Nel dialogo della Commissione internazionale anglicano-cattolica
Il metodo dell'ecumenismo ricettivo*
Anthony Currer
Officiale della Sezione occidentale
Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani
Il 2 luglio 2018, il documento “Walking Together on the Way: Learning to be Church- Local, Regional, Universal” (“Camminare insieme sulla strada. Imparare a essere la Chiesa – locale, regionale, universale”) è stato reso pubblico sulla pagina web del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e contemporaneamente sul sito dell’Anglican Communion Office, insieme ai rispettivi commenti, cattolico e anglicano. Il testo è stato poi pubblicato come libro. “Walking Together on the Way” è la prima dichiarazione comune della Commissione internazionale anglicano-cattolica (ARCIC) dalla pubblicazione di “Mary: Grace and Hope in Christ” del 2005.
Il tempo trascorso dalla pubblicazione del testo precedente di ARCIC basterebbe a fare di “Walking Together” un risultato importante nella continua ricerca di unità tra anglicani e cattolici. Ma la rilevanza del documento va ben oltre questo motivo temporale. Il testo risponde al mandato di ARCIC, che si basa sulla Dichiarazione comune firmata nel 2006 da Papa Benedetto XVI e dall’Arcivescovo Rowan Williams, i quali chiedevano alla Commissione di studiare “la Chiesa come comunione, locale e universale, e il modo in cui, nella comunione, la chiesa locale e la Chiesa universale giungono a discernere il giusto insegnamento etico”.
La Commissione ha deciso di suddividere il suo compito in due parti: riflettere sulla Chiesa come comunione locale e universale in questo primo documento, e passare in seguito allo studio del processo di discernimento del giusto insegnamento etico. La Dichiarazione del 2016 di Papa Francesco e dell’Arcivescovo Justin Welby ha evidenziato che dietro le questioni difficili e controverse dell’ordinazione delle donne e della sessualità umana “vi è una perenne domanda su come venga esercitata l’autorità nella comunità cristiana”. Ed è proprio a questa domanda che ha tentato di rispondere “Walking Together on the Way”.
I capitoli iniziali della Dichiarazione delineano una comune eredità di interpretazione teologica tratta dalle Scritture e dalla Tradizione. Partendo dalle Scritture (capitolo II), la Commissione osserva che ekklesia, chiesa, nel Nuovo Testamento può significare la comunità di una città particolare (ad es. a Corinto, 1 Cor 1,2) oppure, al plurale, le comunità di una specifica regione (ad es. le chiese della Galazia, Gal 1: 2), ma può anche indicare l’intera comunità cristiana (ad es. 1 Cor 12, 28).
Questo uso rispecchia il fatto che sin dall’inizio la Chiesa è stata sia universale che locale: universale nella sua missione di trasmettere il messaggio salvifico di Dio; e locale nella specificità concreta di comunità presente in un luogo particolare. L’universalità della missione della Chiesa significa che questa ha sempre creato comunità locali in culture nuove e diverse: la questione della diversità si è dunque posta fin dall’inizio. È altresì evidente che gli apostoli esercitavano un’autorità che andava oltre la loro comunità particolare. Questa autorità trans-locale fu esercitata tramite lettere e visite, e venne usata per preservare la koinonia.
Il classico esempio dell’esercizio dell’autorità apostolica al servizio della comunione è il cosiddetto Concilio di Gerusalemme (Atti 15, 1-29), definito dal documento “una guida programmatica per preservare la koinonia in un contesto di controversia” (§ 35).
Nell’età post-apostolica i vescovi presero il posto degli apostoli come voci autorevoli nella chiesa locale, e nella chiesa a livello più ampio. Si diffuse la pratica dei sinodi, grazie alla quale i vescovi agivano collegialmente. Analogamente, l’importanza delle sedi patriarcali e, soprattutto in Occidente, il primato del vescovo di Roma come successore di Pietro si delinearono sempre più chiaramente. In tutte queste espressioni, l’obiettivo dell’esercizio dell’autorità era quello di preservare la Chiesa nell’unità di fede e di culto.
Partendo da questa base scritturistica comune, “Walking Together on the Way”, nel Capitolo III, passa a considerare l’eredità teologica ed ecclesiologica comune che segna la vita ecclesiale di entrambe le Comunioni. Ciascuna “afferma una pienezza di realtà ecclesiale e relativa autonomia al livello della diocesi radunata attorno al suo vescovo”. Allo stesso tempo, “ciascuna afferma anche la necessità di un’interrelazione fra le Chiese locali ai vari livelli translocali di comunione provinciale, nazionale, regionale e mondiale, in un modo che oltrepassa l’associazione federale” (§ 47). Questi due principi-guida coesistono in una certa tensione, come spiega il documento: “Un’eccessiva accentuazione dell’autonomia locale rischia di danneggiare importanti legami ecclesiali a livello sovralocale. Questo può condurre a un’insufficiente distanza critica dalla cultura dominante e a un’inadeguata attenzione alle espressioni e pratiche della fede in altre parti della Chiesa” (§ 48).
Tuttavia, è anche vero che “un’eccessiva accentuazione della dimensione sovralocale” rischia di rendere la Chiesa “troppo centralizzata, in un modo che impedisce l’appropriato adattamento locale ai fini della missione” (§49). Il documento illustra la tensione tra i due poli, riconoscendo che entrambe le Comunioni tendono a soluzioni diverse nel vivere questa dinamica: i cattolici, ponendo maggiore enfasi sull’aspetto trans-locale, potrebbero sbilanciarsi verso un’eccessiva centralizzazione; gli anglicani, insistendo sull’autonomia delle province e delle diocesi, potrebbero indebolire i vincoli della comunione mondiale.
Il documento si rivolge quindi alla nostra comune comprensione sacramentale della Chiesa, costituita attraverso i sacramenti del battesimo e dell’eucaristia. Un concetto chiave in “Walking Together on the Way” è il tria munera Christi, cioè il triplice ufficio di Cristo come profeta, sacerdote e re, comune a tutti i battezzati. In questa identità sta la dignità e la vocazione di ogni cristiano battezzato. In una nota a piè di pagina, il documento descrive nel dettaglio ciò che si potrebbe chiamare “la storia ecumenica” dell’idea dei tre uffici di Cristo. Si tratta di un concetto patristico che Eusebio di Cesarea sviluppò per primo. San Giovanni Crisostomo, nel suo commento a 2 Corinzi, lo applicò non solo a Cristo ma anche ai battezzati. Il concetto sopravvisse nel tardo Medioevo e nella prima età moderna, ma, all’interno del pensiero cattolico, fu riferito esclusivamente ai ministri ordinati. Nel frattempo Giovanni Calvino, con il libro “Istituzione della religione cristiana”, approfondì il tema nella sua cristologia e nella sua soteriologia. Alcuni teologi anglicani, in particolare il vescovo John Pearson, seguirono Calvino nel dare risalto alla triade. Ed è partendo da questa eredità dell’erudizione anglicana che il Beato John Henry Newman mise a fuoco la nozione della partecipazione della Chiesa ai tre uffici di Cristo. Yves Congar sviluppò ulteriormente il pensiero di Newman riflettendo sulle implicazioni per i laici nel suo grande testo “Jalons pour une théologie du laïcat” scritto alla vigilia del Concilio Vaticano II. “Lumen gentium” applicò a sua volta il tria munera Christi al popolo di Dio, ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e ai laici. Il teologo di Lovanio Peter de Mey commenta che “è merito del Concilio aver impiegato sistematicamente per la prima volta il concetto in riferimento a diversi gruppi all’interno della Chiesa”.
Gli stessi paragrafi di “Lumen gentium” (§10-12) che vertono sulla partecipazione di tutti i battezzati al triplice ufficio di Cristo introducono anche il relativo concetto di sensus fidei fidelium. “Walking Together on the Way” lo definisce sia come una convinzione teologica condivisa (§54) che come un concetto cruciale per il suo lavoro. Così, il documento afferma che “Anglicani e cattolici romani possono affermare insieme che, essendo unti dall’Unico Santo (cf. 1Gv 2,20.27), questo corpo dei fedeli, come un tutto, non si allontanerà fondamentalmente dalla verità su materie necessarie per la salvezza” (§53).
Se nel battesimo il cristiano riceve un’identità sacerdotale, profetica e regale attraverso la quale partecipa al sensus fidei fidelium, l’eucaristia nutre e rafforza questa identità. Inoltre, il sacramento celebra e approfondisce la comunione del cristiano con i suoi fratelli e con le sue sorelle e lo spinge ad impegnarsi nel ripristino di quei vincoli di comunione che si sono spezzati o che sono danneggiati.
A conclusione di questa sezione, la Commissione indica due realtà, entrambe le quali richiedono strutture che, conformemente alla terminologia anglicana, il testo definisce “strumenti di comunione”. In primo luogo, vi sono le convinzioni teologiche tratte dalle Scritture e dalla Tradizione: che la Chiesa è una comunione; che non può sbagliare in modo fondamentale in questioni relative alla salvezza; e che questa indefettibilità si basa sulla partecipazione di tutti i battezzati al sensus fidei fidelium.
In secondo luogo, c’è la nostra esperienza vissuta della Chiesa, in cui incontriamo disaccordi. Insieme, queste due realtà contrastanti richiedono strutture che, secondo le parole del documento, “facilitino la condivisione più piena possibile dell’esperienza di Cristo e dei doni dello Spirito fra tutti i battezzati” (§54). Tali strutture devono permettere alla Chiesa di discernere la volontà di Cristo e di preservare così l’unità e la legittima diversità della sua comunione.
Sino a questo punto (conclusione del capitolo III), “Walking Together on the Way” segue una procedura usuale consistente nel presentare l’accordo teologico e il disaccordo più sfumato, basandosi sui documenti autorevoli di entrambe le Comunioni e sulle dichiarazioni congiunte prodotte dalla Commissione internazionale di dialogo. Tuttavia, come già accennato nell’Introduzione (capitolo I), il documento apre orizzonti inediti adottando un nuovo metodo, messo a punto dal professor Paul Murray dell’Università di Durham e chiamato “ecumenismo ricettivo”. Si tratta di una strategia sviluppata a partire da un’attenta lettura dell’insegnamento ecumenico della Chiesa, che la Commissione ha ritenuto più adatta sia al tema del documento sia al suo contesto.
Il Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II afferma che “tutti i cattolici devono tendere alla perfezione cristiana e sforzarsi, ognuno secondo la sua condizione, perché la Chiesa […] vada di giorno in giorno purificandosi e rinnovandosi” (UR § 4). Questo lavoro di rinnovamento e di riforma è il primo dovere ecumenico dei fedeli ed è “la ragione del movimento verso l’unità” (UR § 6). Nella sua enciclica “Ut unum sint”, Giovanni Paolo II ribadisce con forza l’enfasi già posta dal Concilio su “rinnovamento, conversione e riforma” e afferma: “Dialogando con franchezza, le Comunità si aiutano a guardarsi insieme alla luce della Tradizione apostolica. Questo le induce a chiedersi se veramente esse esprimano in modo adeguato tutto ciò che lo Spirito ha trasmesso per mezzo degli Apostoli.” L’ecumenismo ricettivo è un metodo che persegue questo cammino di rinnovamento come via verso l’unità dei cristiani.
Al centro dell’ecumenismo ricettivo vi è l’idea che la nostra vita ecclesiale sarà rinnovata accogliendo i doni che i nostri partner di dialogo hanno avuto da Dio. In “Ut unum sint”, Giovanni Paolo II sottolinea che il dialogo ecumenico non è solo uno “scambio di idee” ma “in qualche modo esso è sempre uno ‘scambio di doni’” (§ 28). Troppo spesso, tuttavia, il nostro approccio allo scambio di doni ecumenici consiste nel considerare il nostro interlocutore carente e bisognoso dei molti doni che ha ricevuto la nostra stessa Chiesa. Può sembrare generoso offrire i nostri doni agli altri, ma in questo caso la vera generosità risiede nel riconoscere che la nostra vita ecclesiale è essa stessa manchevole, e nel disporci a ricevere la guarigione dai doni altrui.
Sulla scia dell’insegnamento di “Unitatis redintegratio” che esorta i cattolici ad apprezzare i doni fatti da Dio ad altre comunità cristiane, Giovanni Paolo II osserva che in queste comunità “certi aspetti del mistero cristiano sono stati a volte messi più efficacemente in luce” (UUS § 14). E così come insegnava “Unitatis redintegratio” sostenendo che ciò che è stato donato dallo Spirito Santo ad altre comunità cristiane può anche contribuire alla nostra edificazione (UR § 4), Papa Francesco in “Evangelii Gaudium” fa notare che, nell’ecumenismo, non si tratta solamente di conoscere meglio i nostri fratelli e le nostre sorelle in Cristo, ma di “raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi” (§ 246). Al riguardo, egli fa l’esempio dei cattolici che apprendono il significato della collegialità episcopale dai nostri fratelli e sorelle ortodossi. Questo è esattamente ciò a cui ci appella l’ecumenismo ricettivo. Dobbiamo avvicinarci ai nostri interlocutori chiedendoci cosa possiamo ricevere da loro piuttosto che cosa essi debbano imparare da noi.
Nel 2014, durante l’omelia pronunciata in occasione dei vespri celebrati nella Solennità della Conversione di San Paolo, Papa Francesco ha affermato: “L’unità non verrà come un miracolo alla fine: l’unità viene nel cammino, la fa lo Spirito Santo nel cammino. Se noi non camminiamo insieme, se noi non preghiamo gli uni per gli altri, se noi non collaboriamo in tante cose che possiamo fare in questo mondo per il Popolo di Dio, l’unità non verrà! Essa si fa in questo cammino, in ogni passo, e non la facciamo noi: la fa lo Spirito Santo, che vede la nostra buona volontà.”
ARCIC ha chiamato il suo documento “Walking Together on the Way” pensando al cammino che noi cattolici e anglicani facciamo insieme come pellegrini che condividono debolezze e lotte, imparando a ricevere doni di guarigione gli uni dagli altri per riformare e rinnovare la nostra vita ecclesiale.
A volte, nei nostri dialoghi ecumenici vi è il serio rischio di usare le parole come un gioco, come se il mero fatto di aver trovato una formulazione finalmente accettata da tutti corrispondesse ad una vera guarigione della divisione tuttora persistente tra i cristiani. Questa è stata la critica mossa ad alcune dichiarazioni comuni del passato. “Walking Together on the Way” illustra in maniera abbastanza dettagliata come le convinzioni teologiche più sopra accennate vengono vissute dalle nostre rispettive Comunioni, e come, imparando gli uni dagli altri, possiamo avvicinarci sempre più quando le nostre Chiese si aprono al rinnovamento.
Come applica dunque il documento il metodo dell’ecumenismo ricettivo? Tre capitoli presentano gli strumenti di comunione che operano al livello locale, regionale e universale della Chiesa. Questi capitoli usano colonne per differenziare il testo tra la voce anglicana (lato sinistro) e la voce cattolica (lato destro). Ogni capitolo segue la stessa struttura tripartita: i) una descrizione degli strumenti di comunione che esistono attualmente; ii) un resoconto delle tensioni e delle difficoltà sperimentate in queste strutture; e iii) un accenno a ciò che possiamo imparare dall’esperienza del nostro partner di dialogo e che possiamo introdurre integralmente nelle nostre pratiche.
Non è possibile riassumere qui l’intero contenuto di questi tre importanti capitoli. Vale la pena evidenziare però tre risultati significativi. In primo luogo, è evidente che i laici hanno assunto un ruolo maggiore nella politica anglicana a tutti i livelli della vita della Chiesa: dai consigli pastorali parrocchiali, alle associazioni laicali nei sinodi nazionali, alle funzioni statutarie all’interno di organismi internazionali come il Consiglio Consultivo Anglicano. A livello locale, i membri cattolici della Commissione hanno espresso il desiderio di “imparare dalla pratica anglicana a includere le voci e le preoccupazioni dell’intera parrocchia o della comunità diocesana nel processo decisionale della Chiesa” (§ 100). Essi hanno esaminato inoltre il modo in cui i laici anglicani sono impegnati nel lavoro pastorale della Chiesa, giungendo alla seguente conclusione: “Poiché i fedeli laici esercitano già la loro partecipazione ai tria munera attraverso il servizio alla comunità cristiana, si può suggerire un ruolo più ampio per il ministero laico autorizzato, compresa l’apertura canonica del ministero di lettore alle donne” (§ 102).
In secondo luogo, gli anglicani (come la maggior parte dei nostri partner ecumenici sia in Oriente che in Occidente) hanno un senso della Chiesa molto più sviluppato a livello intermedio. Il documento di Chieti approvato nel 2016 dalla Commissione internazionale congiunta per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa riflette questa realtà, dedicando una sezione alla “Comunione regionale di Chiese” (§ 11-14). Le province della Comunione Anglicana sono Chiese autonome e hanno il diritto di determinare i propri canoni, la propria disciplina e la propria dottrina. I membri cattolici della Commissione hanno notato che Papa Francesco riconosce la necessità di avere, a livello intermedio, strutture più forti, citando “Amoris Laetitia”, dove si legge: “Saranno le diverse comunità a dover elaborare proposte più pratiche ed efficaci, che tengano conto sia degli insegnamenti della Chiesa sia dei bisogni e delle sfide locali” (§199). E ancora: “in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali” (§ 3). Noi cattolici potremmo imparare dalla lunga esperienza anglicana dei Sinodi nazionali mentre rafforziamo le nostre strutture a questo livello intermedio.
In terzo luogo, a livello mondiale o universale gli anglicani hanno quattro strumenti di comunione: l’Arcivescovo di Canterbury; la Conferenza di Lambeth (riunione decennale di tutti i vescovi anglicani); il Consiglio Consultivo Anglicano; e l’incontro dei Primati. Ogni strumento ha un potere molto limitato, essendo l’autonomia delle province gelosamente preservata. Le sentenze o le risoluzioni prese da questi strumenti non hanno forza vincolante e assumono importanza solo se ratificate dalle singole province. Tuttavia, gli strumenti anglicani di comunione sono in grado di sostenere una discussione vivace e animata da forti divergenze di opinione. La Commissione ravvisa il potenziale per un apprendimento recettivo da parte della Comunione Anglicana tramite uno scambio franco e onesto (parrhesia), all’interno di pratiche che consentano un ascolto attento dell’esperienza della Chiesa in diversi contesti, concedendo tempo e spazio adeguati al processo di discernimento prima di arrivare ad un giudizio.
A questo proposito, i membri cattolici della Commissione hanno osservato che la Comunione anglicana si pronuncia in maniera più modesta circa l’autorità del proprio insegnamento e, di conseguenza, ha “giudizi che sono considerati più provvisori”, bisognosi di “essere testati e recepiti dal sensus fidelium”. I cattolici si chiedono pertanto se potranno anch’essi imparare a far posto, ancora di più, ai processi di ascolto, a vivere “con il senso della provvisorietà” e a dare “spazio a quegli strumenti che non possono dare giudizi della più alta autorità”, lasciando così più tempo alla verifica e al discernimento dell’insegnamento proposto (§ 148).
In un recente discorso pronunciato nell’Abbazia di Westminster, il Dott. John Gibaut, direttore dell’ufficio Unità, Fede e Costituzione della Comunione Anglicana e co-segretario di ARCIC, ha presentato un riassunto simile a quello sopra riportato, evidenziando però quegli aspetti che gli anglicani potrebbero imparare dai loro fratelli e sorelle cattolici. Entrambe le parti della Commissione rimangono impegnate nella pratica dell’ecumenismo ricettivo, che consiste nel concentrarsi su ciò che dobbiamo apprendere, piuttosto che su ciò che dobbiamo insegnare. Il Dott. Gibaut ha concluso il suo discorso come io concludo il presente articolo, ovvero citando le parole finali del documento stesso: “Siamo pellegrini che camminano insieme sulla strada della penitenza e del rinnovamento verso la comunione piena. In questo pellegrinaggio è molto appropriata l’esortazione di Paolo alla Chiesa di Efeso: «Vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,1-3). Queste caratteristiche colgono lo spirito necessario del nostro cammino ecumenico e ci offrono la visione del modo in cui dobbiamo continuare a camminare insieme sulla strada verso la comunione piena” (§ 161).
* Articolo pubblicato ne L'Osservatore Romano, 27 gennaio 2019, N° 22, p. 6.