DEI VERBUM: CONTINUITÁ E NUOVI APPROFONDIMENTI

 

(Conferenza per il Festival Dei Verbum, San Remo, 28 agosto 2023)

 

Il grande e significativo lascito del Concilio Vaticano Secondo è rintracciabile soprattutto nelle sue quattro Costituzioni, la cui sinfonica armonia confluisce nella formula sintetica del Sinodo Straordinario dei Vescovi del 1985: “La Chiesa (Costituzione sulla Chiesa) - sotto la Parola di Dio (Costituzione sulla divina rivelazione) - celebra i misteri di Cristo (Costituzione sulla sacra liturgia) - per la salvezza del mondo (Costituzione pastorale).”[1] Le quattro Costituzioni devono essere lette e comprese in questa loro stretta interconnessione: il fatto che la Costituzione sulla sacra liturgia, “Sacrosanctum Concilium”, sia stata promulgata per prima, all’inizio del Concilio, rispecchia la convinzione della Chiesa secondo cui alla propria origine vi è l’adorazione, ovvero Dio. Il fatto che la Chiesa nasca dal compito fondamentale di glorificare Dio è il tema della Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen gentium”. La Costituzione sulla divina rivelazione, “Dei Verbum”, s’incentra sulla Parola viva di Dio, che chiama i battezzati a unirsi nella Chiesa e infonde in loro nuova vita in ogni epoca. Infine, il modo in cui la Chiesa porta nel mondo la luce della Parola ricevuta da Dio e promuove la glorificazione di Dio è il tema della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, “Gaudium et Spes”.

 

1. La centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa

Di queste quattro Costituzioni, la Costituzione sulla divina rivelazione è senza dubbio la meno conosciuta. D’accordo con il Cardinale Carlo M. Martini, potremmo invece descriverla come “il documento forse più bello del Concilio”[2]. La Chiesa ha presentato la dottrina della rivelazione divina e la sua trasmissione nella vita della Chiesa con un obiettivo preciso, annunciato già nel Proemio: “affinché per l’annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami”[3]. La convinzione che la Parola di Dio sia fondamentale per la vita della Chiesa è anche la base dell’inscindibile legame tra la Costituzione sulla divina rivelazione e le altre tre Costituzioni.

 

Ciò vale in modo particolare per la Costituzione sulla sacra liturgia, come si legge nell’ultimo capitolo di “Dei Verbum”: “La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli.”[4] Non è un caso che questa affermazione si riferisca alla liturgia, poiché essa è il luogo privilegiato in cui viene proclamata la Parola di Dio. Ciò suggerisce lo stretto legame esistente tra l’annuncio della Parola di Dio e la celebrazione dell’Eucaristia, mensa della Parola e mensa del Corpo di Cristo. Durante il Concilio Vaticano Secondo, questo vincolo inscindibile è stato reso visibile anche mediante il fatto che nella celebrazione eucaristica, tenutasi all’inizio di ogni sessione principale, le Sacre Scritture erano poste in venerazione al centro della Basilica di San Pietro. In tal modo, la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa era concretamente richiamata alla coscienza della fede, e parlava anche ai rappresentanti del mondo dell’ecumenismo in maniera più chiara di tante parole.

 

La Parola di Dio è il fondamento dell’annuncio della fede della Chiesa e anche del suo rinnovamento sempre necessario. Certo, questo principio non è una novità del Concilio, ma il Concilio ha riportato all’attenzione in maniera rinnovata questa convinzione costitutiva della Chiesa. Uno sguardo anche breve alla storia della Chiesa mostra che la Chiesa, specialmente nei momenti di crisi, ha sempre ricordato la priorità che l’annuncio della Parola di Dio deve avere nella vita della Chiesa.

 

Innanzitutto vanno tenuti a mente i due fondatori degli ordini mendicanti, San Francesco e San Domenico. In primo luogo, nessuno dei due voleva fondare nuovi ordini religiosi; la loro intenzione era rinnovare la Chiesa dalle fondamenta, ovvero dal vangelo.[5] Volendo vivere il vangelo alla lettera, “sine glossa”, secondo lo stile di vita evangelico e sforzandosi di rinnovare dall’interno il popolo di Dio, essi mostrarono che i veri riformatori della Chiesa e della società sono i santi illuminati e guidati dalla Parola di Dio.

 

Si pensi anche a San Carlo Borromeo, grande vescovo di Milano, che, prendendo possesso della sua sede episcopale nella metropoli dell’Italia settentrionale, diagnosticò come una delle più diffuse e gravi deficienze del clero la scarsa predicazione, e considerò come sua missione primaria di vescovo la predicazione apostolica, e più precisamente l’essere “testimone, proclamando i misteri di Cristo, predicando il vangelo ad ogni creatura”[6]. Borromeo era consapevole che il predicatore deve prima accogliere la Parola di Dio e lasciarsi toccare da essa. Di fatti, per poter assolvere il ministero di testimone della Parola di Dio, il testimone deve conoscere interiormente la Parola di Dio che egli annuncia.

 

In questa tradizione di rinnovamento ecclesiale, in cui più volte viene riportato al centro il primato della Parola di Dio, si colloca anche il Concilio Vaticano Secondo, avente come obiettivo anche un rinnovamento interiore della Chiesa, da realizzare soprattutto grazie all’enfasi posta sull’importanza fondamentale della Parola di Dio nella vita della Chiesa. Non sorprenderà dunque che questo Concilio abbia anche sottolineato in maniera eloquente che tra i principali ministeri del vescovo “eccelle” l’annuncio della Parola di Dio: “I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi discepoli; sono dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita, la illustrano alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie”[7]. Il Concilio definisce il vescovo in primo luogo non in base al suo ministero sacramentale, ma in base al servizio che egli rende alla Parola di Dio. Ciò si traduce concretamente nella liturgia della consacrazione episcopale attraverso il rito in cui il libro dei Vangeli viene tenuto sopra la testa del candidato alla consacrazione durante il prefazio: “Colui che è così oppresso è destinato ad essere il portatore di Dio, il portatore della sua Parola vivente, Gesù Cristo.”[8]

 

Da quando il Concilio Vaticano Secondo ha sottolineato l’importanza preminente della Parola di Dio nella vita della Chiesa in generale e nella missione dei vescovi e dei sacerdoti in particolare, i vari Pontefici che si sono susseguiti non hanno mai cessato di porre l’annuncio della Parola di Dio al centro della vita della Chiesa.[9] Nell’Esortazione Apostolica “Evangelii nuntiandi” del 1975, Papa Paolo VI ravvisa nell’efficacia evangelizzatrice della Chiesa la caratteristica fondamentale della sua identità: “evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare.”[10] Papa Giovanni Paolo II, nell’Esortazione Apostolica “Novo Millennio Ineunte” che scrive in vista della fine dell’Anno Santo 2000, presentando un programma pastorale per la Chiesa all’inizio del terzo millennio, promuove un’integrale Nuova evangelizzazione, e dedica particolare attenzione all’ascolto e all’annuncio della Parola di Dio: “questa è sicuramente una priorità per la Chiesa all'inizio del nuovo millennio.”[11] Per porre nuovamente al centro il primato della Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, Papa Benedetto XVI ha dedicato l’Assemblea Plenaria del Sinodo dei Vescovi del 2008 al tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” e ha ripreso, approfondendoli, i risultati di questo Sinodo nell’Esortazione Apostolica post-sinodale “Verbum Domini”, convinto che non esista “priorità più grande” di questa: “riaprire all’uomo di oggi l’accesso a Dio, al Dio che parla e ci comunica il suo amore perché abbiamo vita in abbondanza.”[12] E Papa Francesco, con la sua Esortazione Apostolica “Evangelii gaudium” del 2015, invita i fedeli “a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia” al fine di “indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni”[13].

 

2. L’approfondimento ecumenico della comprensione della Parola di Dio

A partire dal Concilio Vaticano Secondo, l’ascolto della Parola di Dio si è rivelato di fondamentale importanza anche nel cammino verso l’unità ecumenica dei cristiani[14]. Ciò diventa facilmente comprensibile se consideriamo che la Riforma nella Chiesa d’Occidente nel XVI secolo e i successivi scismi all’interno della Chiesa presero avvio da una lettura e da un’interpretazione controversa della Parola di Dio, spingendosi “in un certo senso fin dentro la Bibbia”[15]. Il movimento ecumenico ha dunque preso coscienza anche del fatto che il superamento delle divisioni sarà possibile solo tramite una lettura comune e condivisa delle Sacre Scritture, nello spirito con cui sono state scritte.[16]

 

Questo dono di rinnovata unità nella fede è emerso con particolare evidenza al momento della redazione e poi della firma della “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione” avvenuta ad Augsburg nel 1999 da parte della Federazione Luterana Mondiale e del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.  È stato possibile conseguire un così ampio consenso ecumenico sulla dottrina che costituì uno dei motivi principali della divisione nella Chiesa d’Occidente nel XVI secolo soprattutto grazie all’intesa a cui sono giunti protestanti e cattolici in merito ai fondamenti biblici del messaggio della giustificazione.[17] L’ascolto comune della Parola di Dio si è rivelato infatti essenziale per ritrovare l’unità nella fede.

 

Vale la pena ricordare un altro importante frutto del dialogo ecumenico. Mentre, durante la Riforma, soprattutto il rapporto tra Sacra Scrittura e Tradizione della Chiesa è stato fonte di controversie, molti dialoghi ecumenici hanno evidenziato[18] che Sacra Scrittura e Tradizione non possono essere né giustapposte, né assimilate l’una all’altra, e che la stessa Sacra Scrittura deve essere considerata frutto della Tradizione della Chiesa, come mostra in particolare il processo di formazione del canone scritturale.[19] Questo non esisteva prima della Chiesa, ma è sorto all’interno della Chiesa. Con un lavoro intenso e con grande fatica, la Chiesa nascente trovò nei vari libri che avrebbero poi costituito il canone della Sacra Scrittura l’autentica espressione e l’autentico criterio della propria fede, così che non sarebbe esistito il canone senza la fede della Chiesa nascente: “oltre alla costatazione che la formazione del canone contribuisce all’unità della dottrina della Chiesa in contrasto con la diversità e la contraddizione delle filosofie ellenistiche, tutto ciò mostra che la formazione del canone è una creazione consapevole della Chiesa nascente.”[20]

 

Anche dal punto di vista storico può essere dimostrato che, nel processo di formazione del canone biblico, il riconoscimento di Roma come “criterio di autentica fede apostolica” precede “il canone del Nuovo Testamento, come ‘Scrittura’”[21] e che, conseguentemente, nella formazione del canone biblico la Sede del Vescovo di Roma ebbe un ruolo non trascurabile. L’ecumenista cattolico Heinz Schütte ha giustamente ravvisato nel principio della Scrittura secondo la Riforma, ovvero quello di “sola scriptura”, il “problema ecumenico centrale” perché in realtà esso, pur basandosi su una decisione presa dalla Chiesa primitiva, vuole teoricamente escludere proprio tale decisione[22]. Il principio della “sola scriptura” è dunque estraneo alla teologia cattolica; d’altronde, anche la parte protestante riconosce sempre più la sua natura problematica e tenta di superarlo.[23]

 

3. La Parola di Dio nel dialogo ebraico-cristiano

Oltre che all’interno del dialogo ecumenico, anche nel dialogo interreligioso e specialmente nel dialogo ebraico-cristiano sono emersi nuovi spunti per una più approfondita comprensione della Parola di Dio. Una delle costatazioni di base è che ci troviamo di fronte a due letture delle Sacre Scritture giudaiche, una ebraica e una cristiana, che si sono sviluppate parallelamente nel corso della storia e sulle quali la Pontificia Commissione Biblica si esprime nel suo importante documento del 2001, “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana”: “Ciascuna delle due letture è correlata con la rispettiva visione di fede di cui essa è un prodotto e un’espressione, risultando di conseguenza irriducibili l’una all’altra.”[24]

 

Concretamente, questa costatazione significa che la rilettura cristiana delle Sacre Scritture ebraiche alla luce dell’evento di Cristo e sulla base delle promesse profetiche non è l’unica nuova lettura della Bibbia ebraica, e che anche all’interno del giudaismo sono state necessarie nuove interpretazioni delle sue Scritture, soprattutto dopo la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., fatto che deve aver rappresentato una terribile tragedia per gli ebrei, in quanto il tempio e i sacrifici erano al centro della vita religiosa della comunità ebraica. Pertanto, per quanto riguarda la comprensione della Parola di Dio, si pone la questione di come questi due modi di interpretare le Sacre Scritture ebraiche, la lettura cristologica dei cristiani e l’esegesi rabbinica post-biblica, si rapportino tra loro. Joseph Ratzinger – Benedetto XVI offre un’utile riflessione: “Dopo secoli di contrapposizione, riconosciamo come nostro compito il far sì che questi due modi di nuova lettura degli scritti biblici – quella cristiana e quella giudaica – entrino in dialogo tra loro, per comprendere rettamente la volontà e la parola di Dio.”[25] Se noi cristiani siamo disposti ad imparare dall’esegesi ebraica praticata da duemila anni (e abbiamo ancora molto da apprendere!), e se possiamo sperare che gli ebrei, a loro volta, beneficino degli sforzi compiuti dall’esegesi cristiana, allora sarà possibile comprendere la Parola di Dio in maniera più profonda.

 

Nel dialogo con l’ebraismo, è dunque importante imparare nuovamente a non considerare l’Antico e il Nuovo Testamento come due libri separati, secondo la pratica ormai comune nell’esegesi e nella teologia attuali; occorre comprenderli come un unico libro, ovvero nell’unità tra Antico e Nuovo Testamento, per far emergere sia la continuità interna tra i due Testamenti sia la novità del messaggio neotestamentario. Solo quando l’Antico Testamento arriva a Cristo, diventa chiaro il suo significato più profondo. Come, da un punto di vista cristiano, si può capire l’Antico Testamento solo alla luce dell’evento di Cristo, così si può cogliere chi è Gesù Cristo solo partendo dall’Antico Testamento. Grazie a una simile comprensione della “concordia testamentorum” si dischiude più profondamente il significato della Parola di Dio.

 

L’approfondimento della comprensione può a sua volta essere esemplificato guardando al rapporto tra Sacra Scrittura e Tradizione. Nella tradizione ebraica, la Bibbia ebraica non è un “libro chiuso”, ma una realtà vivente, poiché viene letta alla luce del Talmud e soprattutto del Midrash, che non solo completa la Bibbia ebraica, ma si arricchisce di nuove storie[26]. Come nell’ebraismo, anche nel cristianesimo Scrittura e Tradizione potrebbero essere considerate nella loro stretta interconnessione in maniera molto più libera rispetto a quanto avviene talvolta oggi, conformemente a quanto sottolinea la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione: “La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro.”[27] In questo senso, la Costituzione parla di una relazione multidimensionale tra Sacra Scrittura e Tradizione della Chiesa, così che possiamo concordare con quanto afferma Henri de Lubac: “Pertanto, niente contraddirebbe lo spirito di questa Costituzione più di un una sorta di competizione ostile tra Scrittura e Tradizione, come se si volesse togliere all’una ciò che si dà all’altra. Mai prima d’ora un testo conciliare aveva fatto emergere così bene il principio della Tradizione in tutta la sua ampiezza e complessità: mai prima d’ora si era concesso alla Sacra Scrittura tanto spazio.”[28]

 

4. La Parola di Dio come Persona e come Scrittura

Dopo queste riflessioni sull’ecumenismo e sull’ebraismo, ci dobbiamo ora chiedere, in maniera fondamentale, da quale comprensione della Parola di Dio parta la teologia cattolica. Basta uno sguardo sommario non solo al passato, ma anche al panorama ecclesiale e teologico del presente per notare due tipi di risposta contrapposti. Una corrente tende a identificare automaticamente la Parola di Dio con le Sacre Scritture, il che sfocia facilmente in una certa ipostasi della Parola di Dio e, di conseguenza, nel principio della “sola scriptura” propugnato dalla Riforma. L’altra tendenza parte da una comprensione più ampia, e più precisamente analogica, della Parola di Dio, sottolineando che la Parola di Dio non è primariamente Scrittura, ma è una realtà personale: Gesù Cristo come Figlio di Dio incarnato è, nella sua persona, la Parola vivente di Dio. La Parola di Dio non è dunque semplicemente riducibile alla Sacra Scrittura; in essa c’è molto di più da comprendere rispetto a quanto è scritto. In questo senso fondamentale, la Parola di Dio precede la Sacra Scrittura e “in essa si riflette, ma non è identica ad essa”[29].

 

Questa seconda tendenza corrisponde alla visione cattolica, alla base sia della Costituzione “Dei Verbum” sulla divina rivelazione sia dell’Esortazione Apostolica post-sinodale di Papa Benedetto XVI “Verbum Domini”. Lo dimostra soprattutto il fatto che la Parola di Dio è intesa in senso analogico, ovvero come una “sinfonia della Parola”[30], partendo dalla definizione del Dio rivelato nella Bibbia quale Dio che parla, passando alla dimensione cosmica del Verbo, in cui tutto ciò che è ha avuto origine, e giungendo infine al significato cristologico fondamentale del Verbo di Dio, che si è fatto carne e che si dona per opera dello Spirito Santo nella Chiesa. È solo in questo ampio contesto della storia della salvezza che si parla della presenza della Parola di Dio nella Tradizione apostolica della Chiesa e nelle Sacre Scritture.

 

Questa visione della Parola di Dio ha implicazioni di vasta portata anche per la comprensione cristiana della rivelazione divina. La rivelazione non va intesa semplicemente come la comunicazione di verità divine, ma come l’agire storico-personale di Dio e quindi come un evento vivente, personale e comunitario: “In ambito cristiano la rivelazione non è intesa come un sistema di affermazioni, ma come l’evento di un nuovo rapporto tra Dio e l’uomo, che è accaduto e che sta ancora accadendo nella fede.”[31] La rivelazione di Dio va compresa innanzitutto come l’atto in cui Dio si mostra agli uomini, si dona loro come amore e, così, rivela loro la sua verità; e non l’evento oggettivato di questo atto. Poiché Dio si è rivelato nella storia e in essa sommamente nella persona di Gesù Cristo, la rivelazione di Dio va oltre il suo principio materiale, ovvero le Sacre Scritture. Piuttosto, esse sono la forma storica mediatrice della rivelazione di Dio, che è essenzialmente una persona. Ed è proprio questa la specificità del cristianesimo: “il cristianesimo è la ‘religione della Parola di Dio’, non di ‘una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente’.”[32]

 

In questo senso fondamentale, la fede cristiana non professa una “inverbazione” e nemmeno una “inlibrazione”, ma l’incarnazione del Verbo di Dio nell’uomo Gesù di Nazareth.[33] Qui traspare il motivo più profondo per cui il cristianesimo non è − come l’ebraismo e, in misura maggiore, l’islam − una religione del libro, ma è la confessione di fede in una Persona in cui il fondamento divino di ogni realtà è mostrato concretamente e rivelato come amore; si tratta quindi di un intimo legame di amicizia con Gesù Cristo quale Parola vivente di Dio, senza la quale le Sacre Scritture non sarebbero comprese nello spirito con cui furono scritte. Pertanto, la specificità della fede cristiana può essere riassunta riprendendo l’affermazione pregnante dello studioso cattolico del Nuovo Testamento Thomas Söding: “Il cristianesimo ha una Sacra Scrittura, ma non è una religione del libro. Al centro del cristianesimo c’è l’uomo: Gesù di Nazareth. Per suo tramite, l’umano è unito al divino e Dio all’uomo.”[34]

 

5. La Parola di Dio nella Scrittura, nella Tradizione e nel Magistero

Quest’ampia comprensione della Parola di Dio getta ancora una volta una nuova luce sul rapporto tra Scrittura e Tradizione, considerato in modo controverso nel corso della storia e in parte ancora oggi nell’ecumenismo. Tale relazione non può essere intesa né nel senso di una giustapposizione in cui un termine esclude l’altro, né nel senso di un affiancamento di pari livello tra Scrittura e Tradizione come fossero le due fonti della rivelazione. Diversamente da questa visione tradizionale, che ha spesso portato ad impasse nella storia, il Concilio Vaticano Secondo pone la rivelazione di Dio come unica fonte prima della Scrittura e della Tradizione, che sono dunque le due forme storiche di mediazione dell’unica rivelazione divina, come Joseph Ratzinger aveva già evidenziato chiaramente all’inizio del Concilio Vaticano Secondo: “In verità, Scrittura e Tradizione non sono le fonti della rivelazione, ma la rivelazione, il parlare e l’auto-manifestarsi di Dio sono l’unus fons da cui scaturiscono i due rivoli Scrittura e Tradizione”.[35]

 

Questa definizione presuppone, naturalmente, che la Tradizione non sia intesa semplicemente come una trasmissione materiale di parole o una trasmissione quasi meccanica di credenze ereditate dal passato nel senso di un’archiviazione di ciò che è accaduto. Piuttosto, la Tradizione va compresa come un processo vitale e dinamico in cui il tradizionale patrimonio delle fede viene reinterpretato di volta in volta, sviluppato conformemente alla situazione contemporanea della Chiesa e accolto nella vita storica della Chiesa. Poiché questo processo deve svolgersi alla luce delle Sacre Scritture, esso ha una funzione normativa nella Chiesa. Naturalmente con ciò non si devono considerare, analogamente a quanto è accaduto nella tradizione della Riforma e a quanto accade, in alcuni casi, persino ai giorni nostri, le Sacre Scritture come un correttivo del ministero nella Chiesa auto-rivelatore e indipendente dalla Chiesa. In contrasto con una così forte ipostatizzazione della Parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, la Chiesa cattolica considera la relazione tra Sacra Scrittura e Tradizione come un rapporto di mutua dipendenza e parentela. Poiché il principio della “sola scriptura” è fondamentalmente estraneo alla Chiesa cattolica, essa riconosce un ruolo speciale anche al Magistero nel rapporto tra Sacra Scrittura e Tradizione della Chiesa.

 

La responsabilità del Magistero è garantire l’integrità e l’identità della Parola di Dio nella Chiesa. In questo senso, già Ireneo di Lione, davanti ai cosiddetti “apocrifi” usati dagli gnostici, annoverava tra i compiti principali del ministero episcopale quello di “preservare la tradizione apostolica senza inventare scritti”.[36] Non si può naturalmente negare che il Magistero della Chiesa non di rado nel corso della storia abbia allargato eccessivamente, nella Chiesa e nella teologia, il campo della certezza della fede per quanto riguarda il lavoro esegetico, a scapito così della propria credibilità.[37] Ciò che oggi si può imparare dalla storia è che il Magistero deve lasciare ampio spazio alle questioni scientifiche sulla diversità e sull’ampiezza dell’interpretazione delle affermazioni storiche. Tuttavia, ciò non significa che il Magistero della Chiesa non debba più avere una voce critica e correttiva riguardo all’esegesi della Scrittura, specialmente laddove l’interpretazione è diretta contro la Chiesa e il suo credo. Piuttosto, il Magistero ha il dovere di fare in modo che l’esegesi della Sacra Scrittura sia al servizio della fede della Chiesa. Pertanto, il Magistero non può semplicemente agire secondo un principio formale, ma deve sempre agire nel rispetto del legame sostanziale con il credo della Chiesa.[38]

 

6. La Parola di Dio nello spazio vitale della Chiesa

Nell’ottica del Concilio Vaticano Secondo, Sacra Scrittura e Tradizione della Chiesa sono strettamente legate, cosicché la Scrittura non può essere senza la Tradizione, la Tradizione non può essere senza la Chiesa, e la Chiesa non può essere senza queste due. La Parola di Dio, la sua interpretazione e il suo annuncio trovano dunque dimora principalmente nello spazio vitale della Chiesa. Alla visione personale dell’autore della Parola divina, che è fondamentale per il modo in cui il Concilio Vaticano Secondo intende la rivelazione, corrisponde anche una comprensione personale del destinatario della Paola. La rivelazione di Dio come avvenimento vivo e personale può infatti giungere a compimento solo là dove trova accoglienza nella fede da parte del destinatario. Partecipa così all’evento della rivelazione di Dio anche il soggetto che la riceve: “Dove nessuno percepisce la rivelazione, non c’è rivelazione, perché lì nulla è stato rivelato. Secondo il concetto stesso di rivelazione, la rivelazione richiede qualcuno che ne prenda coscienza.”[39] Questo soggetto però non è semplicemente il singolo cristiano, perché il singolo non può credere come soggetto a sé stante, ma può credere solo insieme a tutta la Chiesa. Il reale destinatario della rivelazione di Dio e della sua autentica manifestazione nella Sacra Scrittura è la comunità di fede della Chiesa.

 

Ciò si evince già dal fatto che la Sacra Scrittura si sviluppa nel corso della storia come espressione della fede della Chiesa; la Sacra Scrittura è un libro della Chiesa che nasce dalla Tradizione della Chiesa e si trasmette attraverso di essa, cosicché lo sviluppo della Sacra Scrittura e lo sviluppo della Chiesa sono da considerarsi come due facce dello stesso evento originario. Senza la Chiesa che vive la sua fede non si potrebbe affatto parlare di Sacra Scrittura. Senza la Chiesa, la Bibbia non sarebbe altro che una raccolta storica di scritti, sviluppatasi nel corso di un millennio. Da questa raccolta letteraria è emersa la Bibbia, ovvero “un unico libro” come “Sacra Scrittura”, con le sue due inscindibili unità di Antico e Nuovo Testamento, solo grazie al popolo di Dio errante nella storia. La Sacra Scrittura si presenta come un unico libro soprattutto perché è nata interamente dalla terra dell’unico popolo di Dio e perché, di conseguenza, l’autore della Bibbia è lo stesso popolo di Dio, ovvero prima Israele e poi la Chiesa, come sottolinea Gerhard Lohfink, biblista cattolico esperto del Nuovo Testamento: “La Sacra Scrittura non è una serie di 73 libri rilegati insieme in un secondo tempo, ma è cresciuta come un albero. Alla fine, in questo albero sono stati innestati rami completamente nuovi: il Nuovo Testamento. Ma anche questi rami si nutrono della linfa dell’unico albero e sono sostenuti dal suo tronco”.[40]

 

Se consideriamo lo stretto legame tra Sacra Scrittura e Chiesa, è evidente che, da un lato, la Sacra Scrittura non esiste come Sacra Scrittura senza la Chiesa o contro la Chiesa, ma solo nella Chiesa, e che, dall’altro, la Chiesa, per essere e rimanere Chiesa, ha bisogno della Sacra Scrittura come realtà in cui la rivelazione di Dio si esprime in modo vincolante; la Chiesa non è al di sopra della Parola di Dio, ma è al suo servizio, come sottolinea espressamente la Costituzione conciliare sulla rivelazione[41]. La Sacra Scrittura è e rimane un libro vivente solo con il suo popolo quale soggetto che la riceve e se ne appropria; e viceversa, questo popolo di Dio non può esistere senza la Sacra Scrittura, perché in essa trova il fondamento della sua vita, la sua vocazione e la sua identità.

 

Possiamo comprendere più a fondo l’inscindibile legame tra Sacra Scrittura e Chiesa se lo consideriamo alla luce di quei quattro processi fondamentali attraverso i quali la Chiesa si era già formata nel periodo apostolico e che fanno parte delle sue caratteristiche durature[42]: il primo processo fondamentale consiste, come abbiamo già chiarito, nella formazione del canone della Sacra Scrittura, che fu opera della Chiesa apostolica e che giunse a una configurazione definita ma non definitiva verso la fine del secondo secolo. Nel selezionare quegli scritti che vennero infine riconosciuti come Sacra Scrittura dalla Chiesa apostolica, la Chiesa impiegò un criterio che chiamò regula fidei, la regola della fede. Si tratta di una sintesi dei contenuti fondamentali della fede della Chiesa, una sintesi che costituisce la vera chiave di lettura per interpretare e trasmettere in modo autentico la Sacra Scrittura. In ciò consiste il secondo processo fondamentale nella Chiesa apostolica.

 

La lettura della Sacra Scrittura e la professione del Credo erano, principalmente, azioni liturgiche nella Chiesa apostolica. Pertanto, a proposito del terzo processo, anche le forme fondamentali del culto cristiano, tra cui in particolare la celebrazione eucaristica, risalgono alla Chiesa apostolica e appartengono alla sua Tradizione. Circa il quarto processo, nella Chiesa apostolica la Parola di Dio, interpretata alla luce della regola della fede e proclamata nel culto divino della Chiesa, trovò la sua forma primaria nella testimonianza personale del Vescovo. Nella Chiesa primitiva prese piede la convinzione della successione apostolica nel ministero episcopale posto al servizio della trasmissione fedele della rivelazione di Dio e della Tradizione apostolica. Come osserva lo storico della Chiesa cattolico Ernst Dassmann, “la nascita, il fondamento teologico e il rafforzamento istituzionale del ministero episcopale” vanno considerati tra i “risultati più importanti dello sviluppo post-apostolico”[43].

 

7. Comprendere e interpretare la Parola di Dio

Il canone della Sacra Scrittura, la regola della fede, la forma fondamentale della liturgia eucaristica e la successione apostolica nel ministero episcopale sono i quattro aspetti essenziali della Chiesa apostolica, che non devono essere separati l’uno dall’altro, ma considerati come inscindibili. Una vera comprensione della Parola di Dio è possibile solo all’interno di questo quadro unitario della Chiesa. La Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione contiene alcuni importanti orientamenti su come relazionarsi adeguatamente alla Parola di Dio nella vita della Chiesa.

 

a) L’esegesi storica e l’interpretazione della Scrittura nello spirito della Chiesa

L’orientamento più significativo si trova al punto 12, che afferma: “Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole.” Tale affermazione evidenzia il ruolo rivendicato e l’importanza rivestita dal metodo storico-critico nell’interpretazione delle Scritture come parte indispensabile dello sforzo esegetico. D’altro canto, viene ricordata anche la dimensione propriamente teologica dell’esegesi quando si osserva che la Sacra Scrittura deve essere “letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta”. Concretamente, ciò significa che la corretta comprensione del significato della Sacra Scrittura richiede che si badi “con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede”. Sottolineando questi due aspetti, si tiene conto del duplice carattere della Sacra Scrittura, la quale è Parola di Dio che si esprime dentro e attraverso la parola dell’uomo, e che nello stesso tempo è più della parola umana, perché contiene la Parola vivente che Dio rivolge agli uomini.

 

Diventa spontaneo chiedersi allora come entrambi i modi di interpretazione possano conciliarsi: sulla base delle sue regole ermeneutiche, l’esegesi storico-critica si interroga sull’intenzione degli autori biblici, sull’origine effettiva e sulla versione più antica di un testo, e deve farlo anche davanti alla stranezza dei testi storici. Diversamente, l’interpretazione della Sacra Scrittura nello spirito in cui è stata scritta considera la Bibbia nel suo insieme, nella lotta di Dio con l’uomo nel corso della storia e nell’interrogarsi dell’uomo su Dio, ovvero nell’unità originaria tra Antico e Nuovo Testamento, come “una biblioteca del popolo di Dio: di Israele, come della Chiesa”[44].

 

Strettamente legata a ciò vi è una seconda differenza: nell’interpretazione storica della Scrittura, il singolo esegeta si interroga sul vero significato di un testo biblico e mette in correlazione critica le proprie ricerche con i risultati degli altri esegeti. Diversamente, nell’interpretazione teologica della Sacra Scrittura nello spirito in cui è stata scritta, è soprattutto la comunità di fede della Chiesa che interpreta i testi biblici nel contesto di vita dell’intera Tradizione, che va oltre la Sacra Scrittura tenendola comunque al proprio centro, anche perché la Sacra Scrittura è essenzialmente essa stessa Tradizione. Per questo, la Costituzione sulla rivelazione descrive il compito degli esegeti, i quali devono contribuire “alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura”, affinché “mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa”[45]. 

 

Nonostante queste differenze fondamentali, entrambe le modalità interpretative relative alla Sacra Scrittura fanno parte di uno sforzo esegetico in tensione permanente, come ha sottolineato il grande teologo medievale Ugo di San Vittore, giustamente chiamato il “secondo Agostino”, mettendo in guardia contro un duplice pericolo. Egli si riferisce al primo pericolo usando la seguente immagine: i teologi si sarebbero occupati solo dell’alfabeto perdendo così di vista la bella grammatica. Viceversa, il secondo pericolo consisterebbe nel rischio che i teologi si comportino come studiosi di grammatica che non conoscono l’alfabeto. Che entrambi i pericoli vengano superati è una delle priorità cruciali della Costituzione sulla rivelazione, la quale prende atto anche di un’altra tensione di fondo, legata a quella sopra menzionata e accennata anch’essa nel punto 12 della “Dei Verbum”.

 

b) L’esegesi scientifica e l’interpretazione teologica della Scrittura

In questo articolo, da un lato è confermata la necessità del metodo storico-critico, di cui vengono sommariamente descritti gli elementi essenziali, sulla base del fatto che la storia della salvezza tra Dio e l’uomo, testimoniata nella Sacra Scrittura, è veramente storia e non mitologia e quindi deve essere studiata con i metodi tipici di una seria storiografia scientifica. Dall’altro lato, la Costituzione sulla rivelazione sollecita anche un’interpretazione teologica della Scrittura che parta dall’unità dell’intera Scrittura. Concretamente, ciò significa che ogni testo biblico deve essere letto tenendo presente l’insieme unitario delle Sacre Scritture. Si tratta di un metodo che viene comunemente chiamato oggi “esegesi canonica”, ma che era sostanzialmente già usato da Johann Sebastian Drey, fondatore della scuola cattolica di Tubinga nel XIX secolo. Nella sua “Breve introduzione allo studio della teologia” si legge infatti: “Certo, l’interpretazione avviene sempre, innanzitutto, intorno a un singolo punto, ma il suo fine è la comprensione dell’insieme... Tale insieme è prima di tutto la singola sezione di un libro, poi il libro stesso, poi l’intera opera di un autore biblico, infine la Bibbia stessa come canone. Si capisce allora come il canone stesso si presenti qui come un’idea necessaria.”[46]

 

Laddove i due modi metodologici di leggere e interpretare la Scrittura si completano e si sollecitano a vicenda, la ricchezza del messaggio biblico non è diminuita ma valorizzata. Laddove essi non si alimentano più reciprocamente, tra l’interpretazione storica e quella teologica della Sacra Scrittura si apre un profondo fossato, che costituisce un grave problema pastorale. È quindi di fondamentale importanza per la vita e per la missione della Chiesa superare il pericoloso dualismo esegesi-teologia e, per far ciò, prendere ugualmente sul serio entrambi i modi di interpretare la Sacra Scrittura proposti dalla Costituzione sulla rivelazione, esegesi scientifica e interpretazione teologico-spirituale, come ha sottolineato esplicitamente Papa Benedetto XVI: “dove l’esegesi non è teologia, la Sacra Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento.”[47]

 

Questo problema deve essere esaminato un po’ più da vicino.[48] Esso deriva dalla metodologia dell’esegesi storico-critica, che considera le Sacre Scritture come un libro del passato e di conseguenza si occupa di eventi e di interpretazioni del passato. La Parola di Dio appare allora in primo luogo come una parola appartenente a un’epoca remota, che va letta da un punto di vista storico. Un simile lavoro è certamente indispensabile, ed è necessario per comprendere le Scritture, poiché le Scritture contengono eventi e interpretazioni storiche e quindi raccontano la storia, non il mito. Anche il credente - soprattutto il credente - deve essere mosso intimamente dal desiderio di ascoltare con attenzione ciò che dice realmente il testo biblico per poterlo intendere come tale. Tuttavia, là dove l’esegesi storico-critica viene assolutizzata come unico modo di comprendere la Sacra Scrittura, affiora quel grave problema evidenziato già da Joseph Ratzinger in un suo primo saggio: “Abitare la parola soltanto nel passato significa negare la Bibbia come Bibbia. Infatti, una simile interpretazione puramente storica, che si preoccupa solo di ciò che è stato, conduce coerentemente alla negazione del canone e, in tal senso, alla contestazione della Bibbia in quanto Bibbia.”[49] Accettare realmente il canone come canone significa invece leggere la parola di Dio al di là del suo accadere storico e intendere il popolo di Dio nel presente come destinatario della Parola di Dio, capace di accoglierla. L’interpretazione teologica della Scrittura si sforza di far sì che la Sacra Scrittura “non rimanga una Parola del passato, ma una Parola viva e attuale”[50].

 

8. Vivere con la Parola di Dio nella Chiesa

Per comprendere la Parola di Dio e vivere con essa, è di cruciale importanza che il singolo cristiano e la comunità di fede della Chiesa incontrino la Parola di Dio non solo come Parola del passato, ma anche e soprattutto come Parola che Dio, attraverso le persone di un’epoca passata, destina e dona alle persone di tutti i tempi come una Parola sempre attuale. Solo così gli uomini, nell’incontro con la Parola di Dio, potranno incontrare Dio stesso, come sottolinea Girolamo, il grande esegeta dell’epoca dei Padri della Chiesa: “Chi non conosce le Scritture non conosce né la potenza Dio né la sua saggezza. Non conoscere le Scritture è non conoscere Cristo.”[51]

 

Per poter riconoscere e conoscere Gesù Cristo come Parola vivente di Dio, sono indispensabili le Sacre Scritture. La questione di chi sia Gesù Cristo e la questione di come le Sacre Scritture debbano essere lette sono quindi inscindibilmente legate. Poiché Gesù Cristo è la Parola vivente di Dio e poiché egli offre un’interpretazione di sé nelle parole della Sacra Scrittura, per conoscere Cristo occorre familiarizzarsi con la Sacra Scrittura. Le Scritture iniziano infatti a parlare solo quando si vive in una relazione personale con Gesù Cristo nella comunità di fede della Chiesa. È quindi cruciale il modo in cui ci rapportiamo alle Sacre Scritture.

 

Nella Sacra Scrittura stessa, incontriamo l’archetipo del vivere con la Parola di Dio nella figura di Maria. Maria è colei che ha accolto in sé fino in fondo la Parola di Dio per donarla al mondo e che, anche dopo la nascita della Parola di Dio, ha meditato nel suo cuore ogni parola che veniva da Dio. Soprattutto l’evangelista Luca la ritrae come una persona in costante ascolto della Parola di Dio, come è evidente in particolare in tre episodi biblici.

 

All’annuncio della nascita di Gesù, Luca racconta che Maria rimase turbata dal saluto dell’angelo e “si domandava che senso avesse un saluto come questo” (Lc 1,29). Il termine usato dall’evangelista per riferirsi alla riflessione di Maria è legato al termine “dialogo” in greco. Luca esprime qui il fatto che Maria entra in un dialogo personale e intimo con la Parola di Dio che le viene incontro, conduce con essa un dialogo silenzioso e ne sonda il significato più profondo.

 

Similmente si comporta Maria nel racconto del Natale, dopo che i pastori hanno adorato il bambino nella mangiatoia: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Maria traduce così l’evento natalizio di Betlemme nella Parola, e penetra profondamente nella Parola affinché essa possa germinare nel suo cuore.

 

Luca ricorda ancora questa Parola nell’episodio di Gesù dodicenne nel tempio: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,50). L’impatto dirompente di questa osservazione risulta chiaro solo alla luce della frase precedente: “essi non compresero ciò che aveva detto loro”. Luca suggerisce che la Parola di Dio non è sempre immediatamente comprensibile neppure per i credenti ovvero neppure per chi è aperto a Dio; essa richiede la stessa pazienza e umiltà con cui Maria accoglie nel suo cuore ciò che inizialmente non aveva capito e lo lascia agire per poterlo elaborare interiormente.

 

I tre episodi menzionati mostrano che Maria è a suo agio nei confronti della Parola di Dio, perché le presta attento ascolto. In questo atteggiamento di fondo, Maria è l’archetipo e la prima icona della Chiesa o, più precisamente, della “Chiesa delle origini”[52] che riunisce “coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21). A vivere in tale atteggiamento mariano è chiamato soprattutto chi è al servizio della Parola di Dio. Chi annuncia questa Parola deve essere di fatti capace di ascolto e quindi credente e quindi orante; deve lasciar parlare Dio e ascoltarlo per poterlo annunciare in modo credibile a partire da questo ascolto silenzioso della sua Parola, vivendo in modo credibile quella sequela a cui Papa Giovanni Paolo II si riferisce in termini pregnanti: “Nutrirci della Parola, per essere ‘servi della Parola’ nell'impegno dell'evangelizzazione.”[53] L’essere nutriti precede l’evangelizzazione. Chi annuncia è sempre, prima di tutto, “ascoltatore” della Parola, perché solo così può essere veramente “servo” della Parola.

 

Per tradurre nella vita quotidiana questa sequela, sarà benefica, in modo particolare a chi annuncia la Parola, l’antica tradizione della Lectio Divina, che vale ancora oggi, grazie alla quale l’ascolto della Parola di Dio può diventare vivo incontro con Gesù Cristo. La Lectio potrà aiutare il predicatore a percepire nel testo biblico la Parola viva di Dio, che orienta e trasforma la sua vita. Solo quando il predicatore si lascerà toccare dalla Parola di Dio, potrà rendersi disponibile come voce di questa Parola, dandole spazio.

 

Allora anch’egli potrà esperire la Sacra Scrittura, così come l’hanno descritta i Padri della Chiesa, come un “Eden spirituale”, dove è possibile camminare con il Dio vivente e ammirare la bellezza e l’armonia del suo disegno di salvezza. Affinché si dischiuda anche nella Chiesa odierna un tale giardino dell’Eden spirituale, la Costituzione sulla divina rivelazione “Dei Verbum” offre un prezioso orientamento; e in questo risiede anche il motivo più profondo alla base del “Festival Dei Verbum di San Remo”.

 

 

 

 

[1] Zukunft aus der Kraft des Konzils. Die ausserordentliche Bischofssynode ´85. Die Dokumente mit einem Kommentar von Walter Kasper (Freiburg i. Br. 1986) 61.

[2] C. M. Martini, Die Bischofssynode über das Wort Gottes, in: Stimmen der Zeit 133 (2008) 291-296, zit. 291.

[3] Dei Verbum, n. 1.

[4] Dei Verbum, n. 21.

[5] Vgl. K. Kardinal Koch, Das Evangelium in verbindlicher Gemeinschaft leben. Ekklesiologische Perspektiven des Ordenslebens in der Sendung der Kirche, in: G. Augustin, M. Graulich (Hrsg.), Gelingendes Leben. Wege von Ordenschristen heute (Stuttgart 2015) 15-51.

[6] Zit. bei G. Alberigo, Karl Borromäus. Geschichtliche Sensibilität und pastorales Engagement (Münster 1995) 39-40.

[7] Lumen Gentium, n. 25. Il Concilio definisce anche il sacerdote primariamente in base al servizio che egli rende alla Parola di Dio, come si legge al n. 4 del Decreto “Presbyterorum Ordinis” sul ministero e la vita dei presbiteri: “Il popolo di Dio viene adunato innanzitutto per mezzo della parola del Dio vivente che tutti hanno il diritto di cercare sulle labbra dei sacerdoti. Dato infatti che nessuno può essere salvo se prima non ha creduto, i presbiteri, nella loro qualità di cooperatori dei vescovi, hanno anzitutto il dovere di annunciare a tutti il Vangelo di Dio.”

[8] J. Haas, Christus-Träger Kardinal Julius Döpfner. Kardinal Joseph Ratzinger erinnert an seinen Vorgänger als Erzbischof von München (Eichstätt 2005) 6.

[9] Vgl. K. Cardinal Koch, Evangelium und Prophetie im Lehramt der Päpste seit dem Zweiten Vatikanischen Konzil, in: M. Delgado (Hrsg.), „Sind sie etwa keine Menschen?“ – Evangelium und Prophetie (Fribourg 2013) 203-220.

[10] Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, n. 14.

[11] Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, n. 40.

[12] Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 2.

[13] Francesco, Evangelii Gaudium, n. 1.

[14] Vgl. Ch. Böttigheimer, Die eine Bibel und die vielen Kirchen. Die Heilige Schrift im ökumenischen Verständnis (Freiburg i. Br. 2016).

[15] J. Ratzinger, Die erste Sitzungsperiode des Zweiten Vatikanischen Konzils. Ein Rückblick (Köln 1963) 60.

[16] Vgl. U. Lutz / Th. Söding / S. Vollenweider (Hrsg.), Exegese – ökumenisch engagiert. Der „Evangelisch-Katholische Kommentar“ in der Diskussion über 500 Jahre Reformation (Göttingen – Neukirchen 2016).

[17] Vgl. W. Klaiber (Hrsg.), Biblische Grundlagen der Rechtfertigungslehre. Eine ökumenische Studie zur Gemeinsamen Erklärung zur Rechtfertigungslehre (Leipzig-Paderborn 2012).

[18] Vgl. W. Pannenberg und Th. Schneider (Hrsg.), Verbindliches Zeugnis I. Kanon –Schrift – Tradition = Dialog der Kirchen. Band 7 (Freiburg i. Br. – Göttingen 1992).

[19] Vgl. Th. Söding, Einheit der Heiligen Schrift? Zur Theologie des biblischen Kanons (Freiburg i. Br. 2005).

[20] I. Frank, Der Sinn der Kanonbildung (Freiburg i. Br. 1971) 20.

[21] J. Kardinal Ratzinger, Zur Gemeinschaft gerufen. Kirche heute verstehen (Freiburg i. Br. 1991) 65.

[22] H. Schütte, Protestantismus heute. Ökumenische Orientierung (Paderborn 2004) 70.

[23] Vgl. U. Luz, Was heisst „Sola Scriptura“ heute? Ein Hilferuf für das protestantische Schriftprinzip, in: Evangelische Theologie 57 1997) 28-41, zit. 41.

[24] Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, n. 22.

[25] J. Ratzinger – Benetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione (Città del Vaticano, 2011), p. 45.

[26] E. L. Ehrlich, Altes Testament oder Hebräische Bibel? Haben Christen und Juden eine gemeinsame Heilige Schrift? in: „Was uns trennt, ist die Geschichte“. Ernst Ludwig Ehrlich – Vermittler zwischen Juden und Christen. Hrsg. von H. Heinz / H. H. Hendrix (München 2008) 146-153, zit. 147.

[27] Dei Verbum, n. 9.

[28] H. de Lubac, Die göttliche Offenbarung. Kommentar zum Vorwort und zum Ersten Kapitel der Dogmatischen Konstitution „Dei verbum“ des Zweiten Vatikanischen Konzils (Einsiedeln 2001) 251.

[29] J. Ratzinger, Aus meinem Leben. Erinnerungen (Stuttgart 1998) 84.

[30] Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 7.

[31] J. Ratzinger, Das Problem der Dogmengeschichte in der Sicht der katholischen Theologie (Köln und Opladen 1966) 19.

[32] Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 7 con citazione di Bernardo di Chiaravalle.

[33] Vgl. dazu das grundlegende Werk von K-H. Menke, Inkarnation. Das Ende aller Wege Gottes (Regensburg 2021).

[34] Th. Söding, Gotteswort durch Menschenwort. Das Buch der Bücher und das Leben der Menschen, in: K.-H. Kronawitter / M. Langer (Hrsg.), Von Gott und der Welt. Ein theologisches Lesebuch (Regensburg 2008) 212-223, zit. 219.

[35] J. Ratzinger, Bemerkungen zum Schema „De fontibus revelationis“ (1962), in: Ders., Zur Lehre des Zweiten Vatikanischen Konzils = Gesammelte Schriften. Band 7 / 1 (Freiburg i. Br. 2012) 157-174, zit. 157.

[36] Ireneo di Lione, Adversus haereses 4, 32. 8.

[37] Vgl. J. Cardinal Ratzinger, Kirchliches Lehramt und Exegese. Reflexionen aus Anlass des 100-jährigen Bestehens der Päpstlichen Bibelkommission, in: Communio. Internationale katholische Zeitschrift 32 (2003) 522-529.

[38] In questo servizio, il Magistero della Chiesa è accompagnato e sostenuto dalla Pontificia Commissione Biblica, che nel 1993 ha pubblicato il documento “L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa”.

[39] J. Kardinal Ratzinger, Aus meinem Leben. Erinnerungen (Stuttgart 1998) 84.

[40] G. Lohfink, Bibel ja – Kirche nein. Kriterien richtiger Bibelauslegung (Bad Tölz 2004) 117.

[41] Dei Verbum, n. 10

[42] Vgl. dazu J. Kardinal Ratzinger, Die Bedeutung der Väter im Aufbau des Glaubens, in: Ders., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie (München 1982) 139-159, bes. 154-158.

[43] E. Dassmann, Ämter und Dienste in den frühchristlichen Gemeinden (Bonn 1994) 230.

[44] Th. Söding, Gotteswort durch Menschenwort. Das Buch der Bücher und das Leben der Menschen, in: K.-H. Kronawitter / M. Langer (Hrsg.), Von Gott und der Welt. Ein theologisches Lesebuch (Regensburg 2008) 216.

[45] Dei Verbum, n. 12.

[46] J. S. Drey, Kurze Einleitung in das Studium der Theologie mit Rücksicht auf den wissenschaftlichen Standpunkt und das katholische System 1819, Par. 160, in: M. Kessler und M. Seckler (Hrsg.), Theologie, Kirche, Katholizismus. Beiträge zur Programmatik der Katholischen Tübinger Schule (Tübingen 2003) 261.

[47] Benedetto XVI, Riflessioni sull’esegesi biblica. Intervento durante il Sinodo die Vescovi il 14 ottobre 2008, in: idem., Verbum Domini, n. 35.

[48] Vgl. B. Körner, Die Bibel als Wort Gottes auslegen. Historisch-kritische Exegese und Dogmatik (Würzburg 2011).

[49] J. Cardinal Ratzinger, Perspektiven der Priesterausbildung heute, in: Ders., u. a., Unser Auftrag. Besinnung auf den priesterlichen Dienst (Würzburg 1990) 11-38, zit. 28.

[50] Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 5.

[51] Hieronymus, Prolog zum Jesajakommentar, in: Patrologia Latina 24, 17.

[52] J. Cardinal Ratzinger / H. U. von Balthasar, Maria – Kirche im Ursprung (Einsiedeln 1997).

[53] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 40.