielo è legato solo al compimento della volontà di Dio, e menziona il calice e il battesimo come requisiti fondamentali di ammissione al suo discepolato: “Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?” (Mc 10,38). Le parole-chiave della risposta di Gesù – calice, battesimo e dunque amore – mettono in luce che la sequela di Gesù è una categoria cristologica fondamentale. La sequela di Gesù in generale, e in modo particolare quando avviene nel sacerdozio, è sempre legata al mistero della Pasqua e non è certo una passeggiata domenicale. Essa implica infatti la diponibilità ad “essere un Simone di Cirene sulla via crucis di Gesù in tutti i secoli della storia”[27].

Portare insieme la croce mantiene viva la convinzione che non un cristianesimo e un sacerdozio privi di croce siano la norma, ma un cristianesimo e un sacerdozio con la croce, conformemente a quanto ha dovuto sperimentare la Chiesa più volte fin dal suo inizio. Una eloquente testimonianza di questo ci è già offerta nella prima lettera di Giovanni, che ricorda al suo destinatario: “Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi” (1 Gv 5,6-8). A primo impatto, queste parole sembrano molto enigmatiche. Le si possono capire solo sullo sfondo del racconto della passione nel Vangelo di Giovanni, dove si legge che sangue e acqua sgorgavano dalla ferita sul costato di Gesù crocifisso (Gv 19,34). Per Giovanni, il sangue e l’acqua sono immagini dei due sacramenti fondamentali della Chiesa, il battesimo e l’Eucaristia. Giovanni suggerisce così che i sacramenti del battesimo e dell’Eucaristia, e quindi la Chiesa stessa, provengono dalla croce di Gesù. Giovanni si schiera in modo polemico contro un cristianesimo che vuole riconoscere solo il battesimo di Gesù e il battesimo dei cristiani come evento salvifico, e che cancella dalla coscienza della fede la morte in croce di Gesù e la sua attualizzazione nell’Eucaristia. Giovanni ha a che fare con un cristianesimo che vuole solo l’acqua del battesimo, ma non il sangue dell’Eucaristia e quindi della croce di Gesù. Del cristianesimo resta solo l’acqua; il cristianesimo, così, è un cristianesimo diluito o addirittura sbiadito, incolore.

Chi potrebbe o vorrebbe in tutta onestà negare che anche il cristianesimo di oggi sia costantemente minacciato dal rischio che il miracolo di Cana venga capovolto? Mentre Gesù trasformò l’acqua in vino nelle nozze di Cana, oggi nella Chiesa vi sono tendenze inverse, che vorrebbero trasformare di nuovo in acqua il vino torchiato nella passione di Gesù. Al contrario, Giovanni insiste con penetrante chiarezza sul fatto che l’acqua e il sangue, il battesimo e l’Eucaristia, la sequela e la croce sono inscindibilmente legati. La Chiesa è sempre Chiesa che nasce dall’acqua e dal sangue.

Assicurarsi che l’importanza dell’Eucaristia rimanga viva nella coscienza di fede del battezzato fa parte dei compiti particolari del sacerdote e del suo servizio reso all’Eucarestia. Per poter assolvere in modo credibile tale missione, il sacerdote deve frequentare sempre la scuola di vita e di fede dell’Eucaristia. Questa scuola non finisce mai, neppure se siamo sacerdoti. L’Eucaristia è e rimane un programma che dura tutta la vita. Da un lato, come sacerdoti dobbiamo imparare ogni giorno di nuovo a celebrare e a vivere l’Eucaristia; dall’altro, l’Eucaristia stessa ci insegna a vivere rettamente come sacerdoti. Vivere come sacerdoti la forma di vita eucaristica significa essere e diventare sempre più persone eucaristiche che, nel loro servizio ministeriale al grande rendimento di grazie della Chiesa, riempiono il loro cuore di gratitudine e offrono con la loro vita una testimonianza credibile del dono prezioso dell’Eucaristia. Allora l’Eucaristia potrà mostrarsi davvero – ed essere così percepita dai battezzati – come fonte e culmine della vita sacerdotale.

 

[1] Sacrosanctum concilium, n. 10.

 

 

[2] H. de Lubac, Méditation sur l´Église (Paris 1953) 103.

 

 

[3] Sacrosanctum concilium, n. 10.

 

 

[4] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 70.

 

 

[5] Vgl. K. Koch, Eucharistie als Liturgie und Leben. Versuch einer mystagogisch-existenziellen Erschliessung, in: Rivista Teologica di Lugano XIV (2009) 399-433.

 

 

[6] Francesco, Desiderio desideravi, n. 7.

 

 

[7] A. Schmemann, Eucharistie. Sakrament des Gottesreiches (Einsiedeln 2005) 273.

 

 

[8] J. Ratzinger- Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione (Città del Vaticano 2011) 147-148.

 

 

[9] M. Kunzler, Bild Christi. Ostkirchliche Zugänge zum Priestersein, in: G. Augustin / J. Kreidler (Hrsg.), Den Himmel offen halten. Priester sein heute (Freiburg i. Br. 2003) 246-268, zit. 250.

 

 

[10] Th. Schneider, Zeichen der Nähe Gottes. Grundriss der Sakramententheologie (Mainz 1979) 168.

 

 

[11] Sul legame tra la berakha-eucharistia dell’Ultima Cena di Gesù e le preghiere eucaristiche della Chiesa cfr. L. Bouyer, Eucharistie. Théologie et spiritualité de la prière eucharistique (Tournai 1966).

 

 

[12] K. Hillenbrand, Die Liebe Christi drängt uns. Gedanken zum Dienst des Priesters (Würzburg 1992) 62.

 

 

[13] J. Lam C. Quy, Theologische Verwandtschaft. Augustinus von Hippo und Joseph Ratzinger / Papst Benedikt XVI. (Würzburg 2009) 71.

 

 

[14] Vgl. B. Studer, Das Opfer Christi nach Augustins „De Civitate Dei“ X, 5-6, in: G. J. Békés / G. Farnedi (Ed.), Lex orandi – lex credendi. Miscellanea in onore di P. Cipriano Vagaggini (Roma 1980) 93-107.

 

 

[15] Agostino, La città di Dio, X 6.

 

 

[16] Ibid.

 

 

[17] W. Kasper, Einheit und Vielfalt der Aspekte der Eucharistie. Zur neuerlichen Diskussion um Grundgestalt und Grundsinn der Eucharistie, in: Ders., Theologie und Kirche (Mainz 1987) 300-320, zit. 316.

 

 

[18] R. Messner, Einführung in die Liturgiewissenschaft (Paderborn 2001) 200.

 

 

[19] Agostino, Sermo 272.

 

 

[20] Agostino, In Joann. tr 26. c. b. n. 13.

 

 

[21] Zit. bei Th. Schneider, Wir sind sein Leib. Meditationen zur Eucharistie (Mainz 1977) 74.

 

 

[22] E.-M. Faber, Zur Frage nach dem Berufsprofil der Pastoralreferent(innen), in: Pastoralblatt für die Diözesen Aachen, Berlin, Essen, Hamburg, Hildesheim, Köln, Osnabrück 51 (1999) 110-119, zit. 114.

 

 

[23] J. Cardinal Ratzinger, Die Ekklesiologie der Konstitution Lumen gentium, in: Ders., Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio (Augsburg 2002) 107-131, zit. 123.

 

 

[24] Agostino, Enarrationes in Psalmos 98, 9.

 

 

[25] R. Cantalamessa, Die Eucharistie – unsere Heiligung (Köln 1998) 111.

 

 

[26] Vgl. K. Koch, Eucharistie. Herz des christlichen Glaubens (Freiburg / Schweiz 2005).

 

 

[27] J. Kardinal Ratzinger, Auf Christus schauen. Einübung in Glaube, Hoffnung, Liebe (Freiburg i. Br. 1989) 106.