ASSEMBLEA PLENARIA 2014
PROLUSIO DEL CARDINALE PRESIDENTE

 

LA META DELL’ECUMENISMO: PRINCIPI, OPPORTUNITÀ E SFIDE A CINQUANT’ANNI DA UNITATIS REDINTEGRATIO[1]

Kurt Cardinale Koch

 

1. Unità dei cristiani e rinnovamento della Chiesa

Il nucleo vitale di ogni sforzo ecumenico è il ristabilimento della perduta unità della Chiesa. Chi ha a cuore l’unità della Chiesa deve dunque sapere chi e dove è la Chiesa. L’ecumenismo ed una chiara conoscenza di quella che è la natura della Chiesa sono così strettamente legati da non poter essere separati. Questo inscindibile nesso è dimostrato già dal fatto che, alla fine della terza sessione del Concilio Vaticano Secondo, insieme al Decreto sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio, lo stesso giorno, il 21 novembre del 1964, furono approvati dai padri conciliari e promulgati dal beato Papa Paolo VI due altri importanti documenti, ovvero la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, ed il Decreto sulle Chiese cattoliche orientali, Orientalium ecclesiarum. Dalle Chiese cattoliche orientali, le quali da un lato hanno le caratteristiche delle Chiese orientali nella teologia, nella liturgia, nella disciplina e nel diritto, e dall’altro vivono questa loro tradizione di Chiese orientali in comunione con il Vescovo di Roma e considerano tale unione come essenziale per il loro essere Chiesa, ci si aspetta- così dice il Decreto- l’assunzione di una particolare responsabilità ecumenica, che è quella di promuovere l’unità dei cristiani soprattutto con le Chiese ortodosse e con le Chiese ortodosse orientali: “Alle Chiese orientali aventi comunione con la Sede apostolica romana, compete lo speciale ufficio di promuovere l’unità di tutti i cristiani, specialmente orientali, secondo i principi del decreto «sull’ecumenismo» promulgato da questo santo Concilio.”[2] Altrettanto evidente è il legame tematico con la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, poiché il Decreto sull’ecumenismo, in particolare nel suo primo capitolo sui “principi cattolici sull’ecumenismo”, si ricollega strettamente alla Costituzione dogmatica sulla Chiesa.

Questo legame si rivela di estrema importanza, poiché getta una luce chiarificatrice sulla fondamentale questione dell’interrelazione tra i vari documenti conciliari e, nello specifico, tra le Costituzioni ed i Decreti del Concilio Vaticano Secondo. Tale questione è tornata ad essere particolarmente attuale[3] soprattutto alla luce del fatto che in tempi recenti si sono riscontrate non poche tendenze che rimettono in discussione, o quantomeno sminuiscono, il carattere teologico vincolante del Decreto sull’ecumenismo. Uno degli argomenti principali al proposito è che il Decreto sull’ecumenismo non è una Costituzione, ma “soltanto” un Decreto, che riveste un’importanza principalmente pastorale e disciplinare, ma che, da un punto di vista dottrinale, ha un carattere vincolante alquanto limitato.

In questo argomento, c’è di giusto indubbiamente il fatto che il Concilio Vaticano Secondo opera una distinzione tra Costituzioni e Decreti. Con ciò, non si è comunque risposto alla domanda su quale sia il grado del carattere vincolante in campo dottrinale; infatti, anche il Concilio di Trento ha promulgato soltanto Decreti, che sono però testi dottrinali molto importanti e vincolanti dal punto di vista teologico. Neppure la distinzione tra Costituzioni e Decreti e la diversa terminologia che, nel corso della storia, è stata impiegata dal Concilio di Trento e dal Concilio Vaticano Secondo possono dunque fornirci una risposta soddisfacente su quale sia il carattere vincolante del Decreto sull’ecumenismo. E neanche la distinzione tra carattere vincolante dottrinale ed importanza pastorale, tentata non di rado, può esserci di aiuto. Se, infatti, con il termine “pastorale” si intende il fatto di “far valere l’attualità permanente del dogma” e, questo, nel senso che il dogma, proprio perché è vero, deve essere continuamente “rivitalizzato e reso efficace” e, quindi, interpretato pastoralmente[4], allora nessuna pastorale degna di questo nome può essere priva di un chiaro fondamento nella dottrina della Chiesa, così come non può esserci nessuna dottrina senza un obiettivo pastorale.

Dovremmo piuttosto partire dal presupposto che la distinzione tra Costituzioni e Decreti nel Concilio Vaticano Secondo va interpretata nel senso che i Decreti rappresentano perlopiù concretizzazioni delle questioni esposte in una Costituzione, per la vita pratica della Chiesa. In questa ottica, il Decreto sull’ecumenismo deve essere letto soprattutto sullo sfondo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa e non deve mai essere interpretato in opposizione ad essa. Ciò significa che, per quanto riguarda il carattere vincolante, tra la Costituzione dogmatica sulla Chiesa ed il Decreto sull’ecumenismo si può al massimo fare una distinzione a livello formale, non a livello di contenuto, poiché i presupposti e i fondamenti dogmatici del Decreto sull’ecumenismo si rintracciano proprio nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa ed il cammino ecumenico intrapreso con il Concilio Vaticano Secondo si fonda sulla natura teologica stessa della Chiesa.

Questa idea dell’inscindibile legame tra ecumenismo ed ecclesiologia corrisponde pienamente alla visione che il santo Papa Giovanni XXIII aveva del Concilio Vaticano Secondo, visione che gli è stata tributata durante la Settimana di Preghiera per l’unità dei cristiani del 1959. Di fatti, le due priorità che lo hanno spinto a convocare il Concilio erano per lui strettamente connesse: il rinnovamento della Chiesa cattolica ed il ristabilimento dell’unità dei cristiani. Quanto stretto fosse per Giovanni XXIII il legame tra i due obiettivi e quale valore fondamentale egli accordasse all’ecumenismo è particolarmente palese nella sua decisione, presa durante la quarta congregazione generale nell’ottobre del 1962, di mettere sullo stesso piano delle altre dieci commissioni conciliari il Segretariato per l’unità dei cristiani, da lui fondato nel 1960, con tutti i suoi membri e consultori, decisione –questa- che significava il riconoscimento del suo ruolo particolare.

Il fatto che l’ecumenismo non è assolutamente un tema secondario del Concilio ma una questione che si iscrive proprio al suo centro era anche la convinzione fondamentale del grande Papa conciliare, il beato Papa Paolo VI. Per lui, l’impegno ecumenico era un importante leit motiv anche e precisamente per il rinnovamento conciliare della Chiesa cattolica e per la sua auto-comprensione, così che possiamo parlare di una vera e propria interazione tra l’apertura ecumenica della Chiesa cattolica ed il rinnovamento della sua ecclesiologia[5]. In questo senso, Paolo VI, già all’inizio della seconda sessione del Concilio, nel suo significativo discorso di apertura, al quale l’allora consultore del Concilio Joseph Ratzinger riconobbe un “autentico carattere ecumenico”[6], aveva sottolineato che il riavvicinamento ecumenico tra i cristiani e le Chiese separate era uno degli intenti principali, ovvero il dramma spirituale, per cui il Concilio Vaticano Secondo era stato convocato.[7] Ed al momento della promulgazione del Decreto sull’ecumenismo, egli dichiarò che questo Decreto spiegava e completava la Costituzione dogmatica sulla Chiesa: “ea doctrina explicationibus completa”[8]. Tale espressione mostra inequivocabilmente che Paolo VI non attribuiva minimamente al Decreto sull’ecumenismo un valore teologico inferiore, ma lo associava, nella sua fondamentale importanza teologica, alla Costituzione dogmatica sulla Chiesa.

Analogamente, il santo Papa Giovanni Paolo II, nella sua lungimirante Enciclica sull’impegno ecumenico, Ut unum sint, ha ribadito l’affermazione fondamentale secondo la quale il Decreto sull’ecumenismo “si ricollega prima di tutto all’insegnamento sulla Chiesa della Costituzione Lumen gentium, nel suo capitolo che tratta del popolo di Dio”[9]. In questo senso, egli ha sottolineato che il cammino ecumenico è il cammino della Chiesa ed appartiene “organicamente alla sua vita e alla sua azione”[10]. Davanti ai vari dubbi sorti sia tra i fautori che tra i detrattori dell’ecumenismo, ha osservato in maniera inconfondibile che la decisione presa dalla Chiesa cattolica a favore dell’ecumenismo è irrevocabile, poiché la Chiesa, con il Concilio Vaticano Secondo, “si è impegnata in modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica, ponendosi così all’ascolto dello Spirito del Signore, che insegna come leggere attentamente i ‘segni dei tempi’”[11].

 

2. L’ecumenismo come obbligo giuridico dell’ecclesiologia

Alla luce di quanto appena detto non sorprende che il nuovo Codex Iuris Canonici promulgato da Papa Giovanni Paolo II nel 1983 prevede un obbligo giuridico per la Chiesa cattolica nei confronti dell’ecumenismo. Per Papa Giovanni Paolo II  il rinnovamento postconciliare del diritto canonico doveva mirare a “tradurre in linguaggio canonico” la dottrina del Concilio Vaticano Secondo e più precisamente “la ecclesiologia conciliare”[12]. Il fatto che tale obiettivo gli stesse particolarmente a cuore nella sua attività legislativa egli lo ha dimostrato affermando che il nuovo Codice è il Codice del Concilio ed è “l’ultimo documento conciliare”[13]. Il Papa voleva evidenziare il nesso inscindibile tra l’ecclesiologia conciliare ed il nuovo Codice di diritto canonico anche e soprattutto in riferimento all’impegno ecumenico della Chiesa.[14] Come il Concilio riconosce il movimento ecumenico quale opera dello Spirito Santo ed esorta tutte le membra della Chiesa a partecipare ad esso attivamente, così l’obiettivo del ristabilimento dell’unità dei cristiani rappresenta uno dei motivi decisivi dell’elaborazione del Codice di diritto canonico della Chiesa universale promossa da Giovanni Paolo II. Di conseguenza, nel CIC è contemplato esplicitamente l’obbligo giuridico della Chiesa cattolica di partecipare al movimento ecumenico. Quando vi si afferma espressamente che l’obiettivo del movimento ecumenico è “il ristabilimento dell’unità tra tutti i cristiani” e che la Chiesa è tenuta a promuovere tale fine “per volontà di Cristo”[15], si riconosce nel testamento di Gesù il fondamento del carattere normativo e si può parlare di un obbligo ecumenico iure divino.

Con ciò, si capisce facilmente perché per il Concilio e per il nuovo Codice di diritto canonico la preoccupazione ecumenica di ristabilire l’unità “riguarda tutta la Chiesa”, non solo i pastori ma anche i fedeli, e “tocca ognuno”[16]. Quello che il santo Papa Giovanni Paolo II ha ricordato a chiare lettere a tutta la Chiesa vale in particolar modo per la responsabilità ecumenica del vescovo diocesano[17], a proposito del quale il CIC afferma: “Abbia un atteggiamento di umanità e di carità nei confronti dei fratelli che non sono nella piena comunione con la Chiesa cattolica, favorendo anche l’ecumenismo, come viene inteso dalla Chiesa.”[18] È significativo che l’obbligo giuridico del vescovo diocesano di promuovere l’ecumenismo figuri nel CIC nel contesto della descrizione dei suoi doveri e, più precisamente, dell’esercizio del suo ministero di pastore. L’aver iscritto tale obbligo all’interno di questo quadro evidenzia che la promozione dell’ecumenismo nel ministero del Vescovo diocesano non è né una questione di affabilità personale, né un compito pastorale opzionale che può essere rinviato davanti a priorità apparentemente più importanti. La responsabilità ecumenica nel ministero del vescovo non è una scelta arbitraria ma un compito da assolvere e più precisamente un “sacro compito”[19]. Infatti, essa è implicita nel ministero pastorale del vescovo, che è essenzialmente un servizio all’unità, ovvero a quell’unità che deve però essere intesa in maniera più ampia della semplice unità della propria comunità diocesana e che comprende anche e precisamente i battezzati non cattolici.

L’obbligo giuridico della Chiesa di promuovere l’ecumenismo è formulato in maniera ancora più esplicita, rispetto al Codice del 1983 per la Chiesa latina, nel Codice promulgato nel 1990 da Papa Giovanni Paolo II per le Chiese cattoliche orientali, nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium.[20] L’importanza fondamentale di tale Codice da una prospettiva ecumenica va individuata anzitutto nel fatto che per la prima volta nella sua lunga storia la Chiesa cattolica conosce due diversi codici ed ammette così una certa pluralità nel diritto. Diversamente dal CIC, che non contiene una parte sistematica vera e propria sulla responsabilità ecumenica della Chiesa, ma si riferisce alle questioni ecumeniche in varie norme, il CCEO, oltre a prevedere singoli canoni importanti ecumenicamente, dedica al compito ecumenico della Chiesa un titolo specifico, ovvero il titolo XVIII chiamato “L’ecumenismo cioè la promozione dell’unità dei cristiani”[21]. Dal punto di vista ecumenico, colpisce soprattutto il limite temporale della validità del CCEO. Come già il Decreto sulle Chiese cattoliche orientali nella sua conclusione afferma che tutte le “disposizioni giuridiche” del Decreto sono valide soltanto “per le presenti condizioni”, “fino a che la Chiesa cattolica e le Chiese orientali separate si uniscano nella pienezza della comunione”[22], così anche Papa Giovanni Paolo II, nella sua Costituzione Apostolica “Sacri canones”, sottolinea che i canoni del CCEO hanno validità fino a che “saranno abrogati o verranno modificati dalle più alte autorità della Chiesa per giusti motivi”, il più importante dei quali è “la piena comunione di tutte le Chiese dell’Oriente con la Chiesa cattolica”[23]. Il chiaro limite temporale della validità del CCEO e quindi il carattere transitorio delle sue normative da un punto di vista ecumenico significano concretamente che quando sarà realizzata la piena comunione tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse e le Chiese ortodosse orientali, per il cui ripristino le Chiese cattoliche orientali hanno una responsabilità particolare, la funzione del CCEO sarà compiuta e si dovrà provvedere ad una nuova normativa.

Ripensare all’attività legislativa di Papa Giovanni Paolo II è importante soprattutto perché aiuta, proprio a livello ecumenico, a mantenere sveglia anche nel presente e a promuovere una delle priorità fondamentali del Concilio Vaticano Secondo. Con i suoi due codici di diritto, il santo Papa Giovanni Paolo II ha ricordato a chiare lettere che la responsabilità ecumenica della Chiesa deriva direttamente dall’ecclesiologia conciliare e costituisce, dunque, un obbligo rigoroso.

Dopo questa panoramica sulle conseguenze giuridiche, torniamo ai documenti conciliari e riflettiamo sulla nuova svolta ecumenica che è stata apportata dal Concilio Vaticano Secondo. Tale svolta risiede fondamentalmente nel fatto che, a differenza di quanto era avvenuto nell’epoca preconciliare, fortemente segnata dalla diffusa rivendicazione dell’identificazione esclusiva della Chiesa di Gesù Cristo con la Chiesa cattolica e, di conseguenza, da un concetto di Chiesa monopolizzante, l’auto-comprensione ecclesiologica della Chiesa cattolica è stata formulata dal Concilio in modo così nuovo da includere in essa l’impegno ecumenico, soprattutto affermando che le Chiese e le Comunità non cattoliche vivono con la Chiesa cattolica in una comunione che è tale sebbene non sia ancora piena. Qui di seguito, intendo sviluppare e precisare le caratteristiche di questa svolta alla luce del Decreto sull’ecumenismo.

 

3. Le implicazioni ecumeniche dell’ecclesiologia conciliare

L’intrinseca unione tra ecumenismo ed ecclesiologia emerge già nel proemio del Decreto sull’ecumenismo ed è espressa a chiare lettere fin dalla prima frase, in cui viene descritto il compito ecumenico della Chiesa e menzionato l’intento di tutto il Concilio: “Promuovere il ristabilimento dell'unità fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti del sacro Concilio ecumenico Vaticano II.”[24] L’obbligo della Chiesa cattolica di partecipare al movimento ecumenico viene giustificato teologicamente in base alla convinzione di fede secondo la quale da Cristo “la Chiesa è stata fondata una e unica”. A questa convinzione viene contrapposto il fatto storico, costatabile concretamente anche oggi, che esiste un gran numero di Chiese e Comunità ecclesiali cristiane che propongono se stesse agli uomini “come la vera eredità di Gesù Cristo”. Poiché ciò potrebbe suscitare una fatale impressione, “come se Cristo stesso fosse diviso”, il Concilio afferma che tale separazione “si oppone apertamente alla volontà di Cristo”, è “di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura”[25]. Ecco menzionate le prospettive essenziali che costituiscono il punto di partenza ed il fondamento dell’impegno ecumenico della Chiesa cattolica. Anche a cinquant’anni dalla promulgazione del Decreto sull’ecumenismo, esse non hanno perso niente della loro attualità, tanto più che dobbiamo riconoscere con piena onestà di non avere ancora raggiunto l’obiettivo del movimento ecumenico, ovvero il ristabilimento dell’unità della Chiesa, e di avere ancora molto da fare. È pertanto necessario ritornare alle prospettive fondamentali del Decreto sull’ecumenismo, riscoprirne le basi radicate nell’ecclesiologia conciliare, così come è stata esposta in particolare nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, e chiederci a che punto ci troviamo oggi al riguardo.

a) La dimensione escatologica della Chiesa ed il movimento ecumenico

La Costituzione dogmatica sulla Chiesa, nel suo secondo capitolo, definisce la Chiesa soprattutto come popolo di Dio, in pellegrinaggio su questa terra tra il “già” e il “non ancora” ed in cammino nella storia, evidenziando in tal modo la dimensione escatologica della Chiesa. Poiché intende la Chiesa come un movimento escatologico, la Costituzione dogmatica riprende anche il movimento ecumenico e lo integra in questa dinamica escatologica. In essa, il movimento ecumenico è collegato anche al movimento missionario, così che ecumenismo e missione appaiono come le due forme del cammino escatologico della Chiesa[26]: come la Chiesa nel suo movimento missionario attinge al prezioso patrimonio delle varie culture e dei vari popoli, lo purifica e l’arricchisce, mentre da esso si lascia arricchire, così l’elisir di lunga vita dell’ecumenismo consiste nel reciproco scambio di doni, in cui la Chiesa arricchisce gli altri e fa propri i doni degli altri, per portarli alla pienezza della cattolicità.

Lo stretto legame tra missione ed ecumenismo è emerso in modo particolarmente chiaro durante la prima Conferenza Mondiale sulla Missione tenutasi ad Edimburgo nel 1910; in tale occasione è stato riconosciuto che la divisone della cristianità rappresenta il maggiore ostacolo per il compito missionario dei cristiani. L’idea che la vocazione missionaria della Chiesa e la responsabilità ecumenica sono indissociabili deve essere oggi rivitalizzata. Ciò vale soprattutto per i cosiddetti territori di missione, a cui Papa Francesco fa riferimento in maniera decisa nella sua Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium”: “Data la gravità della controtestimonianza della divisione tra cristiani, particolarmente in Asia e Africa, la ricerca di percorsi di unità diventa urgente. I missionari in quei continenti menzionano ripetutamente le critiche, le lamentele e le derisioni che ricevono a causa dello scandalo dei cristiani divisi.” Pertanto, “l’impegno per un’unità che faciliti l’accoglienza di Gesù Cristo smette di essere mera diplomazia o un adempimento forzato, per trasformarsi in una via imprescindibile dell’evangelizzazione.”[27]

Missione ed ecumenismo sono inscindibilmente legati anche perché la missione si rivolge all’umanità intera e mira in ultima analisi all’unità di tutta l’umanità. Tenendo presente questo obiettivo, la Chiesa concepisce se stessa, come viene sottolineato già nel primo articolo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, come il sacramento della salvezza e più precisamente come “il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”[28]. Da ciò scaturisce l’impellente questione di sapere come può la Chiesa essere sacramento di unità del genere umano se continua ad offrire al mondo l’imbarazzante spettacolo della sua divisione. Ecco il motivo più profondo per cui il Concilio ha il coraggio di definire la spaccatura persistente tra i cristiani come uno “scandalo al mondo” e di chiamare con il suo nome la situazione profondamente anormale della cristianità divisa. Il fatto che i cristiani, che credono in Gesù Cristo quale redentore del mondo e che, nel battesimo, sono incorporati a lui, continuano a vivere in Chiese separate è la realtà più deplorevole che il cristianesimo presenta anche al mondo di oggi e che merita di essere chiamata scandalo. Lo scandalo consiste non solo nel fatto che non possiamo ancora celebrare insieme l’Eucaristia, ma, in maniera più fondamentale, soprattutto nel fatto che noi come Chiese e come cristiani continuiamo ad essere divisi. Le divisioni della Chiesa devono essere viste infatti come divisioni di ciò che, per sua natura, è indivisibile, ovvero l’unità del Corpo di Cristo.

Se prendiamo sul serio questa delicata diagnosi del Concilio, in occasione del cinquantesimo anniversario della promulgazione del Decreto sull’ecumenismo noi cristiani dovremmo chiederci in maniera autocritica se percepiamo ancora, realmente, lo scandalo della divisione dell’unico Corpo di Cristo o se ci siamo già adeguati ad esso e se ci siamo adattati al pluralismo delle Chiese e delle Comunità ecclesiali cristiane al punto da considerare la ricerca dell’unità non solo come irrealistica, ma anche come non auspicabile. La conseguente rinuncia alla ricerca dell’unità rappresenta oggi una particolare tentazione per l’ecumenismo. Non di rado si tenta addirittura di giustificare una simile rinuncia servendosi delle Sacre Scritture ed argomentando che già il Gesù terreno aveva a che fare con un gran numero di gruppi e di fazioni in seno al popolo di Dio, come i farisei e i sadducei, gli zeloti, gli esseni e i samaritani. A questa costatazione giusta di per sé si deve però opporre il fatto che Gesù non aveva accettato la ferita e la frattura del popolo di Dio di allora, ma aveva considerato come sua missione quella di far uscire il popolo di Dio dalle sue divisioni, conducendolo all’unità. D’accordo con il teologo neotestamentario Gerhard Lohfink, dobbiamo vedere l’evento decisivo di tutta l’opera del Gesù terreno nel “radunare il popolo di Dio”, il cui segno più evidente è stata la chiamata e l’istituzione dei dodici: “I discepoli non solo devono aiutare Gesù a radunare il popolo di Dio, ma devono essi stessi essere una parte già realizzata del raduno e dell’unificazione di Israele. Sono il fulcro, il centro nevralgico del popolo di Dio che va rinnovato.”[29]

Un simile punto interrogativo va posto dietro la tesi più volte ripetuta del teologo protestante neotestamentario Ernst Käsemann, con la quale egli ha tentato di giustificare anche le grandi divisioni della Chiesa, affermando che il canone neotestamentario fornisce un fondamento non all’unità della Chiesa, ma alla pluralità delle confessioni.[30] Questa tesi rialza oggi nuovamente la testa, quando ad esempio il Consiglio della Chiesa evangelica in Germania vi fa riferimento nel suo teso base per l’Anniversario della Riforma del 2017, interpretando ed elogiando le Chiese nate dalla Riforma come “parte del pluralismo legittimo, in quanto conforme alle Scritture, delle Chiese cristiane”[31]. Contro tale posizione è stato giustamente osservato che è un tentativo anacronistico il voler riportare al Nuovo Testamento l’attuale situazione -risultato di sviluppi storici- in cui Chiese e Comunità cristiane si trovano a vivere separate, le une accanto alle altre. Il Cardinale Walter Kasper ha osservato con acutezza: “Una simile coesistenza e un simile pluralismo di chiese confessionali distinte e diverse sarebbero un’idea assolutamente insopportabile per Paolo.”[32] Ad avere il suo fondamento nelle Sacre Scritture non è la canonizzazione del pluralismo delle Chiese che si spinge fino alle divisioni, ma la ricerca dell’unità.

La conversione, che è l’atteggiamento ecumenico di fondo voluto dal Decreto sull’ecumenismo, deve essere pertanto oggi innanzitutto una conversione all’appassionata ricerca dell’unità. Nella convinzione che non può esserci nessun vero ecumenismo senza conversione, il Decreto sull’ecumenismo comprende il movimento ecumenico precisamente come un movimento di conversione. Nella fedeltà al Concilio, soprattutto il santo Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica sull’impegno ecumenico, Ut unum sint, ha fatto presente che “l’inerzia, l’indifferenza ed una insufficiente conoscenza reciproca” aggravano la situazione ecumenica odierna e che l’impegno ecumenico deve fondarsi sulla “conversione dei cuori e sulla preghiera” e deve condurre “alla necessaria purificazione della memoria storica”[33]. A suo parere, l’intero Decreto sull’ecumenismo è “pervaso dallo spirito di conversione”[34]. In primo luogo, non si tratta della conversione degli altri, ma della propria, che presuppone la disponibilità a riconoscere in maniera critica le proprie debolezze e le proprie mancanze. Tale conversione presuppone soprattutto lo sforzo costante di prendere come metro di misura il Vangelo di Gesù Cristo e la volontà di ripristinare quell’unità che è il prerequisito essenziale per una credibile missione cristiana della Chiesa in cammino nella storia fino alla pienezza escatologica.

b) L’ecumenismo alla luce dell’ecclesiologia di communio del Concilio

L’interpretazione della Chiesa come popolo di Dio nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa apre un’ulteriore prospettiva ecumenica. Secondo Joseph Ratzinger nel suo Commento alla Costituzione sulla Chiesa uscito poco tempo dopo la conclusione del Concilio, la decisione del Concilio di attribuire una particolare importanza al secondo capitolo sul popolo di Dio è dovuta anche a motivi ecumenici e si basa sul fatto che, con questo concetto di Chiesa, si riesce ad esprimere meglio, rispetto all’immagine del Corpo di Cristo, l’appartenenza alla Chiesa cattolica, per gradi diversi, delle comunità non cattoliche[35]. Ecco profilarsi l’orientamento essenziale della visione ecumenica del Concilio Vaticano Secondo, che consiste in un’ecclesiologia per gradi diversi, secondo la quale le Chiese e le Comunità ecclesiali non cattoliche partecipano all’unità ed alla cattolicità della Chiesa cattolica in gradi diversi e vivono con lei in una non piena comunione. Nella visione ecumenica cattolica, la distinzione tra una comunione piena ed una comunione non ancora piena è dunque costitutiva. Ciò significa che l’obiettivo dell’ecumenismo è il ristabilimento della piena communio e che il concetto conciliare dell’ecumenismo ha alla base l’ecclesiologia della communio[36], che, secondo l’importante articolo 4 della Costituzione sulla Chiesa, si forma sul modello della communio trinitaria e va dunque intesa come icona della Trinità.

Il fondamento teologico di questa ecclesiologia di communio e della conseguente ecclesiologia per gradi diversi, che denota dunque un’apertura ecumenica, va individuato nel battesimo, che è quel sacramento della fede in base al quale tutti i battezzati appartengono all’unico Corpo di Cristo. I cristiani non cattolici si trovano dunque non al di fuori dell’unica Chiesa, ma vi appartengono già in modo fondamentale, come sottolinea espressamente l’articolo 15 della Costituzione sulla Chiesa: “La Chiesa sa di essere per più ragioni congiunta con coloro che, essendo battezzati, sono insigniti del nome cristiano, ma non professano integralmente la fede o non conservano l’unità di comunione sotto il successore di Pietro.” Dato che il battesimo è la porta di accesso alla Chiesa e quindi anche all’ecumenismo e poiché il battesimo ed il suo reciproco riconoscimento sono il fondamento di ogni sforzo ecumenico, l’ecumenismo cristiano è sempre un “ecumenismo battesimale”[37].

Questo essenziale concetto ecclesiologico costituisce il punto di partenza del Decreto conciliare sull’ecumenismo, che già nel primo capitolo sui “Principi cattolici sull’ecumenismo” riconosce nel battesimo il fondamento dell’appartenenza di tutti i cristiani alla Chiesa: “Coloro infatti che credono in Cristo ed hanno ricevuto validamente il battesimo, sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica.”[38] Da ciò derivano importanti conseguenze nel terzo capitolo sulle “Chiese e Comunità ecclesiali separate dalla Sede Apostolica Romana”: nella descrizione delle Comunità ecclesiali separate in Occidente, prima della menzione dei loro deficit ecclesiologici come “la mancanza del sacramento dell’ordine” ed il fatto che non hanno conservato “la genuina ed integra sostanza del mistero eucaristico”, viene evidenziato con particolare enfasi il battesimo che, debitamente conferito e ricevuto nella fede, incorpora i battezzati al Cristo crocifisso e glorificato e li rigenera perché possano partecipare alla vita divina. Si afferma dunque che il battesimo è “il vincolo sacramentale dell’unità che vige tra tutti quelli che per mezzo di esso sono stati rigenerati”[39].

Dall’importanza fondamentale rivestita dal battesimo e dal suo reciproco riconoscimento per ogni sforzo ecumenico non deve però essere tratta la conclusione che il battesimo ed il suo riconoscimento sono la base sufficiente per una comunione eucaristica ecumenica. Il Decreto sull’ecumenismo osserva infatti che il battesimo è “soltanto l’inizio e l’esordio”, poiché esso tende interamente “all’acquisto della pienezza della vita in Cristo” ed è pertanto ordinato “all’integra professione della fede, all’integrale incorporazione nell’istituzione della salvezza, quale Cristo l’ha voluta, e infine alla piena inserzione nella comunità eucaristica”[40]. Il Decreto sull’ecumenismo sottolinea dunque esplicitamente che alle Comunità ecclesiali da noi separate manca “la piena unità con noi derivante dal battesimo”[41]. Questa costatazione implica che il battesimo, quale vincolo sacramentale comune, permette una comunione fondamentale per quanto incompleta, ma è soltanto l’inizio e l’esordio della vita cristiana e della comunione ecclesiale, mentre l’eucaristia rappresenta la sua pienezza ed il suo culmine.

Da questo rapporto tra battesimo ed eucaristia si capisce oggi dove si colloca precisamente l’ecumenismo, che si situa tra la comunione fondamentale nel vincolo sacramentale del battesimo da una parte e, dall’altra, la piena comunione nell’eucaristia, non ancora possibile. Per compiere ulteriori passi sul cammino del battesimo comune verso la comunione eucaristica –oggi non ancora realizzabile- occorre prendere radicalmente sul serio il battesimo e trarre le dovute conseguenze dal consenso di base conseguito sulla dottrina del battesimo, per una comunione ecclesiale più vincolante. Le implicazioni ecclesiologiche della dottrina sul battesimo devono pertanto figurare, ancora di più, tra i punti all’ordine del giorno dei dialoghi ecumenici.[42]

c) La professione della Chiesa una ed unica

L’ecclesiologia per gradi diversi del Concilio Vaticano Secondo è comprensibile soltanto sullo sfondo della sua fondamentale convinzione che Gesù ha fondato “una Chiesa una ed unica”. Il Decreto sull’ecumenismo riprende dunque la professione della Chiesa una e unica, che corrisponde al primo dei quattro attributi essenziali che contraddistinguono la Chiesa nel credo niceno costantinopolitano, ovvero l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità. In questa professione di fede tutti i cristiani sono concordi. Tuttavia i cristiani, sebbene professino la Chiesa una e unica, vivono in Chiese e Comunità ecclesiali divise. Da ciò deriva il compito teologico di mantenere salda la convinzione cristiana dell’unicità della Chiesa e dimostrarne la validità anche e precisamente davanti alle divisioni che permangono nella Chiesa.[43]

Il fatto che vi siano svariate divisioni non significa che la Chiesa “una ed unica” non esiste più o non esiste ancora; il Concilio, piuttosto, è convinto che essa in realtà esiste già. L’ecclesiologia conciliare si trova dunque, dal punto di vista ecumenico, davanti alla sfida basilare di rendere conto sia dell’unicità che della concretezza storica della Chiesa. Questo è un importante banco di prova per l’ecclesiologia conciliare. Se infatti si abbandonasse la convinzione dell’unicità della Chiesa, ne risulterebbe un “relativismo ecclesiale”, nel senso che la Chiesa esisterebbe solo al plurale. Se, invece, si abbandonasse la convinzione della concretezza storica della Chiesa, la conseguenza sarebbe un “misticismo ecclesiale”, nel senso che l’unica Chiesa esisterebbe soltanto come idea platonica.[44]

Evitando questi due estremi, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, ha espresso ed ha tentato di risolvere questa difficile questione con la famosa formula del “subsistit”, la quale, secondo il giudizio dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger, cela in sé “l’intero problema ecumenico”[45] e sul cui significato Gérard Philips, redattore della Costituzione sulla Chiesa, aveva predetto che si sarebbe versato ancora molto inchiostro[46]. Questa formula, nel suo nocciolo elementare, afferma che l’unica e vera Chiesa di Gesù Cristo “sussiste” nella Chiesa cattolica, che vive in comunione con il Vescovo di Roma e con gli altri vescovi; ciò significa che essa è presente concretamente e riscontrabile permanentemente[47]. Secondo questa convinzione ecclesiologica di fondo del Concilio, l’unica Chiesa di Gesù Cristo non va intesa come un’entità celata dietro le diverse comunità ecclesiali, la quale poi si realizzerebbe in varie realtà ecclesiali in modo differenziato; essa è piuttosto una realtà che già ora esiste ed ha un luogo concreto nella storia, nel quale è riconoscibile permanentemente. La formula ecclesiologica del “subsistit” esprime dunque “l’aspetto particolare e non moltiplicabile della Chiesa cattolica”: presenta “la Chiesa come soggetto nella realtà storica.”[48] L’unità della Chiesa da ripristinare nel movimento ecumenico non è quindi un’entità che fluttua in maniera indefinita; essa ci è già donata nella Chiesa cattolica, anche se non ancora nella sua vera pienezza cattolica a causa delle varie divisioni.

A questa visione di unità della Chiesa si collega l’ulteriore convinzione ecclesiologica del Concilio che “la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti” non devono essere considerate come “due cose diverse”, ma formano “una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino”[49]. Poiché per la Chiesa l’essere corpo è fondamentale e dato che la Chiesa und e unica ha una forma concreta, l’unità da ripristinare può essere soltanto un’unità visibile, come ha sottolineato il teologo neotestamentario Gerhard Lohfink: noi non dobbiamo negare “la reale lacerazione della Chiesa e cercare un sostituto nell’interiorità o nell’invisibilità. La vera unità può essere soltanto un’unità corporalmente visibile, percepibile, tangibile. Altrimenti non corrisponderebbe alla legge fondamentale della creazione e della storia della salvezza.”[50]

Con ciò tocchiamo uno dei punti ancora controversi nell’attuale discussione ecumenica, come dimostra chiaramente il confronto teologico che Papa  Benedetto XVI intraprende con l’esegeta protestante Rudolf Bultmann nell’interpretazione della preghiera sacerdotale di Gesù presentata nella seconda parte del suo libro su Gesù di Nazareth.[51] Per Bultmann, la vera unità dei discepoli è, alla luce del Vangelo di Giovanni, “invisibile”, poiché “non è affatto un fenomeno mondano”. Di questa doppia affermazione, Benedetto XVI condivide pienamente la seconda parte, mentre rimette completamente in discussione la prima. Il fatto che l’unità dei discepoli e, quindi, anche l’unità della Chiesa futura, invocata da Gesù, non sia “un fenomeno mondano” e non possa esserlo, è ovvio per il Papa, che lo afferma chiaramente: “l’unità non viene dal mondo; non è possibile trarla dalle forze proprie del mondo. Le stesse forze del mondo conducono alla divisione: noi lo vediamo.”[52] Benedetto XVI condivide con l’esegeta protestante l’idea che l’unità dei discepoli non può venire dal mondo tanto quanto ne disapprova la conclusione, ovvero che l’unità è invisibile. Anche se l’unità non è un fenomeno mondano, lo Spirito Santo opera pur sempre nel mondo. L’unità dei discepoli deve dunque essere tale che il mondo possa riconoscerla e, tramite essa, pervenire alla fede: “Ciò che non proviene dal mondo può e deve assolutamente essere qualcosa che sia efficace nel e per il mondo e sia anche percepibile da esso. La preghiera di Gesù per l’unità ha di mira proprio questo, che mediante l’unità dei discepoli la verità della sua missione si renda visibile agli uomini”.[53]

A questa enfasi posta sulla visibilità dell’unità dei discepoli e dunque della Chiesa si deve la formula di base ecclesiologica del “subsistit”, con la quale il Concilio Vaticano Secondo voleva conciliare e mantenere unite soprattutto due convinzioni: da un lato, voleva confermare e rinnovare la tradizionale affermazione secondo la quale la vera Chiesa una e unica di Gesù Cristo esiste in maniera irrevocabile nella Chiesa cattolica. Nel sostituire l’ “est” precedente con il “subsistit in” e nel presentare così questa nuova formula come una “clausola che segna un’apertura”[54] ecumenica, il Concilio voleva, dall’altro lato, far posto al riconoscimento dell’esistenza di elementi della vera Chiesa di Gesù Cristo anche al di fuori dei confini della Chiesa cattolica, nella convinzione che, come ha sottolineato poi espressamente il santo Papa Giovanni Paolo II, oltre i limiti della comunità della Chiesa cattolica non c’è “il vuoto ecclesiale”: “Parecchi elementi di grande valore (eximia) che, nella Chiesa cattolica sono integrati alla pienezza dei mezzi di salvezza e dei doni di grazia che fanno la Chiesa, si trovano anche nelle altre Comunità cristiane.”[55]

Con tali affermazioni non viene ripristinata quell’ecclesiologia che nel passato era chiamata “ecclesiologia degli elementi”, la quale dà l’impressione di basarsi fortemente su un aspetto quantitativo e che era a ragione criticata già durante il Concilio. Il Concilio Vaticano Secondo non considera infatti le Comunità non cattoliche come realtà che hanno conservato una rimanenza, definibile quantitativamente, di elementi della fede, ma, conformemente all’ecclesiologia di communio conciliare, come realtà totali che vivono questi elementi all’interno del loro concetto ecclesiologico complessivo. Con Papa Benedetto XVI, possiamo addirittura dire che in questo modo è “creato il plurale Chiese accanto allo spazio singolo”[56].

d) La distinzione cruciale tra Chiese e Comunità ecclesiali

Lo sviluppo dell’ecclesiologia conciliare di comunione anche in riferimento alla questione ecumenica ha permesso al Concilio Vaticano Secondo, davanti alle tante scissioni e divisioni verificatesi nei duemila anni di storia del cristianesimo, di distinguere due tipi fondamentali di divisione dellaChiesa. Nel suo terzo capitolo, che presenta le Chiese e le Comunità ecclesiali separate dalla Sede Apostolica Romana in Oriente ed in Occidente ed accenna ai passi da intraprendere sul cammino della riconciliazione verso l’unità, il Decreto sull’ecumenismo afferma, in modo introduttivo, che occorre prestare attenzione alle “due principali categorie di scissioni che hanno intaccato l’inconsutile tunica di Cristo”[57], ovvero, da un lato, il grande scisma dell’ XI secolo tra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente e, più esattamente, tra Roma ed i Patriarcati orientali e, dall’altro, le divisioni all’interno della Chiesa d’Occidente nel XVI secolo. Tra le due categorie di scissioni viene fatta una distinzione non solo relativa all’epoca storica ed alla geografia, ma anche e soprattutto alla sostanza: mentre, nel caso della divisione tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, è stata conservata in entrambe le Chiese la struttura ecclesiologica fondamentale formatasi a partire dal secondo secolo, ovvero la struttura eucaristica ed episcopale, le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma hanno sviluppato un tipo nuovo e diverso di essere chiesa.

Il Concilio si è dovuto quindi confrontare con la difficile questione ecclesiologica di come definire queste diverse Comunità non cattoliche. Riguardo alle Chiese orientali non vi era alcuna difficoltà nel definirle Chiese, poiché esse, avendo il ministero episcopale nella successione apostolica e tutti i sacramenti validi, possiedono gli elementi ecclesiali essenziali che fanno di loro Chiese particolari, anche se manca, quale fondamento gerarchico dell’unità tra tutte le Chiese particolari, il rapporto vincolante con colui che detiene il ministero petrino. Per quanto riguarda invece le Comunità dell’Occidente nate dalla Riforma, si pone il problema di sapere se il termine Chiesa in senso teologico possa essere impiegato anche là dove non c’è -almeno non con sicurezza- il ministero episcopale nella successione apostolica e dove solo una parte dei sacramenti è riconosciuta. Come riferisce Johannes Feiner nel suo commento al Decreto sull’ecumenismo[58], i padri conciliari espressero al riguardo opinioni molto divergenti. Mentre gli uni auspicavano che anche le Comunità non cattoliche dell’Occidente venissero chiamate “Chiese” in maniera analoga, gli altri obiettavano che una Comunità ecclesiale nella quale non vi è il ministero episcopale nella successione apostolica non può essere chiamata “Chiesa” a meno che, per rivendicare questa definizione, basti una comunione imperfetta con la Chiesa cattolica. Davanti a questo pesante dissenso, il Cardinale Franz König di Vienna avanzò nel dibattito conciliare un suggerimento[59] che alla fine s’impose, proponendo di chiamare tali Comunità “communitates ecclesiales” per riconoscere il fatto, da un lato, che esse hanno un carattere ecclesiale e realizzano la missione della Chiesa tra i loro fedeli e per ribadire, dall’altro, che a queste Comunità ecclesiali mancano, da un punto di vista cattolico, elementi costitutivi per essere pienamente Chiesa. In riferimento alle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, il Decreto sull’ecumenismo menziona quali deficit essenziali “la mancanza del sacramento dell’ordine” e, di conseguenza, il fatto che non hanno conservato “la genuina ed integra sostanza del mistero eucaristico”[60].

Pertanto, per il Concilio Vaticano Secondo, il ministero episcopale nella successione apostolica e la validità dell’eucaristia sono i criteri decisivi per l’attribuzione del termine “Chiesa” alle Comunità separate dalla Chiesa cattolica, poiché, secondo l’ecclesiologia cattolica, si può parlare di Chiesa in senso proprio là dove vi sono il ministero episcopale nella successione sacramentale degli apostoli e l’eucaristia quale sacramento presieduto dal vescovo e dal sacerdote.[61] Questo tema ecclesiologico fondamentale è stato ripreso, nel Giubileo dell’anno 2000, dalla Congregazione per la dottrina della fede con la sua “Dichiarazione sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa”. In questo documento, si riconoscono le Chiese orientali come “vere Chiese particolari” e si afferma, a proposito di quelle Comunità ecclesiali che “non hanno conservato l’Episcopato valido e la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico”, che esse “non sono Chiese in senso proprio”, ma che in tali comunità i battezzati, in virtù del battesimo, “sono in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa”.[62] Questa differenziazione accentuata in “Dominus Iesus” tra Chiese e Comunità ecclesiali ha sollevato, da un lato, aspre critiche negli ambienti ecumenici[63] ed ha suscitato molte controversie[64]. Dall’altro, chi conosce la materia sa che questa Dichiarazione non afferma niente di nuovo. Infatti, non si può negare l’esistenza di un’ecclesiologia molto diversa nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali; ad esempio, essa viene chiaramente confermata dalla Chiesa evangelica in Germania che afferma a chiare lettere che il concetto protestante del sacerdozio di tutti i fedeli ha condotto, grazie alla Riforma, ad un “ordinamento completamente nuovo della natura della Chiesa”, per cui esistono parroci “soltanto per l’ordinamento”, ma in principio ogni cristiano “può amministrare i sacramenti, ovvero può battezzare e celebrare la Cena del Signore”[65].

Per rendere giustizia a entrambe le parti in questa problematica, il Cardinale Walter Kasper, nei confronti delle Comunità nate dalla Riforma, ha proposto di parlare di un altro tipo di Chiesa[66]. Questa terminologia è stata ripresa anche da Papa Benedetto XVI nel libro-intervista con Peter Seewald “Luce del mondo”, quando sottolinea che le Chiese nate dalla Riforma sono “Chiese in maniera diversa”: “non sono, come esse stesse affermano, Chiese inserite nella grande tradizione antica, bensì scaturite da una nuova concezione”.[67] Questa precisazione linguistica mostra quanto sia necessario un chiarimento dell’ecclesiologia a livello di contenuto, che fino ad oggi non è stato realizzato in maniera soddisfacente nei dialoghi ecumenici. Esso rappresenta uno dei principali lasciti teologici dell’interpretazione di Chiesa e di ecumenismo offerta dal Concilio Vaticano Secondo ed oggi deve essere posto al centro delle conversazioni ecumeniche.

e) Unità ecumenica nella diversità

La forte enfasi posta sulla visibilità storica e sulla concreta corporeità della Chiesa e della sua unità potrebbe dare l’impressione che non c’è posto per la diversità nell’ecclesiologia conciliare. L’erroneità di questa impressione si rivela nel momento in cui consideriamo i passi avanti, importanti da un punto di vista ecumenico, compiuti dal Concilio Vaticano Secondo con la riscoperta della peculiare ed inconfondibile struttura costituzionale della Chiesa cattolica, che può essere paragonata in maniera calzante ad un’ellisse con due fuochi, che sono l’unità della Chiesa universale e la molteplicità e diversità delle Chiese locali: la Chiesa cattolica ha una struttura al contempo di Chiesa universale e di chiese locali.[68] L’ecclesiologia cattolica è dunque caratterizzata da questa interrelazione tra il singolare “Chiesa” ed il plurale “chiese”, nel senso che la Chiesa universale consiste nelle -ed è costituita dalle- molte chiese locali e, viceversa, le molte chiese locali esistono come Chiesa una e unica.[69] In questa interrelazione, fondamentale per il rinnovamento conciliare dell’ecclesiologia, è già presente “il problema ecumenico nella sua interezza”[70]. In campo ecumenico, con il plurale “Chiese” non s’intendono le tante chiese locali o chiese sorelle nelle quali è presente la Chiesa una e universale, ma quelle Comunità ecclesiali che esistono al di fuori della piena unità della Chiesa cattolica. Alla luce di ciò, sorge il problema di capire come la Chiesa cattolica possa e debba comportarsi nei confronti di questo plurale di “Chiese” che esistono al di fuori dei suoi confini ovvero nell’indipendenza di Comunità separate confessionalmente.[71]

Questa tematica fa trasparire quello che è l’obiettivo di ogni sforzo ecumenico; e con ciò ci troviamo al centro delle discussioni ecumeniche odierne. Il problema principale va diagnosticato nel fatto che, tra le varie Chiese e Comunità ecclesiali, non si è ancora pervenuti ad un consenso realmente solido sull’obiettivo ecumenico ed alcuni consensi parziali conseguiti nel passato sono stati rimessi in discussione, cosicché l’obiettivo dell’ecumenismo è diventato sempre più confuso con il passare del tempo. In questo va ravvisato il cruciale paradosso dell’attuale situazione ecumenica. Infatti, se i vari partner ecumenici non hanno davanti a loro un obiettivo comune, corrono il rischio di incamminarsi in direzioni diverse, per finire poi col rendersi conto che si trovano ancora più lontani di prima gli uni dagli altri. Ecco perché è urgente verificare quale è la direzione che deve prendere il viaggio ecumenico.

La Chiesa cattolica ed anche le Chiese ortodosse rimangono fedeli all’obiettivo originario dell’unità visibile nella fede, nei sacramenti e nei ministeri ecclesiali. Alla base di tale obiettivo vi è la convinzione -presente già nella Chiesa primitiva- dell’indivisibilità della comunione ecclesiale e confessionale, cosicché tutti gli sforzi ecumenici sono tesi al riconoscimento reciproco delle varie Chiese e Comunità ecclesiali quali Chiese sorelle in virtù della confessione comune. L’interrelazione tra il singolare “Chiesa” ed il plurale “Chiese”, fondamentale per l’ecclesiologia conciliare, implica dunque, dal punto di vista ecumenico, che l’unità ecumenica della Chiesa da ripristinare deve essere compresa e modellata nel senso di un’unità di Chiese che, pur rimanendo Chiese, diventano un’unica Chiesa. Pertanto, l’obiettivo del movimento ecumenico consiste, da una prospettiva cattolica, nel “trasformare il plurale delle Chiese confessionali separate nel plurale delle chiese locali, che, nella loro molteplicità di forme, sono realmente la Chiesa una e unica”[72].

Tuttavia, questo obiettivo originario è stato progressivamente abbandonato da non poche Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma a favore del postulato di un mutuo riconoscimento delle diverse realtà ecclesiali come Chiese e dunque come parti della Chiesa una e unica di Gesù Cristo.  Con tale postulato, è vero, non si afferma un’invisibilità sostanziale dell’unità della Chiesa; ma l’unità visibile della Chiesa risulta essere una mera somma delle varie comunità ecclesiali. Questa nuova definizione di obiettivo ecumenico ha trovato senza dubbio la sua più chiara espressione nella Concordia di Leuenberg firmata nel 1973, con cui quel modello di comunione di Chiese è stato concordato tra le Chiese protestanti nella comunione di Chiese di Leuenberg.[73] La Concordia di Leuenberg si concepisce come una comunione di Chiese confessionalmente diverse, le quali, in virtù di una comune comprensione del Vangelo, incentrata sulla dottrina della giustificazione, si offrono reciprocamente una comunione di Parola e sacramento, che comprende il mutuo riconoscimento delle rispettive ordinazioni, cosicché la comunione di Chiese è essenzialmente una comunione di pulpito e di Cena del Signore. Con questa comunione, si ritiene che l’obiettivo ecumenico sia già stato realizzato; ne consegue che le Chiese separate continuano a rimanere realtà istituzionali indipendenti, mantenendo la propria identità confessionale, ma si riconoscono reciprocamente come Chiese. La Concordia di Leuenberg è il caratteristico “modello protestante di unità ecclesiale”[74] ed è seguito all’interno del protestantesimo. Il problema è che le Chiese e le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma considerano questo modello valido anche per l’ecumenismo, senza tenere sufficientemente conto del fatto che esso contrasta marcatamente con il concetto cattolico di unità ecclesiale ed ecumenica.

f) L’unità della Chiesa e l’obiettivo ecumenico

Sul fatto che non sia stato ancora possibile pervenire ad un’intesa realmente soddisfacente sull’obiettivo dell’ecumenismo dobbiamo ulteriormente riflettere. Si capirà allora che il motivo fondamentale di tale insuccesso risiede nel fatto che tutte le Chiese e le Comunità ecclesiali hanno e seguono nella pratica un proprio concetto confessionale di quella che è l’unità della loro Chiesa e si sforzano di trasporre tale concetto confessionale all’obiettivo stesso dell’ecumenismo. Che esistano tanti concetti di obiettivo ecumenico quante ecclesiologie confessionali[75] traspare anche dal paragone che possiamo brevemente fare tra l’ecclesiologia protestante e l’ecclesiologia cattolica.

Innanzitutto dobbiamo tener presente che la tradizione riformata è stata in gran parte contrassegnata da un risoluto rifiuto del termine stesso di Chiesa. Già il riformatore Martin Lutero aveva definito il termine “Chiesa” come una “parola cieca e confusa”, come un concetto negativo, ed aveva preferito esprimere la natura teologica della Chiesa con il termine “comunità”. Tale rifiuto del termine Chiesa prosegue nella storia del protestantesimo fino a Karl Barth, che, certo, è autore di una “dogmatica ecclesiale”, ma ritiene “consigliabile teologicamente” “evitare, se non del tutto almeno per quanto possibile, la parola «Chiesa» oscura e pesantemente connotata e, ad ogni modo, interpretarla subito e coerentemente con la parola «comunità»”[76]. In contrasto con la loro stessa tradizione, ora le Chiese protestanti si concepiscono risolutamente come Chiese. Hanno tuttavia mantenuto nella loro ecclesiologia l’enfasi posta sul concetto di comunità. L’ecclesiologia protestante ha infatti il suo punto focale ed il suo centro gravitazionale nella comunità locale concreta. Tale interpretazione ha trovato la sua formulazione classica nell’articolo 7 della Confessio Augustana, che definisce la Chiesa come l’assemblea dei fedeli in cui si insegna il Vangelo nella sua purezza e si amministrano correttamente i sacramenti. Poiché ciò avviene nella comunità locale, la comunità locale è la realizzazione prototipa della Chiesa. Ecco che sorge allora l’ulteriore questione ecclesiologica di capire quale importanza ecclesiale spetti alla Chiesa nel campo più ampio della diocesi, della Chiesa nazionale e della Chiesa universale. La necessità di un chiarimento teologico in questo contesto risulta evidente ad esempio in riferimento alle alleanze confessionali mondiali come la Federazione Luterana Mondiale o l’Alleanza Mondiale delle Chiese Riformate, che non sono Chiese ma alleanze di Comunità ecclesiali e sono, al massimo, in via di trasformazione da alleanze di Chiese a Comunità di Chiese. Da ciò si capisce anche perché l’ecclesiologia protestante non riconosce una teologia –ammessa da tutti- del ministero episcopale come servizio all’unità al livello regionale della Chiesa e tantomeno ammette una teologia del ministero dell’unità al livello della Chiesa universale. Se infatti si vede nella singola comunità concreta la forma decisiva in cui la Chiesa si realizza, allora anche il ministero del pastore della comunità risulta essere il prototipo del ministero ecclesiale ed il ministero episcopale non sarà altro che il ministero di pastore con funzioni direttive nella chiesa a livello regionale.

Il fatto che la Chiesa sia presente in ogni comunità nella quale viene proclamata la Parola di Dio e nella quale i sacramenti sono correttamente amministrati è evidente anche nella dottrina cattolica. Secondo l’ecclesiologia cattolica, la Chiesa di Gesù Cristo è pienamente presente nella comunità eucaristica concreta, ma la singola comunità eucaristica non è la Chiesa piena. Pertanto, l’unità delle singole comunità eucaristiche in comunione con il vescovo locale e con il Vescovo di Roma è costitutiva per l’essere Chiesa al punto che la Chiesa in ultima analisi deve essere considerata come una rete mondiale di comunità eucaristiche, in cui il Vescovo di Roma ha il “primato nella carità”, come ha affermato Ignazio di Antiochia. È chiaro allora che l’ecclesiologia cattolica è caratterizzata da una spiccata dimensione universale, denotata non dal contrasto con le diverse chiese locali, ma dall’interrelazione tra l’unità della Chiesa universale e la diversità delle chiese locali. Dal punto di vista cattolico, la Chiesa è al contempo communio ecclesiae e communio ecclesiarum. Essa ha una natura universale ed al contempo locale, una costituzione sia papale che episcopale e, pertanto, un servitore dell’unità a tutti i livelli, ovvero il parroco al livello locale, il vescovo al livello regionale ed il Papa al livello universale.

Se si tengono presenti le varie ecclesiologie confessionali ed i diversi concetti di unità della Chiesa, vedremo confermata l’idea precedentemente espressa che il mancato consenso sull’obiettivo dell’ecumenismo è dovuto al mancato consenso ecumenico sull’essenza della Chiesa e sulla sua unità e dovremo ammettere la necessità, dal punto di vista ecumenico, di maggiori chiarimenti nel campo dell’ecclesiologia, nel senso che si dovrà affrontare non solo la questione di cosa è la Chiesa, ma anche e soprattutto la questione di dove è la Chiesa e dove essa sussiste concretamente.

 

4. L’ecclesiologia conciliare e l’ecumenismo come Magna Charta della Chiesa cattolica

Ci auguriamo che l’anniversario della Riforma del 2017 possa spingere le Chiese e le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma a ricercare un ulteriore chiarimento. In primo piano dovrà esserci la questione di come oggi queste Comunità ecclesiali considerano la Riforma: come nel passato, come una rottura con la tradizione della cristianità che ha dato inizio a qualcosa di nuovo, oppure nella permanente continuità con tutta la tradizione della Chiesa universale, della quale cattolici e protestanti hanno in comune 1500 anni. Si tratta di quella domanda che già anni fa il Cardinale Walter Kasper, allora Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, aveva rivolto alle Comunità riformate in riferimento alla futura commemorazione dell’anniversario della Riforma, per capire se esse vedevano la Riforma come “un nuovo paradigma”, che “prende marcatamente le distanze da ciò che è cattolico a causa di una differenza di fondo permanente detta «protestante»” oppure se la consideravano nel senso ecumenico come “riforma e rinnovamento della Chiesa una e universale”[77]. Dalla risposta a questa domanda dipende non soltanto il modo in cui noi cattolici possiamo partecipare alla commemorazione della Riforma, ma anche e soprattutto il modo in cui dovrà proseguire il dialogo ecumenico della Chiesa cattolica con le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma.[78]

Con ciò, ritorniamo alla nostra riflessione di partenza sul fatto che un ecumenismo credibile e vincolante presuppone una chiara conoscenza teologica della natura della Chiesa. Se desideriamo compiere ulteriori passi sul cammino verso l’unità ecumenica, una riflessione ecumenica chiarificatrice sul concetto di Chiesa e di unità dovrà essere all’ordine del giorno dei futuri dialoghi ecumenici. Questa è la sfida tuttora attuale che, a cinquant’anni dalla sua promulgazione, continua a porci il Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano Secondo, il quale fa derivare la responsabilità ecumenica della Chiesa direttamente dall’ecclesiologia conciliare. L’ecclesiologia e l’ecumenismo del Concilio Vaticano Secondo costituiscono infatti la Magna Charta della Chiesa cattolica anche nel presente, anche nel futuro.

 

 

NOTE

[1] Prolusio per la Plenaria del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, 18 novembre 2014.

[2] Orientalium ecclesiarum, n. 24.

[3] Vgl. W. Kardinal Kasper, Das Ökumenismusdekret des Zweiten Vatikanischen Konzils und seine bleibende theologische Verbindlichkeit, in: Ders., Wege der Einheit. Perspektiven für die Ökumene (Freiburg i. Br. 2005 ) 16-25.

[4] K. Kardinal Lehmann, Das II. Vatikanum – ein Wegweiser. Verständnis – Rezeption –Bedeutung, in: P. Hünermann (Hrsg.), Das Zweite Vatikanische Konzil und die Zeichen der Zeit heute (Freiburg i. Br. 2006) 11-26, zit. 18.

[5] Vgl. H. J. Pottmeyer, Die Öffnung der römisch-katholischen Kirche für die Ökumenische Bewegung und die ekklesiologische Reform des 2. Vatikanums. Ein wechselseitiger Einfluss, in: Paolo VI e l’Ecumenismo. Colloquio Internationale di Studio Brescia 1998 (Brescia-Roma 2001) 98-117.

[6] J. Ratzinger, Das Konzil auf dem Weg. Rückblick auf die zweite Sitzungsperiode des Zweiten Vatikanischen Konzils (Köln 1964) 21.

[7] Ench. Vat. Vol 1 Documenti del Concilio Vaticano II, 104 f.

[8] Ibid.

[9] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 8.

[10] Ibid, n. 20.

[11] Ibid, n. 3.

[12] Giovanni Paolo II, Costituzione Apostolica “Sacrae disciplinae leges” per la promulgazione del nuovo Codice di Diritto Canonico di 25 gennaio 1983.

[13] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al corso sul nuovo codice di diritto canonico, il 21 novembre 1983.

[14] Vgl. K. Koch, L’attività legislativa di Giovanni Paolo II e la promozione dell’unità dei cristiani, in: L. Gerosa (ed.), Giovanni Paulo II: Legislatore della Chiesa. Fondamenti, innovazioni e aperture. Atti del Convegno di Studio (Vaticano 2013) 160-177.

[15] Canone 755 - § 1 CIC 1983.

[16] Unitatis redintegratio, n. 5.

[17] Vgl. K. Koch, Il Vescovo e l´ecumenismo, in: Congregazione per i Vescovi, Duc in Altum. Pellegrinaggio alla Tomba di San Pietro. Incontro di riflessione per i nuovi Vescovi Roma, 11-20 settembre 2012 (Città del Vaticano 2012) 283-300.

[18] Canone 383 - § 3 CIC 1983.

[19] W. Kardinal Kasper, Priesterlicher Dienst an der Ökumene. Chancen und Grenzen, in: G. Augustin / J. Kreidler (Hrsg.), Den Himmel offen halten. Priester sein heute (Freiburg i. Br. 2003) 78-90, zit. 79.

[20] Cfr. K. Koch, L’incidenza del CCEO sul dialogo ecumenico, in: Pontificio Consiglio per i testi legislativi (ed.), Il Codice delle Chiese orientali. La storia, le legislazioni particolari, le prospettive ecumeniche. Atti del convegno di studio tenutosi nel XX anniversario della promulgazione del Codice dei Canoni delle Chiese orientali (Città del Vaticano 2011) 43-50.

[21] Canoni 902-908 CCEO.

[22] Orientalium ecclesiarum, n. 30.

[23] Giovanni Paolo II, Constitutio Apostolica “Sacri Canones”. Venerabilibus fratribus, Patriarchis, Archiepiscopis, Episcopis ac dilectis filiis Presbyteris, Diaconis ceterisque Christifidelibus Orientalium Ecclesiarum di 18 ottobre 1990.

[24] Unitatis redintegratio, n. 1.

[25] Ibid.

[26] Vgl. W. Kasper, Eine missionarische Kirche ist ökumenisch, in: Ders., Wege zur Einheit der Christen = Gesammelte Schriften. Band 14, 1 (Freiburg i. Br. 2012) 621-634.

[27]  Francesco, Evangelii gaudium, n. 246.

[28] Lumen gentium, n. 1.

[29] G. Lohfink, Jesus und das zerrissene Gottesvolk, in: Ders., Gegen die Verharmlosung Jesu. Reden über Jesus und die Kirche (Freiburg i. Br. 2013) 156-177, zit. 167.

[30] E. Käsemann, Begründet der neutestamentliche Kanon die Einheit der Kirche?, in: Ders., Exegetische Versuche und Besinnungen. Erster und zweiter Band (Göttingen 1970) 214-223.

[31] Rechtfertigung und Freiheit. 500 Jahre Reformation 2017. Ein Grundlagentext des Rates der Evangelischen Kirche in Deutschland (EKD) (Gütersloh 2014) 99.

[32] W. Kasper, Chiesa cattolica. Essenza- Realtà- Missione (Brescia, 2012) 249-250.

[33] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 6.

[34] Ibid, n. 35.

[35] J. Ratzinger, Einleitung, in: Konstitution über die Kirche. Lateinisch und Deutsch (Münster 1966) 7-19, bes. 12-13.

[36] Vgl. Zukunft aus der Kraft des Konzils. Die ausserordentliche Bischofssynode `85. Die Dokumente mit einem Kommentar von Walter Kasper (Freiburg i. Br. 1986).

[37] E.-M. Faber, Baptismale Ökumene. Tauftheologische Orientierungen für den ökumenischen Weg, in: D. Sattler / G. Wenz (Hrsg.), Sakramente ökumenisch feiern. Vorüberlegungen für die Erfüllung einer Hoffnung (Mainz 2005) 101-123.

[38] Unitatis redintegratio, n. 3.

[39] Unitatis redintegratio, n. 22.

[40] Ibid.

[41] Ibid.

[42] Vgl. W. Kardinal Kasper, Ekklesiologische und ökumenische Implikationen der Taufe, in: A. Raffelt (Hrsg.), Weg und Weite. Festschrift für Karl Lehmann (Freiburg i. Br. 2001) 581-599, zit. 599.

[43] Vgl. K. Koch, „Die einige und einzige Kirche“. Ökumenische Perspektiven der Kircheneinheit, in: Communio. Internationale Katholische Zeitschrift 43 (2014) 112-125.

[44] W. Thönissen, Katholizität als Strukturform des Glaubens. Joseph Ratzingers Vorschläge für die Wiedergewinnung der sichtbaren Einheit der Kirche, in: Ch. Schaller (Hrsg.), Kirche – Sakrament und Gemeinschaft. Zu Ekklesiologie und Ökumene bei Joseph Ratzinger = Ratzinger-Studien. Band 4 (Regensburg 2011) 254-275, zit. 263-264.

[45] J. Cardinal Ratzinger, Die Ekklesiologie der Konstitution Lumen gentium, in: Ders., Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio (Augsburg 2002) 107-131, zit. 127.

[46] G. Philips, L’Église et son mystère au deuxième Concile du Vatican. Tome 1 (Paris 1967) 119.

[47] Cfr Lumen gentium, n. 8 e Unitatis redintegratio, n. 4.

[48] J. Cardinal Ratzinger, Die Ekklesiologie der Konstitution Lumen gentium, in: Ders., Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio (Augsburg 2002) 107-131, zit. 127.

[49] Lumen gentium, n. 8.

[50] G. Lohfink, Jesus und das zerrissene Gottesvolk, in: Ders., Gegen die Verharmlosung Jesu. Reden über Jesus und die Kirche (Freiburg i. Br. 2013) 156-177, zit. 177.

[51] J. Ratzinger- Benedetto XVI, Gesù di Nazareth. Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione (Città del Vaticano 2011) 111-112. Cfr K. Koch, Christliche Ökumene im Licht des Betens Jesu. „Jesus von Nazareth“ und die ökumenische Sendung, in: H.-J. Tück (Hrsg.), Passion aus Liebe. Das Jesus-Buch des Papstes in der Diskussion (Mainz 2011) 19-36.

[52] Ibid 112.

[53] Ibid 112.

[54] W. Kasper, Chiesa cattolica. Essenza- Realtà- Missione (Brescia, 2012) 260.

[55] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 13.

[56] Papa Benedetto XVI e il circolo degli studenti – Card. Kurt Koch, Il Concilio Vaticano II. L’ermeneutica della riforma (Città del Vaticano 2013) 96.

[57] Unitatis redintegratio, n. 13.

[58] J. Feiner, Kommentar zum Dekret über den Ökumenismus, in: Lexikon für Theologie und Kirche. Band 13 (Freiburg i. Br. 1967) 40-126, bes. 50-58 und 92-93.

[59] Vgl. Relatio König del 19. November 1963, in: Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II / 5, 552-554. Vgl. dazu D. W. Winkler, Wann kommt die Einheit? Ökumene als Programm und Herausforderung = Kardinal König Bibliothek. Band 4 (Wien 2014), bes. 101-106.

[60] Unitatis redintegratio, n. 22.

[61] Vgl. K. Koch, Die apostolische Dimension der Kirche im ökumenischen Gespräch, in: Communio. Internationale katholische Zeitschrift 40 (2011) 234-252.

[62] Dominus Iesus, n. 17.

[63] M. J. Rainer (Red.), „Dominus Iesus“. Anstössige Wahrheit oder anstössige Kirche? Dokumente, Hintergründe, Standpunkte und Folgerungen (Münster 2001).

[64] M. Gagliardi (ed), La Dichiarazione Dominus Iesus a dieci anni dalla promulgazione (Torino 2010).

[65] Rechtfertigung und Freiheit. 500 Jahre Reformation 2017. Ein Grundlagentext des Rates der Evangelischen Kirche in Deutschland (EKD) (Gütersloh 2014) 90-91.

[66] W. Kasper, Situation und Zukunft der Ökumene, in: Theologische Quartalschrift 181 (2001) 175-190, zit. 185.

[67] Benedetto XVI, Luce del Mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald (Città del Vaticano 2010) 140.

[68] Vgl. A. Buckenmaier, Universale Kirche vor Ort. Zum Verhältnis von Universalkirche und Ortskirche (Regensburg 2009).

[69] Cfr. Lumen gentium, n. 23.

[70] J. Ratzinger, Das Konzil auf dem Weg. Rückblick auf die zweite Sitzungsperiode des Zweiten Vatikanischen Konzils (Köln 1964) 51.

[71] Vgl. K. Koch, Dass alle eins seien. Ökumenische Perspektiven (Augsburg 2006), bes. 2. Kapitel: Systematische Verortung des ökumenischen Kernproblems.

[72] J. Kardinal Ratzinger, Luther und die Einheit der Kirchen, in: Ders., Kirche, Ökumene und Politik. Neue Versuche zur Ekklesiologie (Einsiedeln 1987) 97-127, zit. 114.

[73] Vgl. H. Meyer, Zur Entstehung und Bedeutung des Konzeptes „Kirchengemeinschaft“. Eine historische Skizze aus evangelischer Sicht, in: J. Schreiner / K. Wittstadt (Hrsg.), Communio Sanctorum. Einheit der Christen – Einheit der Kirche. (Würzburg 1988) 204-230.

[74] W. Hüffmeier, Kirchliche Einheit als Kirchengemeinschaft – Das Leuenberger Modell, in: F. W. Graf – D. Korsch (Hrsg.), Jenseits der Einheit. Protestantische Ansichten der Ökumene (Hannover 2001) 35-54, zit. 54.

[75] Vgl. G. Hintzen / W. Thönissen, Kirchengemeinschaft möglich. Einheitsverständnis und Einheitskonzepte in der Diskussion (Paderborn 2001); F. W. Graf / D. Korsch  (Hrsg.), Jenseits der Einheit. Protestantische Ansichten der Ökumene (Hannover 2001).

[76] K. Barth, Einführung in die evangelische Theologie (Zürich 1962) 35.

[77] Kardinal W. Kasper, Ökumenisch von Gott sprechen? in: I. U. Dalferth / J. Fischer / H.-P. Grosshans (Hrsg.), Denkwürdiges Geheimnis. Beiträge zur Gotteslehre. Festschrift für Eberhard Jüngel zum 70. Geburtstag (Tübingen 2004) 291-302, zit. 302.

[78] Vgl. P. Klasvogt / B. Neumann (Hrsg.), Reform oder Reformation? Kirchen in der Pflicht (Leipzig – Paderborn 2014).