Nel sessantesimo anniversario dell'annuncio del Vaticano II
UN CONCILIO DALL'ORIENTAMENTO ECUMENICO*
Cardinale Kurt Koch
Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani
«Pronunciamo innanzi a voi, certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione: di un Sinodo diocesano per l’Urbe, e di un Concilio ecumenico per la Chiesa universale». Con queste parole, sessant’anni fa, alla fine dell’Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani, il santo Papa Giovanni XXIII annunciava il concilio Vaticano II, a San Paolo fuori le Mura, in un breve discorso tenuto davanti a un ristretto gruppo di cardinali.
Egli aggiunse che entrambi gli eventi avrebbero dovuto contribuire all’«aggiornamento del Codex Iuris Canonici». Questo annuncio, dato dal Santo Padre quando non erano ancora trascorsi tre mesi dalla sua elezione a successore di Papa Pio XII, colse tutti di sorpresa, perché assolutamente inatteso.
Naturalmente, era evidente che il “Concilio ecumenico” non sarebbe stato un concilio di tutta la cristianità, ma un evento intra-cattolico. Tuttavia, si stagliava già all’orizzonte la questione ecumenica, che non poteva più essere esclusa dalla realtà ecclesiale. Ricordare l’annuncio del concilio di sessant’anni fa è ora una buona occasione per soffermarsi sull’inizio ufficiale del movimento ecumenico nella Chiesa cattolica e chiedersi in maniera più precisa da cosa esso sia stato animato al fine di trarre un ulteriore incoraggiamento per il cammino odierno.
Gli splendori dell’inizio traspaiono in modo particolare se consideriamo la figura del santo Papa Giovanni XXIII e la visione che egli aveva del concilio Vaticano II. Le due priorità che spinsero il Pontefice a indire il concilio sono strettamente legate: il rinnovamento della Chiesa cattolica e la ricomposizione dell’unità dei cristiani. Il Papa era convinto che la Chiesa cattolica avrebbe potuto rinnovarsi soltanto se alla questione ecumenica fosse stato riconosciuto un ruolo prioritario. Ciò risulta evidente anche dalla decisione presa dal Santo Padre di istituire il Segretariato per l’unità dei cristiani già due anni prima dell’apertura del concilio e di affidarne la guida al gesuita Augustin Bea, di cui abbiamo commemorato il cinquantesimo anniversario della morte il 16 novembre dell’anno scorso.
Dello stretto legame tra il rinnovamento della Chiesa e la promozione dell’unità dei cristiani era convinto anche il santo Papa Paolo VI. L’obiettivo ecumenico era per lui un importante leitmotiv anche e precisamente per il rinnovamento della Chiesa cattolica e della sua auto-comprensione, tanto che possiamo parlare di una vera e propria interrelazione tra apertura ecumenica della Chiesa cattolica e rinnovamento della sua ecclesiologia. Papa Paolo VI, già all’inizio della seconda sessione del concilio, nel suo fondamentale discorso d’inaugurazione, sottolineò che l’avvicinamento tra i cristiani e le Chiese separati era uno degli intenti principali, ovvero il dramma spirituale, alla base della convocazione del concilio. Lo stesso Pontefice, nel promulgare il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, affermò che esso spiegava e completava la costituzione dogmatica sulla Chiesa: ea doctrina explicationibus completa. Questa espressione evidenzia che Paolo VI attribuiva al decreto sull’ecumenismo un grande valore teologico.
Anche i Pontefici che si sono susseguiti dopo il concilio hanno continuato a promuovere e ad approfondire la questione ecumenica. Ciò vale in modo particolare per il santo Papa Giovanni Paolo II, il quale, nella sua enciclica sull’impegno ecumenico Ut unum sint, che fornirà importanti orientamenti per il futuro, ha confermato che il cammino ecumenico è il cammino della Chiesa e «appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione», e ha chiaramente ribadito che la decisione presa dalla Chiesa a favore dell’ecumenismo è irreversibile, perché la Chiesa cattolica, con il concilio Vaticano II, «si è impegnata in modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica, ponendosi così all’ascolto dello Spirito del Signore, che insegna come leggere attentamente i “segni dei tempi”». Alla luce di ciò è facile capire perché a Papa Giovanni Paolo II premesse molto tradurre l’ecclesiologia conciliare anche in un linguaggio giuridico, evidenziare il legame tra l’ecclesiologia conciliare e la codificazione del diritto della Chiesa universale anche in riferimento all’impegno ecumenico della Chiesa, e formulare nei due nuovi codici di diritto canonico l’esplicito obbligo giuridico della Chiesa cattolica di partecipare al movimento ecumenico. In tal modo, si sottolinea espressamente che «la Chiesa è tenuta a promuovere per volontà di Cristo» il ristabilimento dell’unità tra tutti i cristiani.
Anche Papa Benedetto XVI ha riservato all’obiettivo ecumenico un ruolo prioritario. Già nel primo messaggio pronunciato dopo la sua elezione al soglio pontificio, ha affermato che l’impegno primario del successore di Pietro è quello di «lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere». Per Papa Benedetto XVI l’unità della Chiesa può essere soltanto unità nella fede apostolica affidata, al momento del battesimo, a ogni nuovo membro del Corpo di Cristo. Pertanto, l’ecumenismo, al livello più profondo, è una questione di fede e dunque di adesione di tutti i battezzati alla preghiera sacerdotale di Gesù: che tutti siano una sola cosa. Questa preghiera è il luogo interiore dell’unità dei cristiani; diventeremo perciò una sola cosa «se ci lasceremo attirare dentro tale preghiera». Essa è «la via primaria per raggiungere la piena comunione».
Papa Francesco, nello stile che gli è proprio, prosegue sulla via del dialogo ecumenico. Per lui è fondamentale che i vari cristiani e le varie comunità ecclesiali percorrano insieme il cammino dell’unità, pregando e lavorando gli uni con gli altri. Egli è convinto infatti che l’unità cresca cammin facendo e che camminare insieme significhi già vivere e praticare l’unità: «l’unità non verrà come un miracolo alla fine: l’unità viene nel cammino, la fa lo Spirito Santo nel cammino». Papa Francesco ritiene dunque che l’obiettivo degli sforzi ecumenici sia il ripristino della piena comunione tra i cristiani, che deve sfociare nella comunione eucaristica. Egli ha espresso più volte il suo rammarico e il suo dolore circa il fatto che ancora non possiamo celebrare insieme l’Eucaristia; al contempo, non si stanca di esortarci a intraprendere nuovi passi coraggiosi: «Siamo consapevoli che resta da percorrere ancora altra strada per raggiungere quella pienezza di comunione che possa esprimersi anche nella condivisione della stessa Mensa eucaristica, che ardentemente desideriamo; ma le divergenze non devono spaventarci e paralizzare il nostro cammino».
Se, alla luce di questi orientamenti offerti dai diversi Pontefici, consideriamo gli ultimi sessant’anni dell’impegno ecumenico a partire dall’annuncio del Vaticano II, abbiamo buoni motivi per essere grati di tutto quello che il concilio ha messo in moto e di ciò che i vari papi hanno intrapreso per promuovere l’ecumenismo. Decisivo è il fatto che, alla fine della terza seduta, il 21 novembre 1964, il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio fu approvato dai padri conciliari a stragrande maggioranza, con 2137 voti favorevoli e 11 contrari, e venne promulgato dal santo Papa Paolo VI. Con tale decisione, la Chiesa cattolica ha fatto proprio l’obiettivo fondamentale del movimento ecumenico, aderendo a questo movimento mondiale in maniera ufficiale e definitiva. Il concilio, infatti, non intendeva contrapporre al movimento ecumenico, sorto all’interno della cristianità non cattolica, un proprio ecumenismo, ovvero una via cattolica separata, per giungere all’unità della Chiesa. Esso, piuttosto, era convinto che poteva esistere un unico ecumenismo e desiderava inserirsi nel processo del movimento ecumenico, alla cui origine riconosceva esplicitamente la «grazia dello Spirito Santo». Pertanto, il Vaticano II non è stato soltanto un concilio per l’epoca ecumenica, ma ha anche contribuito a far progredire in maniera determinante l’ecumenismo. Ricordare l’annuncio del concilio sessant’anni fa ci spinge a ripensare alle origini del movimento ecumenico. Una simile riflessione non deve essere una fuga nel passato. Come avviene alla guida di un’auto, quando solo se prima si guarda nello specchietto retrovisore si può effettuare un sorpasso con sicurezza, così, nell’ecumenismo, il ritorno agli inizi può aiutarci a individuare il percorso futuro con rinnovato slancio. Questo vale in particolar modo per le tre dimensioni fondamentali nelle quali il movimento ecumenico si è sviluppato e continua a crescere. Sarà bene riattualizzarle per poter comprendere quali passi compiere nel futuro.
Il movimento ecumenico è stato, in primo luogo, un movimento di preghiera. Questo suo tratto essenziale è stato evidenziato da Papa Benedetto XVI con un’immagine eloquente: «La barca dell’ecumenismo non sarebbe mai uscita dal porto se non fosse stata mossa da quest’ampia corrente di preghiera e spinta dal soffio dello Spirito Santo». L’inizio del movimento ecumenico è stato infatti segnato dall’introduzione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che, nata come iniziativa ecumenica, fu ripresa da Papa Benedetto XV ed estesa a tutta la Chiesa cattolica. Il concilio Vaticano II è arrivato persino a ravvisare nell’«ecumenismo spirituale» il fulcro di tutti gli sforzi ecumenici, ovvero «l’anima di tutto il movimento ecumenico». Il concilio ha espresso in tal modo l’idea che il lavoro ecumenico è essenzialmente un compito spirituale e che, dunque, senza preghiera non può esserci unità, come ripete sempre Papa Francesco: «L’impegno ecumenico risponde, in primo luogo, alla preghiera dello stesso Signore Gesù e si basa essenzialmente sulla preghiera».
Con la preghiera per l’unità, noi cristiani esprimiamo la convinzione di fede secondo cui l’unità non può essere realizzata primariamente — e di certo non soltanto — sulla base dei nostri sforzi: noi non possiamo fare da soli l’unità, né possiamo determinarne la forma e il tempo di realizzazione. Noi cristiani possiamo provocare divisioni, come dimostra sia la storia che il presente. Ma l’unità possiamo soltanto riceverla in dono. La preghiera per l’unità ci ricorda che dobbiamo fare spazio all’opera non manipolabile dello Spirito Santo e riporre in lui tanta fiducia almeno quanta ne riponiamo nei nostri stessi sforzi. Il modo migliore per prepararsi a ricevere l’unità come dono dello Spirito Santo è la preghiera per l’unità. Il movimento di preghiera di oltre cento anni fa non è dunque un inizio che possiamo lasciarci alle spalle, ma un inizio che deve piuttosto camminare con noi e accompagnare tutti i nostri sforzi ecumenici. Un ecumenismo credibile sta o cade con l’approfondimento della sua forza spirituale e con l’adesione da parte dei cristiani alla preghiera sacerdotale di Gesù, «che tutti siano una sola cosa».
Una forma particolare di ecumenismo spirituale è quella definita «ecumenismo dei martiri» da Papa Giovanni Paolo II ed «ecumenismo del sangue» da Papa Francesco. Questa forma si richiama al tragico fatto che oggi moltissimi cristiani sono vittime di massicce persecuzioni, persecuzioni che superano addirittura quelle perpetrate nei primi secoli del cristianesimo, al punto che le Chiese cristiane sono diventate Chiese di martiri. Di fatti, oggi tutte le Chiese e le comunità cristiane hanno i propri martiri, tanto che si può parlare di un vero e proprio ecumenismo dei martiri. I cristiani non vengono più perseguitati perché sono ortodossi o cattolici, evangelici o anglicani, ma vengono perseguitati perché cristiani. Eppure, nonostante la tragedia di questa realtà, nell’ecumenismo dei martiri si cela una grande promessa: la Chiesa primitiva era convinta che il sangue dei martiri sarebbe stato seme di nuovi cristiani. Così anche noi oggi dobbiamo nutrire la speranza che il sangue di così tanti martiri del nostro tempo sarà un giorno seme della piena unità ecumenica del Corpo di Cristo. E dobbiamo essere certi addirittura che, nel sangue dei martiri, siamo già diventati una cosa sola. Poiché la sofferenza di così tanti cristiani nel mondo di oggi è un’esperienza comune che si rivela più forte delle differenze che tuttora separano le Chiese cristiane, il martirio comune dei cristiani è oggi il segno più convincente dell’ecumenismo.
In secondo luogo, il movimento ecumenico è stato un movimento di conversione, iniziato con la presa di coscienza del peccato delle divisioni nella Chiesa. Per rappresentare tale peccato, non c’è immagine più emblematica di quella del danno arrecato all’integrità della tunica inconsutile di Gesù, di cui la Bibbia ci dice espressamente che era cucita tutta d’un pezzo: «tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo» (Giovanni, 19, 23b). È significativo il fatto che, nel racconto della passione, neanche i soldati romani hanno osato strappare questo prezioso indumento del Gesù terreno: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca» (Giovanni, 19, 24). Così, nella storia cristiana, la tunica di Gesù è diventata il simbolo dell’unità della Chiesa come Corpo di Cristo. La deplorevole tragedia in questa storia è che i cristiani stessi hanno fatto ciò che i soldati romani non osarono fare. Ecco che, come ha osservato il cardinale Edward Idris Cassidy, già presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, la tunica di Gesù risulta essere oggi strappata «in pezzi e brandelli, in confessioni e denominazioni che spesso nella storia lottano l’una contro l’altra, invece di compiere il mandato affidatoci dal Signore, ovvero essere una cosa sola». Quest’immagine, che esprime la situazione profondamente anormale della cristianità, è la forma più eloquente di invito alla conversione ecumenica. Se gettiamo uno sguardo alla storia del movimento ecumenico, ci accorgiamo che l’ecumenismo ha ricevuto nuovi impulsi soltanto quando i cristiani di diverse Chiese hanno avuto il coraggio e l’umiltà di riconoscere insieme, apertamente, lo scandalo persistente di una cristianità divisa e si sono sentiti appellati alla conversione. L’unità, che ci è già stata donata in Cristo, potrà essere infatti ritrovata soltanto se noi cristiani ci convertiamo insieme a Gesù Cristo. La conversione è l’elisir di lunga vita di un vero ecumenismo, come ha affermato il decreto sull’ecumenismo in maniera programmatica: «Non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione. Infatti il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento dell’animo, dall’abnegazione di se stessi e dal pieno esercizio della carità». Nella sua enciclica sull’impegno ecumenico, Ut unum sint, il santo Papa Giovanni Paolo II ha sottolineato con enfasi che l’intero decreto sull’ecumenismo è «pervaso dallo spirito di conversione».
Non si tratta tanto della conversione degli altri quanto della propria, che presuppone la disponibilità a riconoscere in maniera autocritica le proprie debolezze e le proprie mancanze, ad ammetterle con umiltà, a prendere come metro di misura il Vangelo di Gesù Cristo e a porsi al servizio del ripristino dell’unità. La conversione, dunque, deve essere innanzitutto una conversione alla ricerca appassionata dell’unità dei cristiani. Questo è il vero senso di Unitatis redintegratio.
In terzo luogo, il movimento ecumenico è stato anche un movimento missionario. Questa dimensione fu evidente sin dall’inizio, quando nel 1910 ebbe luogo in Scozia, a Edimburgo, la prima Conferenza mondiale sulla missione. Ai partecipanti era ben chiaro lo scandalo insito nel fatto che le varie Chiese e comunità ecclesiali si facevano concorrenza nel lavoro missionario e in tal modo minavano la credibilità dell’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo soprattutto nei continenti più lontani, poiché avevano portato in altre culture, insieme al Vangelo di Cristo, anche le divisioni della Chiesa in Europa. Erano dunque tristemente consapevoli che la divisione tra i cristiani costituiva il maggiore ostacolo alla missione nel mondo. Nello stesso spirito, anche il Vaticano II ha avuto il coraggio di denunciare la permanente divisione nella cristianità come uno scandalo che offriamo al mondo e che nuoce all’annuncio del messaggio cristiano.
Se la divisione dei cristiani è la contro-testimonianza della predicazione del Vangelo, allora, in senso inverso, la riconciliazione ecumenica è il presupposto fondamentale per una missione credibile della Chiesa. Nel mondo di oggi, è possibile rendere una testimonianza di Gesù Cristo — credibile e dunque ecumenicamente comune — soltanto se le Chiese cristiane superano le loro divisioni e riescono a vivere l’unità in una diversità riconciliata. Ecumenismo e missione sono pertanto inscindibili; essi si esigono e si sostengono vicendevolmente. Una Chiesa missionaria è, per sua natura, una Chiesa ecumenica, e una Chiesa impegnata ecumenicamente è il presupposto di una Chiesa missionaria. Ecco perché, secondo Papa Francesco, «l’impegno per un’unità che faciliti l’accoglienza di Gesù Cristo smette di essere mera diplomazia o un adempimento forzato, per trasformarsi in una via imprescindibile dell’evangelizzazione».
Sin dall’inizio, il movimento ecumenico è stato un movimento di preghiera, un movimento di conversione e un movimento missionario. Questi tre movimenti hanno contribuito considerevolmente al progresso compiuto dal movimento ecumenico negli ultimi decenni. Essi dovranno mantenere la loro vitalità anche nel futuro, se il movimento ecumenico vuole essere all’altezza delle sfide che l’attendono. È chiaro, d’altronde, che non vi è alternativa all’ecumenismo. Esso è indispensabile per la credibilità della fede cristiana e della missione della Chiesa nel mondo odierno, corrisponde alla volontà del Signore ed è un frutto dello Spirito Santo, come ha sottolineato il Vaticano II. Dimostreremmo dunque una scarsa fede se non confidassimo nello Spirito, che porterà a compimento, nei modi e nei tempi in cui vorrà, ciò a cui ha dato avvio in maniera così promettente. Ascoltare lo Spirito è il compito ecumenico del momento, mentre ricordiamo l’annuncio del concilio Vaticano II avvenuto sessant’anni fa.
* Articolo pubblicato ne L'Osservatore Romano, 18 gennaio 2019, N° 14, p. 6.