ESSERE ISTRUITI DA DIO[1]

 

Kurt Cardinale Koch

 

Per la festa odierna del Dies academicus della Facoltà di Teologia di Lugano, in occasione del venticinquesimo anniversario della sua fondazione, non si sarebbero potuti trovare testi biblici più adeguati di quelli previsti dall’ordinamento liturgico della Chiesa. Questi brani, di fatti, tratteggiano in modo molto bello l’aspetto fondamentale su cui deve incentrarsi una Facoltà di Teologia, e ci suggeriscono così ciò che un teologo è e deve essere.

 

Mantenere sveglie la sensibilità e la passione per Dio

Nel Vangelo odierno Gesù si riferisce ai profeti, nei quali sta scritto: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Ecco delineato chiaramente cosa significa essere un cristiano che si accinge a studiare la teologia. Egli è chiamato e tenuto ad essere istruito da Dio. È comune menzionare un teologo riferendosi al nome di un altro, e definirlo come allievo del suo maestro teologo. In questa prassi c’è qualcosa di molto giusto, come vedremo in seguito. Tuttavia, ciò che unisce tra loro tutti i teologi è l’essere “istruiti da Dio”.

L’ essere “istruiti da Dio” è un compito insito già nel loro nome, il quale collega il theos ad un logos, suggerendo così che la teologia in fondo ha un solo tema, poiché al suo centro c’è innanzitutto ed in ultima analisi Dio. La realtà vivente di Dio è il tema esclusivo dell’impegno teologico della fede cristiana. Questo non nel senso di un astratto Specialissimum. La responsabilità concettuale della fede, nel riconoscere il suo unico tema che è Dio, è anche quella di riconoscere ed esprimere tutta la realtà e, con ciò, tutto il contenuto dell’esperienza umana del reale come definiti da Dio, e tematizzare la realtà sperimentata in generale nella sua relazione con Dio, ovvero come “sub specie aeternitatis Dei”. La teologia può essere all’altezza del suo tema esclusivo, ossia la realtà di Dio, solo se lo pone al centro, in maniera inclusiva, di tutta l’esperienza del reale e della conoscenza del reale. Quando si ha a che fare con Dio, si ha a che fare con tutto, come ha sottolineato chiaramente San Tommaso d’Aquino nella sua “Summa contra gentiles”: “multa praecognoscere theologus oportet.”[2] Solo in questo senso si può comprendere il valore del termine “teologo”.

Ricordare questa responsabilità del teologo è particolarmente importante al giorno d’oggi e nella nostra società, nella quale molti non riescono più a percepire Dio come realtà presente e vivono piuttosto come se non esistesse. Molti hanno difficoltà ad immaginare che Dio, il “creatore del cielo e della terra”, si occupi delle sue creature e agisca nel mondo. E se la realtà di Dio riesce ad emergere nella coscienza pubblica, essa riguarda al massimo il big bang; non rimane nulla di più nel mondo illuminato di oggi. A molti pare ridicola l’idea che Dio possa interessarsi ai nostri fatti e misfatti; eppure noi uomini ci sentiamo così piccoli davanti alla grandezza infinita dell’universo.

Un Dio così inteso non può essere né temuto, né amato. Quello che manca è la passione per Dio; e proprio in questa mancanza risiede il problema più profondo della fede ai nostri giorni. Ecco perché il compito specifico della teologia è mantenere sveglie la passione e la sensibilità per la questione di Dio nella società e nella Chiesa contemporanee, e questo al servizio dell’umanità dell’uomo, che è stato creato in vista di Dio, secondo la nostra convinzione di fede cristiana, e che sperimenta pertanto nella sua vita una sete d’infinito. La teologia può assumere tale compito oggi soltanto nella comunione ecumenica, come ha sottolineato Papa Benedetto XVI, ricordando l’opera riformatrice di Martin Lutero: “Il nostro primo servizio ecumenico in questo tempo deve essere di testimoniare insieme la presenza del Dio vivente e con ciò dare al mondo la risposta di cui ha bisogno.”[3] Nessuna vera teologia può esistere se non soddisfa questo criterio fondamentale.

 

Ascoltare insieme la parola di Dio

Di questa sensibilità verso Dio abbiamo particolarmente bisogno al giorno d’oggi, dato che tutti siamo duri d’orecchio o soffriamo addirittura di sordità nei confronti di Dio. Tutti abbiamo le orecchie piene di frequenze così diverse - o le abbiamo chiuse del tutto -, tanto che a malapena riusciamo a sentire Dio e la sua parola. Ma Dio e la sua parola sono inscindibilmente legati. Il desiderio di Dio comprende infatti l’amore per la sua parola. Per questo, la teologia non si basa semplicemente sulla parola umana dei teologi, ma sulla parola di Dio stesso, che va incontro ai teologi e che deve essere per prima cosa ricevuta ed accolta. Poiché la parola di Dio precede il pensiero teologico, la teologia non può inventare la parola di Dio; può solo trovarla, o meglio, lasciarsi trovare da essa. La teologia è il pensiero che “viene dopo”, è la riflessione responsabile su ciò che, per primo, Dio ha pensato e ha detto; essa ha il compito di udire la parola di Dio nelle tante parole umane.

Lo studio teologico consiste nell’imparare ad ascoltare Dio e la sua parola, lasciandosi guidare da maestri teologhi. Noi tutti abbiamo bisogno di maestri teologhi per essere “istruiti da Dio”. Ecco quanto ci viene ricordato dalla lettura odierna tratta dagli Atti degli Apostoli. La bella e significativa storia dell’incontro tra l’apostolo Filippo ed il funzionario etiope di Candace ci mostra una duplice realtà: la figura dell’amministratore etiope ci ricorda che anche oggi molti sono in cammino, alla ricerca della verità della loro vita. Essi pongono la stessa domanda dell’etiope, ovvero chiedono come è possibile per loro capire se nessuno li guida. Dipendono cioè da altre persone che possano aiutarli a comprendere quei testi che stanno leggendo, affinché emerga la verità ivi contenuta. Non basta dunque una lettura superficiale. Occorre una lettura che conduca alla comprensione. Nell’episodio raccontato dagli Atti degli Apostoli, questo viene espresso usando due termini greci strettamente legati: anaginwskein, che significa leggere, porta a  ginwskein, che significa capire. Non si tratta semplicemente di una comprensione intellettuale. Il lettore ha piuttosto bisogno di essere “introdotto da qualcuno che sia ‘pratico del cammino’, un esperto, uno guidato dallo Spirito, che si lasci coinvolgere nella storia del compimento delle Scritture”[4].

Il racconto dagli Atti degli Apostoli ci mostra chiaramente che una simile comprensione della Scrittura è possibile solo partendo dal suo compimento in Cristo. Ecco la caratteristica specifica della teologia cristiana. Essa non parla di un Dio qualsiasi, ma di quel Dio che ha mostrato il suo volto concreto nell’uomo Gesù di Nazareth, a cui il Vangelo odierno si riferisce dicendo che nessuno ha visto il Padre tranne “colui che viene da Dio” e che, per questo, è “il pane della vita” che “discende dal cielo”, facendo sì che chi lo mangia “vivrà in eterno”. La ricerca appassionata di Dio si concretizza pertanto nell’enfasi posta sul mistero cristologico. La centralità della questione di Dio ed il cristocentrismo sono dunque i segni distintivi della teologia cristiana.

È chiaro allora che l’episodio narrato dagli Atti degli Apostoli delinea anche il compito di un buon maestro teologo oggi. Come fece Filippo, egli si sforzerà di leggere le parole della fede in modo tale da renderle eloquenti nella realtà presente degli uomini. La teologia ha bisogno tanto di esegesi scientifica quanto di interpretazione spirituale delle Scritture. Lo studio esegetico scientifico della parola di Dio è necessario, perché l’analisi storico-letteraria intende far emergere il vero senso della storia narrata nelle Sacre Scritture. Altrimenti, sussisterebbe quel rischio a cui accennava Ugo di San Vittore, il grande teologo medievale definito giustamente “il secondo Agostino”, dicendo che i teologhi potrebbero comportarsi come maestri di grammatica che non conoscono l’alfabeto. Tuttavia, Ugo di San Vittore menzionò anche il rischio opposto consistente nell’occuparsi soltanto dell’alfabeto, dimenticando la bella armonia della grammatica. Il teologo non può dunque considerare la Sacra Scrittura solo come una parola del passato, ma deve considerarla anche come una parola pronunciata da Dio nel presente, una parola che il teologo deve assimilare nella propria vita. Il teologo infatti non può avvicinarsi alla conoscenza della parola semplicemente con curiosità; piuttosto deve farla sua di modo che diventi la sua stessa parola. Soltanto così potrà trasmetterla personalmente agli altri uomini.

 

La sinfonia di verità e gioia

Quanto appena detto ci fa capire che, nell’incontro tra Filippo e il funzionario etiope, quest’ultimo, dopo aver appreso la verità di Cristo, pone l’unica domanda logica: “Ecco, qui c’è dell’acqua; che cosa impedisce che io sia battezzato?” Nel lasciarsi battezzare, l’amministratore etiope dimostra di aver trovato la verità, e che non si tratta di una verità meramente teorica, ma di una verità che ha conseguenze nella vita personale. Anche oggi la conoscenza teologica deve tradursi concretamente nella vita del teologo. Soltanto se assume una dimensione concreta nella vita, infatti, può realizzarsi nella gioia. La gioia è, nella sua dinamica più profonda, gioia per la verità, e la verità è la sorella gemella della gioia, come ha osservato con parole molto belle Paul Claudel: “là dove si trova la più grande verità, si trova anche la più grande gioia”. Lo stesso riformatore Martin Lutero ha paragonato la gioia per l’apprendimento della verità di Dio al “tocco [inteso come berretto dei professori universitari] della fede”.

Nel lavoro teologico, facciamo tesoro di queste significative parole del poeta e del riformatore, convinti del fatto che nella verità della nostra fede risiede il motivo più profondo di quella gioia che rappresenta la chiave musicale della melodia del lavoro teologico, e che rende la teologia una scienza gioiosa. In questa gioia preghiamo il Dio vivente affinché sia concesso a tutti voi, docenti e studenti, un fruttuoso anno accademico e vi siano conferiti molti “tocchi della fede”. Questa gioia per la fede è la stessa che professiamo nell’eucaristia come grande preghiera di ringraziamento della Chiesa; ed è la stessa con la quale affidiamo a Dio, con riconoscenza, i venticinque anni della Facoltà di Teologia di Lugano, perché Dio è il Signore del tempo, sia oggi che nel futuro. Amen.

 

 

Lettura:    Atti 8, 26-40

Vangelo:  Gv 6,44-51

 

[1] Omelia durante la celebrazione eucaristica nel Dies academicus della Facoltà di Teologia di Lugano, nella Basilica del Sacro Cuore, a Lugano, il 19 aprile 2018.

[2] Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles I 4.

[3] Benedetto XVI, Discorso nella Chiesa dell’ex-convento degli Agostiniani di Erfurt, il 23 settembre 2011.

[4] R. Pesch, Die Apostelgeschichte (Apg 1-12). 1. Teilband = Evangelisch-katholischer Kommentar zum Neuen Testament. Band V/1 (Zürich 1986) 292.