L’eredità dell’impegno ecumenico di san Giovanni Paolo II e l’enciclica «Ut unum sint»

 

Strumento di fede sulla via per l’unità

 

Reverendo Andrzej Choromanski
Officiale della sezione occidentale del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani

 

Per comprendere correttamente il particolare approccio ecumenico di Giovanni Paolo II e il suo eccezionale contributo alla causa dell’unità dei cristiani di cui l’enciclica Ut unum sint è un tratto saliente, è fondamentale considerare la sua persona e il suo ministero di Vescovo di Roma alla luce del concilio Vaticano II.

 

San Giovanni Paolo II “figlio” del concilio Vaticano secondo

Nella sua sensibilità ecclesiale, nel suo pensiero teologico e nella sua opera pastorale Giovanni Paolo II è stato interamente un “figlio del concilio”. Partecipando direttamente ai suoi lavori, acquisì la ferma convinzione che, sotto la guida dello Spirito santo, il concilio fosse un evento provvidenziale per la Chiesa in un momento in cui, dopo le atrocità delle due guerre mondiali, essa era alla ricerca di nuove energie e di una nuova direzione, soprattutto nel cammino che conduceva alla soglia del nuovo millennio, una “soglia di speranza”, come fu definita dallo stesso Pontefice nel libro Varcare la soglia della speranza , pubblicato nel 1994. Il suo ministero di Vescovo di Roma, durato ventisette anni, è stato guidato dallo spirito del concilio e si è concentrato sull’attuazione degli insegnamenti del concilio nella vita della Chiesa. Il concilio è stato un punto di svolta che ha cambiato radicalmente le relazioni della Chiesa cattolica con le altre Chiese e comunità ecclesiali. Questo cambiamento epocale è stato possibile grazie alla promulgazione del primo documento conciliare nella storia della Chiesa cattolica che sosteneva e promuoveva l’ecumenismo. Il 21 novembre 1964, nella basilica di San Pietro, i padri del concilio adottarono il decreto sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio, con una schiacciante maggioranza di 2.137 voti favorevoli contro appena 11 voti contrari. Tra coloro che avevano votato in favore del documento vi era il quarantaquattrenne arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyła, che solo pochi mesi prima aveva fatto il suo ingresso solenne nella cattedrale reale di Wawel, storica collina della prima capitale della Polonia. Con il concilio e con il suo decreto, la Chiesa cattolica entrava, in maniera irrevocabile e irreversibile, nel movimento ecumenico moderno. Nel discorso tenuto in occasione della promulgazione del decreto, Papa Paolo VI affermò che esso chiariva e completava la costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium. Il documento ribadisce che l’unità è parte integrante della natura della Chiesa e deve essere sempre considerata come un aspetto essenziale della vita della Chiesa. Tuttavia, diversamente da quanto sostenuto in precedenza dal magistero cattolico, la costituzione offre una diversa interpretazione di questa unità. Il cambiamento più significativo per il movimento ecumenico è il riconoscimento ufficiale che la Chiesa di Gesù Cristo sulla terra è una realtà che trascende i limiti visibili della Chiesa cattolica e che molti dei suoi elementi si trovano in altre Chiese e comunità ecclesiali (cfr. Lumen gentium, 8 e Unitatis redintegratio, 3). Questa nuova prospettiva ecclesiologica ha condotto a una percezione radicalmente diversa degli altri cristiani da parte della Chiesa cattolica. Coloro che per secoli erano stati definiti “scismatici” o “eretici ” venivano ora chiamati “fratelli separati”, “separati” ma pur sempre “fratelli”. Come noterà Giovanni Paolo II nella sua enciclica, il primo e il più importante frutto del movimento ecumenico è stata proprio la “fraternità ritrovata” tra cristiani e comunità cristiane (cfr. Ut unum sint, 41 e 51). Ciò ha aperto la strada a numerosi incontri, scambi di visite, dialoghi teologici e collaborazioni concrete. Gli insegnamenti del concilio Vaticano II hanno ispirato l’intero ministero di Giovanni Paolo II. Durante il suo pontificato, egli ha fortemente sostenuto e promosso la partecipazione attiva della Chiesa cattolica a iniziative ecumeniche di vario tipo. Per lui l’ecumenismo non era semplicemente uno dei tanti programmi della Chiesa o una specie di “appendice” aggiunta all’attività tradizionale della Chiesa, ma rappresentava una componente essenziale e irrinunciabile della vita e dell’opera della Chiesa che deve pervadere tutto ciò che essa è e fa, come si evince da una delle sezioni dell’enciclica, «La via ecumenica: la via della Chiesa». L’opzione ecumenica è stata inclusa nei documenti preminenti del suo pontificato, come il Catechismo della Chiesa cattolica (§§ 813-822), il Codice di diritto canonico per i cattolici latini (cfr. can. 755 §2) e il Codice dei canoni delle Chiese orientali (canoni 902- 908). E ha trovato espressione concreta anche negli incontri ecumenici avuti dal Pontefice durante i suoi numerosi pellegrinaggi pastorali in diversi Paesi del mondo, come pure negli incontri con i responsabili ecclesiali di quasi tutte le confessioni cristiane.

 

«Ut unum sint» nel contesto del suo tempo

A trent’anni dal concilio, il 25 maggio 1995 Giovanni Paolo II ha pubblicato Ut unum sint, la sua enciclica sull’impegno ecumenico. È stata la prima enciclica in assoluto scritta da un Papa sul tema dell’ecumenismo, e resta tutt’oggi l’unica. Per cogliere appieno il suo impatto sul movimento ecumenico moderno, è importante collocarla nel contesto ecclesiale del suo tempo. Negli anni Novanta era ampiamente diffusa la convinzione che il movimento ecumenico stesse languendo, senza riuscire a raggiungere i risultati attesi. Nonostante le ben consolidate relazioni tra i leader cristiani e una crescente cooperazione tra le Chiese nell’ambito della promozione della giustizia sociale, dei diritti umani e della cura del creato, e talvolta anche nella missione e nell’evangelizzazione, i cristiani rimanevano divisi e disillusi riguardo alla speranza di un’imminente unità. Malgrado i molteplici dialoghi teologici in corso, persistevano divergenze su questioni dottrinali tradizionali, e nuove problematiche etiche stavano emergendo, rivelando profonde discrepanze tra le varie tradizioni nel campo dell’antropologia e della morale. Pratiche pastorali controverse avevano iniziato a sollevare nuove tensioni e persino divisioni non solo tra le Chiese, ma anche all’interno delle Chiese. Molti ecumenisti che ricordavano i rapidi progressi ecumenici compiuti nei due primi decenni successivi al concilio Vaticano II ne lamentavano ora il rallentamento, e molti responsabili ecclesiali si esprimevano in maniera negativa sulla possibilità o addirittura sulla necessità di ricomporre l’unità dei cristiani. In una conferenza tenutasi nel 1992, Emilio Castro, allora segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec), parlò di un “inverno ecumenico” succeduto alla “primavera ecumenica” che aveva segnato i primi decenni dopo il concilio. Questa situazione è stata talvolta imputata, almeno in parte, allo stesso Giovanni Paolo II. All’inizio degli anni Novanta, il Papa venne accusato di aver provocato una nuova crisi nei rapporti tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse nei Paesi post-comunisti dell’Europa orientale che si erano opposti all’erezione di diocesi cattoliche in quelli che essi definivano i loro “territori canonici”. Alcuni leader del movimento ecumenico, come pure teologi sia cattolici sia non cattolici, criticarono Giovanni Paolo II per aver adottato una linea di condotta conservatrice riguardo all’etica cristiana, che era considerata un ostacolo al dialogo con le Chiese dell’Occidente, la maggior parte delle quali seguiva un approccio più liberale. Nella stessa Chiesa cattolica si stava delineando una crescente polarizzazione, soprattutto tra il clero, rispetto all’impegno ecumenico. Molti vescovi iniziarono a perdere interesse per l’ecumenismo, sostenendo che esso si era dimostrato inefficace nel raggiungere il suo obiettivo e che il cristianesimo mondiale stava conoscendo un processo di divisione accelerato. Tale processo era dovuto principalmente alla rapida proliferazione dei movimenti evangelicali e pentecostali, spesso accusati di praticare quello che è stato chiamato “furto di pecore” ai danni delle Chiese storiche, compresa la Chiesa cattolica. Altri continuarono ad opporsi all’opzione ecumenica del concilio, considerandola contraria alla fede cattolica. Ritenevano il concilio la ragione alla base del progressivo decadimento della Chiesa, segnato dal calo delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa, nonché da un notevole declino delle pratiche religiose tra i fedeli in molte parti del mondo, specialmente nell’emisfero settentrionale. In questo contesto storico, molti rimasero sorpresi dalla pubblicazione di un’enciclica sull’ecumenismo, dal suo tono e dal suo contenuto. La decisione di Giovanni Paolo II di pubblicarla in un momento difficile per il movimento ecumenico era dovuta alla sua ferma convinzione che la ricerca dell’unità dei cristiani dovesse continuare, per rispondere alla preghiera del Signore «che tutti siano una cosa sola» (Giovanni, 17, 21). Il testo era un appello a non scoraggiarsi di fronte a risultati che non erano all’altezza delle aspettative, e a proseguire insieme il pellegrinaggio ecumenico all’alba di un nuovo millennio.

 

«Ut unum sint» un’eccezionale effusione dello spirito ecumenico del Papa

Nell’enciclica Ut unum sint, Giovanni Paolo II sottolinea che il compito ecumenico è una delle “priorità pastorali” del suo pontificato perché la mancanza di unità è un “grave ostacolo” all’annuncio del Vangelo (Ut unum sint, 99). Ancora più che per la vita interna della Chiesa, l’unità è necessaria per la credibilità e per l’efficacia della sua missione nel mondo. Solo quando è veramente unita, la Chiesa può essere segno luminoso e strumento efficace dell’amore di Dio per l’intera umanità. Ut unum sint ribadisce le convinzioni fondamentali del concilio Vaticano II in merito alla partecipazione cattolica al movimento ecumenico. Pubblicando questo documento, Giovanni Paolo II ha voluto rassicurare i fedeli cattolici e i partner ecumenici sul fatto che l’opzione ecumenica sostenuta dal concilio è irrevocabile e che la via ecumenica continua ad essere la via della Chiesa nel terzo millennio. L’enciclica, attingendo ai documenti conciliari e al magistero postconciliare, sviluppa con maggior vigore le convinzioni e i principi fondamentali esposti nel decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio. Essa riconosce con gratitudine i molteplici frutti già raccolti attraverso i dialoghi bilaterali e multilaterali, che sono i “semi” seminati nel suolo della cristianità per la crescita della comunione. Presenta inoltre alcune questioni essenziali per il futuro del movimento ecumenico, in particolare la necessità di individuare insieme nuove modalità di esercizio del ministero petrino che possano essere accettabili per tutti i cristiani. Redatta in un tono rispettoso, con un atteggiamento empatico verso le altre tradizioni ecclesiastiche, Ut unum sint respinge il cosiddetto “ecumenismo del ritorno” e promuove un ecumenismo di conversione, preghiera, dialogo, cooperazione concreta, servizio comune al mondo, apprendimento reciproco e scambio di doni tra le tradizioni cristiane. L’enciclica rappresenta una tappa importante sulla via della continua ricezione degli insegnamenti conciliari. Compie passi in avanti sul cammino ecumenico intrapreso nel passato, basandosi su ciò che è già stato realizzato.

 

Un impulso ecumenico per il XXI secolo

Sia i cattolici che i cristiani di altre tradizioni ecclesiali concordano generalmente sul fatto che Ut unum sint è un documento fondamentale, che ha apportato un contributo vitale al movimento ecumenico moderno. Il cardinale Edward I. Cassidy, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani al momento della pubblicazione dell’enciclica, l’ha descritta come uno dei «testi chiave del movimento ecumenico del XX secolo», capace di interpellare tutte le Chiese. Essa le ha aiutate a ritrovare il loro zelo ecumenico in un momento in cui diversi fattori distoglievano i cristiani dalla ricerca dell’unità visibile e in cui venivano poste molte domande sulla condizione del movimento ecumenico. Si trattava di un appello rivolto dal Papa prima ai fedeli cattolici e poi a tutti i cristiani affinché non cedessero alla disperazione ma intensificassero gli sforzi congiunti sulla via della piena unità visibile. L’enciclica è animata dalla convinzione che solo camminando insieme verso questo obiettivo le Chiese potranno crescere nella comunione di fede, nella vita sacramentale, nella testimonianza e nel servizio comuni al mondo, come pure nel ministero reciprocamente riconosciuto e nelle strutture ecclesiali condivise. A venticinque anni dalla sua pubblicazione, Ut unum sint merita di essere presa nuovamente in esame nel dialogo ecumenico alla luce della situazione che la cristianità mondiale sta attualmente vivendo, segnata dal desiderio di unità da una parte e da una progressiva frammentazione dall’altra. Ancora letta e discussa da leader di Chiese, ecumenisti e teologi, può essere una sorprendente fonte di ispirazione per la ricerca di una nuova visione del movimento ecumenico all’inizio del terzo millennio del cristianesimo.

 

L'Osservatore Romano, 22 gennaio 2021