L’appello spirituale all’unità

 

Omelia durante la celebrazione eucaristica per l’unità dei cristiani

Belgrado, il 27 ottobre 2022

 

La lettera agli Efesini, di cui abbiamo ascoltato un brano dal quarto capitolo (4,1-16), contiene le affermazioni teologiche più importanti del Nuovo Testamento in merito alla Chiesa ed è un appassionato appello spirituale a tutti i battezzati, affinché preservino l’unità nella Chiesa e l’unità della Chiesa. Questo brano esprime con inequivocabile chiarezza che l’unità è e rimane una categoria fondamentale della fede cristiana ed è una parte essenziale dell’essere Chiesa.

Un Corpo e un capo

Quanto seriamente Paolo intenda questo appello lo si capisce già dal fatto che egli scrive dal carcere, dove si trova “prigioniero a motivo del Signore” (4,1). In una situazione di tale gravità, non si ha tempo per le sciocchezze, ma si esprime ciò che ci sta veramente a cuore. L’importanza che riveste per Paolo l’unità della Chiesa diventa ancora più evidente in virtù del fatto che egli ne individua il fondamento nella storia della salvezza che Dio riserva a tutta l’umanità: già prima della creazione del mondo, Dio ha scelto la Chiesa per mezzo di Cristo e l’ha convocata come suo popolo. Attraverso il battesimo, tutti i membri della Chiesa sono strappati al potere delle tenebre e sono intimamente uniti a Cristo. È dunque sorto nella Chiesa un nuovo genere umano, in cui Cristo ha stabilito la pace.

Alla luce di questa visione della storia della salvezza, la seconda parte della lettera trae alcune conclusioni etiche, la prima delle quali è il dovere di “conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti” (4,3-5). L’unità della Chiesa deriva dalla professione di fede in Gesù Cristo come unico Signore. Questo stretto legame tra la professione di fede cristiana in Gesù Cristo come unico Signore della Chiesa e la professione di fede nell’unità della Chiesa è stato espresso dalla tradizione cristiana, sulla base della lettera agli Efesini, con un’immagine, ovvero quella della Chiesa come Corpo e di Cristo come suo capo.

La lettura odierna ci invita a prendere molto sul serio l’immagine del capo e del Corpo: da un lato, senza capo, il corpo non è più un corpo ma un cadavere; la Chiesa degenera quindi in una caricatura di sé stessa quando Cristo non è più il suo fulcro come suo capo. Dall’altro lato, Cristo, come capo della sua Chiesa, ha un corpo visibile e vuole essere presente nel suo Corpo, motivo per cui può esistere una sola Chiesa. Cristo infatti non ha molti corpi, ma è unito a un solo Corpo, che è la Chiesa.

L’unità nel vento contrario del postmodernismo

Se consideriamo questa intima unione tra Gesù Cristo e la sua Chiesa, che è il suo Corpo, emerge allora una fastidiosa incongruenza nell’attuale situazione del cristianesimo: da un lato, tutti i cristiani concordano sulla professione di fede nella “Chiesa una santa cattolica e apostolica”. Dall’altro, i cristiani, che professano una sola Chiesa, vivono ancora in Chiese diverse e separate. Sorge così l’urgenza di capire cosa significhi per noi l’enfasi posta sull’unità della Chiesa nel brano che abbiamo appena letto.

In questo brano è racchiuso il fervente appello a superare i muri divisori che sono diventati parte della storia e a riscoprire l’unità tra noi cristiani. Se guardiamo al mondo di oggi, tuttavia, questo compito non risulta affatto facile. La ricerca ecumenica dell’unità è esposta a un forte vento contrario nello spirito del tempo pluralistico e relativistico che attualmente è così diffuso. In contrasto con la tradizione cristiana, in cui l’unità era considerata il senso e il fondamento della realtà in generale, oggi il pluralismo è al centro della cosiddetta esperienza postmoderna della realtà. Il presupposto postmoderno di fondo è che non si possa, e non si debba neppure, andare col pensiero al di là della pluralità del reale se non si vuole essere sospettati di avere un pensiero totalitario. Poiché il postmodernismo implica, come principio, l’accoglienza del plurale e il sospetto di ogni singolare, la ricerca dell’unità appare pre-moderna e antiquata. La mentalità postmoderna si fa sentire in parte anche nell’ecumenismo attuale, quando la moltitudine e la diversità delle Chiese esistenti è vista come una realtà positiva e ogni ricerca dell’unità della Chiesa è guardata con sospetto.

L’unità operata dallo Spirito nella diversità

In questa situazione, la lettura odierna ci esorta a mantenere viva la questione dell’unità della Chiesa con amorevole perseveranza. Naturalmente, ciò può avvenire in modo convincente solo se prendiamo sul serio anche il timore provato da non pochi cristiani, secondo cui, accentuando l’unità, si finirebbe col non lasciare spazio alla diversità e alla molteplicità.

Questo timore non trova però fondamento, come si evince dalla seconda parte del brano odierno, in cui viene descritta la varietà delle vocazioni e dei doni della grazia, che proprio nella loro diversità servono a edificare l’unica Chiesa. La fede cristiana prevede una forma specifica di unità, ovvero un’unità che vive nella diversità e una diversità che si raccoglie nell’unità. Secondo la fede cristiana, tale unità nella diversità può essere ricevuta solo come dono dello Spirito Santo, come sottolinea Papa Francesco: “lo Spirito Santo è lo Spirito di unità, che non significa uniformità. Solo lo Spirito Santo può suscitare la diversità, la molteplicità e, nello stesso tempo, operare l’unità”[1].

Lo Spirito Santo ci dona questa unità nella diversità, perché ci conduce al centro del mistero di Dio nella fede cristiana, nel mistero del Dio uno e trino, in cui coesistono due dimensioni, ugualmente originarie. In primo luogo, nel Dio uno e trino c’è spazio vitale per l’altro e quindi per la molteplicità e per la diversità. Il Padre è diverso dal Figlio, e il Figlio a sua volta è diverso dallo Spirito Santo. Nella divina Trinità c’è una meravigliosa molteplicità di persone. Ma in Dio c’è anche una meravigliosa unità di essenza divina. Benché il Padre sia diverso dal Figlio e il Figlio sia diverso dallo Spirito Santo, le Persone divine vivono sullo stesso piano dell’essere come partner del trialogo celeste. Il Padre è Dio, il Figlio è Dio e lo Spirito Santo è Dio. Il Dio uno e trino è in sé una comunione vivente nell’unità relazionale originaria dell’amore.

Alla luce di questo mistero divino, la Chiesa appare come lo spazio di salvezza donato dal Dio uno e trino o, come ha sottolineato il Concilio Vaticano Secondo, come “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”[2]. Alla luce del mistero cristiano di Dio, la Chiesa è chiamata a rappresentare nel mondo la comunione del Dio uno e trino e a vivere come icona della Trinità.

Vivere già l’unità sul cammino verso di essa

Cercando questa unità nella diversità, noi cristiani possiamo già essere una sola cosa adesso, anche se siamo ancora separati, a condizione che togliamo il veleno dalle divisioni, accettiamo ciò che in esse è fecondo e accogliamo quello che c’è di positivo nella diversità, sempre alla luce del mistero trinitario dell’amore, che Papa Benedetto XVI ha descritto magnificamente: “L’amore vero non annulla le legittime differenze, ma le armonizza in una superiore unità, che non viene imposta dall’esterno, ma che dall’interno dà forma, per così dire, all’insieme.”[3]

Con ciò, è possibile scorgere più chiaramente la vita di quell’unità della Chiesa che è già oggi possibile. Vivere insieme ecumenicamente implica non solo uno scambio di idee e di teorie, ma, più profondamente, uno scambio di doni. Questo è molto più di un semplice esercizio teorico: serve a conoscere a fondo le diverse comunità cristiane con le loro tradizioni, e a comprenderle meglio. Nessuna comunità cristiana è così povera da non poter apportare il suo insostituibile contributo alla più ampia comunione cristiana. E nessuna comunità cristiana è così ricca da non aver bisogno di essere arricchita dalle altre, e questo in forza della convinzione che ciò che lo Spirito Santo ha operato in altre comunità cristiane va accolto “come un dono anche per noi”[4].

Fin da oggi possiamo vivere tale unità nella diversità. Ma possiamo farlo in modo credibile solo se non ci fermiamo qui accontentandoci di vivere serenamente fianco a fianco, e se ci mettiamo insieme in cammino per trovare nuovamente l’unità perduta della Chiesa. Il modo migliore è attraverso la preghiera, alla quale ci esorta il Vangelo. Le Sacre Scritture ci mostrano infatti che Gesù non ha comandato l’unità ai suoi discepoli né l’ha pretesa da loro, ma ha pregato per essa. Questa semplice ma fondamentale affermazione è anche di cruciale importanza per il nostro impegno ecumenico. In definitiva, il compito ecumenico non può essere altro che il nostro sintonizzarci con la preghiera sacerdotale del Signore: “affinché tutti siano una sola cosa”. Se ci lasciamo condurre all’interno di questa preghiera, troveremo l’unità tra noi cristiani.

La preghiera per l’unità è e rimane anche oggi il segno spirituale distintivo di ogni sforzo ecumenico. Così anche in questa celebrazione eucaristica, in questo sacramentum unitatis, vogliamo chiedere al Signore che ci conceda la grazia di ritrovare quell’unità che corrisponde alla volontà di Cristo e che ci viene presentata vividamente dalla lettura odierna: “Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti.”

 

Lettura: Ef 4, 1-13 (Ascensione B)

Vangelo:               Gv 17, 20-26 (Settima domenica di Pasqua C)

 

Comp:             ÖkumeneBelgrad2022Italiano

 

 

 

 

 

 

[1] Francesco, Omelia nella cattedrale cattolica dello Spirito Santo a Istanbul, il 29 novembre 2014.

 

 

[2] Lumen gentium, n. 4.

 

 

[3] Benedetto XVI, Omelia nella celebrazione dei Vespri a conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, il 25 gennaio 2006.

 

 

[4] Francesco, Evangelii gaudium, n. 246.