IL SIGNIFICATO DEL PRIMO CONCILIO ECUMENICO
A NICEA NELL´ANNO 325 PER NOI OGGI

 

     Lezione durante l'incontro con i sacerdoti, religiosi e laici responsabili
dell'Arcidiocesi di Belgrado


27 ottobre 2022

 

 

1. Prospettive ecumeniche del Concilio di Nicea

Il movimento ecumenico non è una strada regale, che, larga e spaziosa, conduce direttamente a un lieto futuro. Oltre alla via principale, conosce strade secondarie, deviazioni e impasse. Certamente, sperimenta anche tempi particolarmente favorevoli. Un momento ecumenico memorabile sarà di sicuro l’anno 2025, quando tutta la cristianità celebrerà il 1700° anniversario del primo Concilio ecumenico  della storia della Chiesa, avvenuto nel 325 a Nicea. Questo importante evento presenta prospettive ecumeniche significative, già intuibili dal fatto che sia la Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio Ecumenico delle Chiese, sia il Patriarca ecumenico Bartolomeo I siano intensamente impegnati nei preparativi di tale ricorrenza. Quattro aspetti in particolare sono di forte rilevanza ecumenica.

a) La confessione cristologica comune

Il Concilio affrontò innanzitutto questioni dottrinali, come mostra in particolare la “Dichiarazione dei 318 Padri”, e più precisamente il credo che professa Gesù Cristo come Figlio di Dio, “consustanziale al Padre”. Naturalmente, questa formula può essere compresa soltanto alla luce della violenta disputa divampata nel cristianesimo in quel tempo, principalmente nella parte orientale dell’Impero Romano, una disputa che ruotava intorno alla questione di come conciliare la confessione di fede cristiana in Gesù Cristo quale Figlio di Dio con la fede altrettanto cristiana in un unico Dio. Tale diatriba testimonia che, all’inizio del IV secolo, la questione cristologica era diventata un “caso problematico del monoteismo cristiano”[1].

Soprattutto il teologo alessandrino Ario propugnava un rigido monoteismo conforme al pensiero filosofico del tempo, secondo il quale Cristo non può essere “Figlio di Dio” in senso proprio, ma solo un essere intermedio che Dio usa nel relazionarsi all’essere umano. Il Concilio di Nicea condannò aspramente questa posizione, come si legge nella sua lettera agli egiziani: “Si è deciso all’unanimità di condannare con anatema la sua dottrina contraria alla fede, le sue affermazioni e le sue descrizioni blasfeme, con le quali oltraggiava il Figlio di Dio.” Per dirimere la controversia ariana, i Padri conciliari rifiutarono quindi il modello del monoteismo strettamente filosofico propagato da Ario, confermando il credo secondo cui Gesù Cristo, come Figlio di Dio, è “consustanziale al Padre”. Questa confessione è diventata la base della comune fede cristiana, essendosi svolto il Concilio di Nicea in un’epoca in cui la cristianità non era stata ancora lacerata dai numerosi scismi che si sarebbero verificati in seguito.

Il credo cristologico di Nicea rappresenta una tappa importante, anche se non ancora definitiva, sulla via verso il grande credo di Nicea-Costantinopoli del 381. Di fatti, pur definendo la fede in Gesù Cristo, il Concilio di Nicea menzionò solo in termini generali la fede nello Spirito (“e nello Spirito Santo”). Soltanto con il Concilio di Costantinopoli si giunse a circoscrivere il contenuto della confessione di fede nello Spirito Santo e a formulare così il dogma della Divina Trinità come forma specificamente cristiana del monoteismo. Ma il simbolo di Costantinopoli è da intendersi come una formula vincolante della fede di Nicea, che trovò dunque la sua forma definitiva nel simbolo di Costantinopoli.

Questa confessione di fede non va sottovalutata nella sua importanza ecumenica, perché è condivisa non solo dalle Chiese orientali, dalle Chiese ortodosse e dalla Chiesa cattolica, ma è comune anche alle comunità ecclesiali nate dalla Riforma. Ciò è dimostrato anche e soprattutto dalla Confessio Augustana del 1530, che vede il suo credo radicato nelle decisioni conciliari della Chiesa primitiva e sostiene quindi che in esso non c’è nulla “che si discosti dalla Sacra Scrittura, dal credo della Chiesa universale e romana, come lo conosciamo dagli autori cristiani”[2]. Questa affermazione è di fondamentale rilevanza ecumenica, poiché il ripristino dell’unità della Chiesa richiede il consenso sul contenuto essenziale della fede, non solo tra le Chiese e le Comunità ecclesiali di oggi, ma anche tra la Chiesa di oggi e la Chiesa del passato e soprattutto la sua origine apostolica. Come ha sottolineato il teologo protestante Wolfhart Pannenberg, il credo niceno-costantinopolitano è legato in modo speciale “a una pretesa di validità nella Chiesa universale ed è stato accolto anche dalla Chiesa primitiva come vincolante per tutti i cristiani”[3]. Esso rappresenta quindi il vincolo ecumenico più forte della fede cristiana. Pertanto, è auspicabile che il 1700° anniversario del Concilio di Nicea venga celebrato congiuntamente da tutte le Chiese e le Comunità ecclesiali cristiane, e che la sua confessione cristologica venga riaffermata nella comunione ecumenica.

Occuparsi del Concilio di Nicea è importante non solo dal punto di vista storico. La sua confessione cristologica conserva anche e precisamente oggi la sua permanente attualità, sia nella situazione ecumenica sia all’interno della nostra Chiesa, dove lo spirito di Ario è tornato ad essere molto presente e dove è osservabile un forte risveglio delle tendenze ariane. Già negli anni ‘90, il cardinale Joseph Ratzinger ravvisava la vera sfida del cristianesimo contemporaneo in un “nuovo arianesimo” o, quantomeno, in un “nuovo nestorianesimo, abbastanza pronunciato”[4] Tali tendenze ariane si manifestano soprattutto nel fatto che diverse persone, persino tra i cristiani, sono sensibili a tutti gli aspetti dell’umanità di Gesù di Nazaret, ma hanno difficoltà nell’accogliere in pieno la fede cristologica della Chiesa, in quanto vedono come problematico il credo secondo cui questo Gesù è l’unigenito Figlio di Dio, presente in mezzo a noi come il Risorto. Anche nella Chiesa spesso non si riesce più a scorgere oggi il volto del Figlio di Dio nell’uomo Gesù, nel quale si riconosce soltanto un essere umano, seppur eccezionale e particolarmente buono.

In questa situazione in cui, anche nella cristianità odierna, dobbiamo costatare un’arianizzazione della fede in Cristo e, con essa, un inquietante svuotamento di significato della fede cristiana in Gesù come il Cristo nel quale Dio stesso si è fatto uomo, è urgente, per rinnovare la confessione cristologica, come ha sottolineato energicamente il cardinale Joseph Ratzinger, che la cristologia abbia il coraggio di “vedere Cristo in tutta la sua grandezza, come lo mostrano insieme i quattro vangeli nella loro dinamica unità”[5]. Dobbiamo quindi augurarci che il 1700° anniversario del Concilio di Nicea venga colto come un’occasione cairologica per riaffermare nella comunione ecumenica la sua confessione cristologica.

 

b) La questione cruciale della data di Pasqua

Oltre alla confessione cristologica, il Concilio di Nicea si occupò di questioni disciplinari e canoniche, che, presentate in venti canoni, offrono una buona panoramica dei problemi e delle preoccupazioni pastorali della Chiesa all’inizio del IV secolo. Si tratta di questioni che riguardano il clero, i conflitti giurisdizionali, i casi di apostasia e la situazione dei Novaziani, i cosiddetti “puri”, e dei seguaci di Paolo di Samosata.

La questione pastorale più importante e insieme più attuale è quella della data di Pasqua[6], che dimostra che la data di Pasqua era già controversa nella Chiesa primitiva e che quindi esistevano datazioni diverse: alcuni cristiani, soprattutto in Asia Minore, celebravano sempre la Pasqua in concomitanza con la Pesah ebraica il 14 del mese di nisan, indipendentemente dal giorno della settimana; per questo, sono stati chiamati quartodecimani. Altri cristiani, soprattutto in Siria e in Mesopotamia, celebravano invece la Pasqua la domenica successiva alla Pesah ebraica; a loro è stato quindi dato il nome di protopaschiti.

In questa difficile situazione, il merito del Primo Concilio Ecumenico di Nicea è aver trovato una regola uniforme in base alla quale: “Tutti i fratelli e le sorelle d’Oriente che fino ad oggi hanno celebrato la Pasqua con gli ebrei, d’ora in poi celebreranno la Pasqua in accordo con i romani, con voi e con tutti noi che l’abbiamo celebrata con voi fin dai primi tempi”. Benché gli atti originari di questo Concilio non esistano più, rapporti successivi documentano che esso impartì uno slancio decisivo alla ricerca di una data comune di Pasqua tra tutte le comunità cristiane dell’impero in quel momento, stabilendo come data per la celebrazione pasquale la domenica successiva al primo plenilunio di primavera. Poiché allo stesso tempo fu deciso che la Pasqua doveva essere celebrata dopo la festa della Pesah ebraica, venne però abbandonata la data comune di Pasqua tra cristiani ed ebrei.

Una nuova situazione si produsse nella storia del cristianesimo nel XVI secolo con la fondamentale riforma del calendario di Papa Gregorio XIII, che introdusse il calendario gregoriano, secondo il quale la Pasqua si celebra sempre la domenica successiva al primo plenilunio di primavera. La conseguenza di questa decisione è che, da allora, le Chiese in Occidente calcolano la data di Pasqua secondo tale calendario, mentre le Chiese in Oriente continuano a celebrare la Pasqua secondo il calendario giuliano, che era usato in tutta la Chiesa prima della riforma del calendario gregoriano e sul quale si era basato anche il Concilio di Nicea del 325.

Nel frattempo sono state proposte e discusse varie date per una celebrazione comune della Pasqua. La soluzione più semplice sarebbe senza dubbio prendere come giorno della morte di Gesù il 7 aprile 30, in modo che la Pasqua venga sempre celebrata la seconda domenica di aprile. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese ha proposto di celebrare la Pasqua la domenica successiva al primo plenilunio di primavera; in tal caso, la città di Gerusalemme dovrebbe essere il punto di riferimento per il calcolo del plenilunio. Un altro suggerimento degno di nota è quello del Patriarca Ecumenico Meletios IV (1921-1923), che riconosce e accoglie la precisione del calendario gregoriano e allo stesso tempo rispetta la data di Pasqua stabilita dalla Chiesa primitiva. Il calendario meleziano è quindi, almeno a prima vista, identico al calendario gregoriano, ma la data di Pasqua deve essere calcolata come se fosse ancora in vigore il calendario giuliano.

La Chiesa cattolica ha commentato la questione della data della Pasqua nel Concilio Vaticano Secondo in un’appendice alla Costituzione sulla Sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium” adottata e promulgata nel 1963, “tenendo nel debito conto il desiderio di molti di veder assegnata la festa di Pasqua ad una determinata domenica e di adottare un calendario fisso”. Per definire un nuovo calendario vengono menzionati due criteri. In primo luogo, il Concilio si mostra disposto “a che la festa di Pasqua venga assegnata ad una determinata domenica nel calendario gregoriano”, a patto che “vi sia l’assenso di coloro che ne sono interessati, soprattutto i fratelli separati dalla comunione con la Sede apostolica”. In secondo luogo, il Concilio dichiara la propria disponibilità anche a “introdurre nella società civile un calendario perpetuo”, a condizione, ovviamente, che sia preservata e tutelata la settimana di sette giorni con la domenica.

La disponibilità a trovare una data comune della Pasqua, a condizione che tutte le Chiese cristiane siano d’accordo, esiste anche oggi. Papa Francesco si è espresso in questo senso, in varie dichiarazioni. La stessa disponibilità è stata affermata da leader di altre Chiese cristiane, tra cui il Papa Patriarca copto-ortodosso Tawadros II.

Il 1700° anniversario del Concilio di Nicea, che ricorre nel 2025, offre un’occasione speciale per riprendere questa tematica, tanto più che nel 2025 le Chiese in Oriente e in Occidente potranno nuovamente celebrare insieme la Pasqua nello stesso giorno, ovvero il 20 aprile. È dunque comprensibile che si sia risvegliato il desiderio di cogliere questo grande anniversario come un’opportunità per intensificare gli sforzi verso una comune Pasqua cristiana. L’anniversario del Concilio di Nicea, che ha formulato la confessione cristologica comune a tutti i cristiani, ci spinge a riflettere nuovamente anche sulla sua decisione relativa alla data di Pasqua, e a riconsiderarla nelle condizioni odierne.

Al riguardo, vorrei comunque sottolineare un’importante differenza tra la situazione attuale e l’epoca del Concilio. Nel IV secolo, l’allontanamento dall’ebraismo crebbe sempre più; anche alla luce di tale sviluppo, è quindi comprensibile che il legame temporale e successivamente anche contenutistico tra la Pasqua cristiana e la Pesah ebraica abbia potuto sciogliersi senza grossi problemi teologici. Oggi, invece, quando si cerca una data comune di Pasqua, bisogna assolutamente tener conto del legame con la Pesah ebraica. Non solo alla luce della difficile storia tra ebrei e cristiani, ma anche nella consapevolezza della centrale importanza dell’Antico Testamento nella ricca Liturgia della Parola nella celebrazione della Veglia Pasquale, sarebbe un segno negativo se le radici ebraiche della Pasqua venissero dimenticate quando oggi si affronta la questione del calendario.

Lo sforzo di trovare una data comune di Pasqua è un obiettivo pastorale importante, soprattutto per le coppie e per le famiglie di diverse confessioni e in vista della grande mobilità delle persone, in particolare durante le festività. Con una data comune di Pasqua, potrebbe essere espressa in modo ancora più credibile la profonda convinzione della fede cristiana che la Pasqua non è solo la festa più antica, ma anche la festa più importante della cristianità e che la fede cristiana sta o cade con il mistero pasquale, come la chiesa primitiva riassumeva questa convinzione fondamentale con la frase concisa: “Togli la risurrezione, e distruggi all’istante il cristianesimo.”[7] L’importanza fondamentale della Pasqua verrebbe messa in luce da una data comune, che impartirebbe anche un nuovo slancio al cammino ecumenico verso il ripristino dell’unità della Chiesa in Oriente e in Occidente nella fede e nell’amore.

 

c) La teoria e la prassi della sinodalità

Poiché nel Concilio di Nicea fu risolta la violenta disputa ariana intorno alla confessione cristologica e fu definita la questione pastorale-disciplinare della data di Pasqua, il Concilio testimonia anche il modo in cui vengono discusse e decise in maniera sinodale questioni controverse di fede e di disciplina nella Chiesa. Pertanto, il Concilio ha un’ulteriore importanza ecumenica, soprattutto quando si considera che vi si radunarono i primi servi di Dio “di tutte le Chiese di tutta Europa, Africa e Asia”, come riporta l’autore cristiano Eusebio di Cesarea, che fu uno dei padri conciliari e che vide nel Concilio di Nicea una nuova “Pentecoste”[8]. È quindi possibile ravvisare nel Concilio di Nicea, al livello della Chiesa universale, l’inizio della modalità sinodale di prendere decisioni nella Chiesa.

A ciò si riferisce già la parola stessa “sinodo”. “Sinodo” contiene i termini greci “hodos” (cammino) e “syn” (con), ed esprime il fatto che un cammino viene percorso insieme. Nell’accezione cristiana, la parola “sinodo” designa la via comune di coloro che credono in Gesù Cristo, il quale ha rivelato e chiamato se stesso “via”, e più precisamente “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). All’origine, la religione cristiana era quindi designata come “via” e i cristiani nella sequela di Cristo erano detti “seguaci della Via” (At 9,2). In questo senso, Giovanni Crisostomo poté affermare che Chiesa è un nome “che significa un cammino comune” e che, pertanto, Chiesa e sinodo sono “sinonimi”[9]. La parola “sinodalità” è quindi tanto antica e fondamentale quanto la parola “Chiesa”.

Il 1700° anniversario del Concilio di Nicea deve allora essere percepito anche come un invito e un’esortazione a trarre un’importante lezione dalla storia e ad approfondire oggi il pensiero sinodale nella comunione ecumenica, ancorandolo alla vita della Chiesa. Di fatti, anche l’ecumenismo avanza sulla via della ricomposizione dell’unità della Chiesa solo se viene portato avanti in maniera congiunta e, quindi, sinodale. Quanto fondamentale sia la sinodalità anche per l’impegno ecumenico è dimostrato chiaramente da due importanti documenti pubblicati di recente.

Alcuni anni fa, la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese ha pubblicato lo studio “La Chiesa verso una visione comune”, che mira a una visione multilaterale ed ecumenica della natura, dello scopo e della missione della Chiesa. Questo documento presenta la seguente affermazione ecclesiologica ecumenicamente comune: “Tutta la Chiesa è sinodale/conciliare a tutti i livelli della vita ecclesiale – locale, regionale e universale – sotto la guida dello Spirito Santo. Il mistero della vita trinitaria di Dio si riflette nel carattere sinodale o conciliare della Chiesa, e le strutture della Chiesa danno forma a questo carattere per realizzare la vita della comunità come comunione.”[10]

Questo punto di vista è condiviso anche dalla Commissione Teologica Internazionale nel suo documento programmatico “La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa”, dove si constata con gioia che il dialogo ecumenico è progredito sino al punto di riconoscere nella sinodalità una “dimensione rivelatrice della natura della Chiesa”, avvicinandosi alla “concezione della Chiesa come koinonia”, “che si attua in ogni chiesa locale e in relazione alle altre Chiese, attraverso specifiche strutture e processi sinodali”[11].

Entrambi i documenti presentano dimensioni essenziali della sinodalità della Chiesa, dimensioni che necessitano di essere approfondite. La necessità di illustrare e discutere in una prospettiva ecumenica la questione della sinodalità nella Chiesa cattolica è stata sottolineata da Papa Francesco nel 2015, durante il cinquantesimo anniversario della creazione del Sinodo dei Vescovi, istituito da Papa Paolo VI. In tale occasione, il Santo Padre ha affermato che intraprendere ed approfondire il cammino della sinodalità è ciò “che Dio aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”; il Papa ha anche espresso la sua convinzione che lo sforzo di edificare una Chiesa sinodale sia anche “gravido di implicazioni ecumeniche”[12]. Per concretizzare questa priorità nella vita della Chiesa, Papa Francesco ha avviato, al livello della Chiesa universale, il processo sinodale chiamato “Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione”, in cui anche la dimensione ecumenica svolgerà un ruolo di grande rilievo, come si legge nel “Vademecum del Sinodo”: “Il dialogo tra cristiani di diverse confessioni, uniti da un unico battesimo, occupa un posto speciale nel cammino sinodale”[13].

Nel riconoscere l’importanza fondamentale e innovatrice della sinodalità nella Chiesa, occorre tuttavia non idealizzarla, come suggerisce anche e soprattutto uno sguardo al contesto storico del Concilio di Nicea. Ciò traspare con particolare evidenza nella risposta data nel IV secolo da Gregorio di Nazianzo, quando, invitato dall’imperatore a partecipare al I Concilio di Costantinopoli, sostenne: “A dire il vero, credo che si debba fuggire da ogni Concilio di vescovi, poiché non ho mai conosciuto un esito positivo in un Concilio”. Gregorio pronunciò queste parole per i cattivi ricordi che aveva del Concilio di Nicea del 325 e soprattutto del tempo successivo al Concilio, che fu segnato da un grande caos. Un amico di Gregorio, San Basilio, famoso vescovo di Cesarea, paragonò addirittura la situazione postconciliare a una battaglia navale notturna, in cui tutti si battono contro tutti, e osservò che, a seguito delle controversie conciliari, regnavano nella Chiesa “uno spaventoso disordine, una confusione” e “chiacchiere incessanti”[14].

Si tratta certamente di giudizi molto severi, ma che mettono in evidenza un aspetto fondamentale, ricorrente in tutta la storia della Chiesa: i tempi successivi a un Concilio sono stati quasi sempre tempi particolarmente difficili. Quasi tutti i Concili hanno inizialmente provocato turbamenti negli equilibri ecclesiali e sono diventati fattori di profonda crisi. È paradossale, ma non lo si può nascondere: i Concili convocati per riaffermare la fede o per difenderla davanti alle eresie diffuse e quindi per ristabilire l’unità della Chiesa comportano anche elementi di divisione, che si fanno sentire nei tempi post-conciliari. Già dopo il Concilio di Efeso nel 431 si verificò il primo scisma, da cui emerse la Chiesa assira d’Oriente. E dopo il Concilio di Calcedonia del 451, le Chiese che non riconobbero le sue decisioni dottrinali cristologiche, e che chiamiamo Chiese ortodosse orientali, si separarono dalla Chiesa principale. Quanto alla storia recente della Chiesa, ricordiamo che dopo il Concilio Vaticano Primo, verso la fine del XIX secolo, alcuni cattolici, poi definiti veterocattolici, videro una novità pregnante nei due dogmi del Concilio riguardanti il primato della giurisdizione e l’infallibilità del Papa e decisero di rimanere fedeli, come essi stessi dichiararono, alla Chiesa antica. Di fronte a tali eventi storici, non sorprende la difficile situazione verificatasi nella Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano Secondo fino allo scisma del movimento nato intorno all’arcivescovo Marcel Lefebvre.

Naturalmente, questo è solo un lato della medaglia. Uno sguardo alla storia mostra anche che i Concili, e specialmente i grandi Concili del IV e del V secolo, sono diventati importanti fari nella vita della Chiesa e dell’ecumenismo perché hanno indicato la via da percorrere anche nel cuore delle Sacre Scritture. Allo stesso tempo, questa panoramica storica ci fa comprendere che lo sviluppo della sinodalità nella vita della Chiesa e dell’ecumenismo deve essere attuato con accuratezza teologica e prudenza pastorale. Anche questa lezione può essere appresa studiando il Concilio di Nicea.

 

d) Sinodalità e autorità

A ciò si aggiunge un’altra prospettiva, che a prima vista potrebbe essere considerata come secondaria, ma che, anche e soprattutto dal punto di vista ecumenico, è tutt’altro che insignificante: la questione delle autorità che svolsero un ruolo di primo piano nel contesto del Concilio di Nicea. Una delle condizioni storiche è il fatto che questo Concilio fu convocato da un imperatore, e più precisamente dall’imperatore Costantino. L’imperatore ravvisava un grande pericolo per il suo progetto di rafforzare l’unità dell’impero sulla base dell’unità della fede cristiana nella violenta disputa accesasi in quel tempo nella cristianità intorno alla confessione cristologica. Nel rischio imminente di uno scisma all’interno della Chiesa, l’imperatore percepiva dunque, principalmente, un problema politico; d’altro canto, era abbastanza lungimirante da comprendere che l’unità della Chiesa doveva essere realizzata e protetta non in modo politico, ma religioso. Per unire le fazioni avverse, l’imperatore Costantino convocò il Primo Concilio Ecumenico nella città di Nicea in Asia Minore, nelle vicinanze della residenza imperiale di Nicomedia.

La storia successiva mostra che alcuni imperatori promossero l’eresia di Ario. Questo fu in particolare il caso di Costanzo, figlio dell’imperatore Costantino, che perseguì una politica risoluta di rifiuto del credo del Concilio di Nicea e fece persino approvare da un sinodo convocato a Costantinopoli la formula dogmatica che professava Cristo “simile al Padre secondo la Scrittura”. Al contrario, l’imperatore Teodosio, che veniva dall’Occidente, si basò nuovamente sul Concilio di Nicea nella sua politica religiosa e lo confermò come unica base valida per l’unità della Chiesa. Una situazione simile si produsse di nuovo nell’VIII e nel IX secolo nella controversia intorno alle icone, quando alcuni imperatori bizantini si schierarono dalla parte degli iconoclasti e altri difesero i sostenitori delle icone.

A causa di questa costellazione, nella Chiesa in Oriente e in Occidente si sono sviluppate diverse concezioni del rapporto tra Chiesa e Stato. In una storia lunga e complicata, la Chiesa in Occidente ha dovuto imparare e ha imparato che la separazione tra Chiesa e Stato, con un partenariato tra le due realtà, è la forma adeguata del loro rapporto. Al contrario, nella Chiesa in Oriente, si è affermato uno stretto legame tra governo statale e gerarchia ecclesiastica, definito solitamente “sinfonia” tra Stato e Chiesa. Esso trova espressione soprattutto nei concetti ortodossi di autocefalia e territorio canonico, spesso associati a tendenze nazionalistiche.

La “sinfonia” tra Stato e Chiesa caratterizza tuttora la situazione della Chiesa in Oriente; tuttavia, essa è sempre più gravata da pesanti ipoteche, come dimostra oggi la problematica posizione del Patriarca russo ortodosso Kirill davanti alla guerra in Ucraina decisa da Putin. Tale atteggiamento ha giustamente spinto il direttore dell’Istituto per l’Ecumenismo Johann Adam Möhler di Paderborn, Johannes Oeldemann, a chiedersi se questo modello tradizionale sia giunto alla sua fine storica con la guerra in Ucraina: “Il modello ‘bizantino’ di sinfonia tra Stato e Chiesa è screditato dall’atteggiamento del capo della Chiesa russa in misura tale da non potersi più rivelare praticabile nel futuro”[15].

In ogni modo, questa questione va affrontata nei dialoghi ecumenici, non solo con le Chiese ortodosse, ma anche con le Chiese e le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, soprattutto quando esse vedono se stesse come Chiese di Stato, come nel caso, ad esempio, della Chiesa d’Inghilterra e di varie Chiese luterane nel nord Europa. Ricordiamo che questo tipo di rapporto tra Stato e Chiesa ebbe origine con Martin Lutero, che si distanziò dall’autorità del papato romano, cercando sempre più rifugio e sostegno presso le forze politiche e che, con il passare del tempo, non poté più sottrarsi all’influenza dei principi locali, e alla loro strumentalizzazione per interessi personali.

Questi esempi intendono semplicemente mostrare che le varie Chiese hanno sviluppato tradizioni molto diverse nel loro rapporto con lo Stato. Spesso il contesto è quello di controversie all´interno di una stessa comunione ecclesiale, come nel caso di molti conflitti tra diverse Chiese nazionali ortodosse, a volte sullo sfondo di discussioni teologiche e, in particolare, ecclesiologiche, che influiscono anche sulle relazioni ecumeniche. Eppure, la questione del rapporto tra Chiesa e Stato è uno dei temi meno affrontati nei dialoghi ecumenici; essa richiederà un´attenzione ecumenica speciale nel futuro. E dovrà essere inserita all’ordine del giorno tra i temi ecumenici, sulla via verso il grande anniversario del Concilio di Nicea del 2025.

 

Va da sé che una simile discussione deve essere condotta nel segno della libertà religiosa. In uno spirito di apertura ecumenica, ogni Chiesa è chiamata a rendere conto se il suo rapporto con lo Stato è regolato in modo tale da corrispondere al principio della libertà religiosa. Le Chiese cristiane, nella comunione ecumenica, possono infatti adoprarsi in maniera credibile in favore della libertà religiosa per tutti i cristiani e per tutte le comunità ecclesiali, come per tutte le religioni, soltanto se il loro rapporto con lo Stato è conforme al principio della libertà religiosa.[16]

 

 

 

 

 

[1] J. Kardinal Ratzinger, Das Credo von Nikaia und Konstantinopel: Geschichte, Struktur und Gehalt, in: Ders., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine der Fundamentaltheologie (München 1982) 116-127, zit. 123.

 

 

[2] Confessio Augustana, Conclusione della prima parte.

 

 

[3] W. Pannenberg, Die Bedeutung des Bekenntnisses von Nicaea-Konstantinopel für den ökumenischen Dialog heute, in: Ders., Kirche und Ökumene = Beiträge zur Systematischen Theologie. Band 3 (Göttingen 2000) 194-204, zit. 197.

 

 

[4] J. Kardinal Ratzinger, Jesus Christus heute, in: Ders., Ein neues Lied für den Herrn. Christusglaube und Liturgie in der Gegenwart (Freiburg i. Br. 1995) 15-45, zit. 40.

 

 

[5]  J. Cardinal Ratzinger, Vorwort zur Neuausgabe 2000, in: Ders., Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis (München 2000) 9-26, zit. 26.

 

 

[6] Vgl. L. O. Lumma, Feiern im Rhythmus des Jahres. Eine kurze Einführung in christliche Zeitrechnung und Feste (Regensburg 2016), bes. 17-69: Der Kalender.

 

 

[7] Zit. bei Leo Scheffczyk, Auferstehung. Prinzip des christlichen Glaubens (Einsiedeln 1976) 46, Anm. 49.

 

 

[8] Eusebius, Via Const. III 7.

 

 

[9] J. Chrysostomos, Exlicatio in Ps 149, in: PG 55, 493.

 

 

[10] Die Kirche auf dem Weg zu einer gemeinsamen Vision. Eine Studie der Kommission für Glauben und Kirchenverfassung des Ökumenischen Rates der Kirchen (ÖRK) (Gütersloh – Paderborn 2015).

 

 

[11] Internationale Theologische Kommission, Die Synodalität in Leben und Sendung der Kirche, Nr. 116.

 

 

[12] Francesco, Discorso in occasione della Commemorazione del 50.mo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, il 17 ottobre 2015.

 

 

[13] Vademecum del Sinodo, n. 5.3.7.

 

 

[14] Basilius, De Spiritu Sancto XXX, 77.

 

 

[15] J. Oeldemann, Kaum noch zukunftsfähig? Krieg in der Ukraine: Ende des „byzantinischen“ Modells, in: KNA - Ökumenische Information. Dokumentation vom 22. März 2022, I-III, zit. I.

 

 

[16] Vgl. K. Kardinal Koch, Religionsfreiheit als Thema des ökumenischen Dialogs, in: F.-X. Amherd / M. Delgado / S. Loiero (Hrsg.), 50 Jahre / ans Dignitatis Humanae… Tagungsband des 7. Freiburger Forums Weltkirche = Théologie pratique en dialogue. Vol 45 (Freiburg / Schweiz 2017) 43-61.