La dimensione ecumenica della formazione teologica

 

Kurt Cardinale Koch

 

1. La necessità della formazione ecumenica

L’ecumenismo non può e non deve essere semplicemente «una qualche “appendice”, che s’aggiunge all’attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo».[1] Con queste parole, il Santo Papa Giovanni Paolo II, nella sua importante Enciclica sull’impegno ecumenico “Ut unum sint” del 1995, si riferisce al ruolo fondamentale che il movimento per l’unità dei cristiani deve assumere nella vita della Chiesa cattolica. L’ecumenismo, infatti, non è una scelta opzionale ma un dovere, ovvero un compito impellente per tutta la Chiesa, come viene sottolineato esplicitamente nel Decreto sull’ecumenismo, “Unitatis redintegratio” del Concilio Vaticano Secondo: “La cura di ristabilire l’unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e tocca ognuno secondo le proprie possibilità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici e storici.”[2]

Alla luce di questa ampia definizione dell’impegno ecumenico, è facilmente comprensibile che anche e precisamente la teologia debba apportare un contributo essenziale all’adempimento del compito menzionato, partendo dal presupposto che essa comprende se stessa e si realizza come un servizio reso al dovere intellettuale della fede della Chiesa e al suo approfondimento. Di fatti, la Chiesa non è primariamente tema e oggetto della teologia, ma è soprattutto, in modo più profondo, il soggetto e l’ambito vitale nel quale la teologia si attua. Chiesa e teologia sono dunque interdipendenti l’una dall’altra in maniera permanente: “Una Chiesa senza teologia diventa povera e cieca; ma una teologia senza Chiesa si dissolve nell’arbitrario.”[3] La teologia cristiana è sempre dentro la Chiesa e vive grazie alla Chiesa, e in questo senso è fondamentalmente una teologia ecclesiale. Soltanto in questo modo essa può contribuire al ripristino dell’unità della Chiesa, a proposito della quale il Decreto sull’ecumenismo afferma che la Chiesa è stata voluta e fondata da Cristo “una e unica”[4].

Per farsi carico di tale compito, la teologia dovrà rivolgere il proprio interesse particolare alla formazione ecumenica. La sua necessità è stata già evidenziata nel “Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo” pubblicato nel 1993 dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani; l’intero capitolo terzo del Direttorio è infatti dedicato alla formazione ecumenica, che deve riguardare in primo luogo tutti i battezzati: “Scopo della formazione ecumenica è che tutti i cristiani siano animati dallo spirito ecumenico, qualunque sia la loro particolare missione e la loro specifica funzione nel mondo e nella società.”[5] Affinché la Chiesa possa assolvere questo dovere, il Direttorio pone un accento particolare sulla formazione ecumenica dei futuri cooperatori nel campo della pastorale. Per sottolineare nuovamente l’importanza di questo compito, il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha pubblicato un proprio documento nel 1998, dal titolo “La dimensione ecumenica nella formazione di chi si dedica al ministero pastorale”.

Nei documenti sopramenzionati viene fatta una distinzione tra un corso specifico sull’ecumenismo, nel quale devono essere trattati i fondamenti, i metodi e gli obiettivi dell’ecumenismo, e la dimensione ecumenica, che deve essere contenuta e sviluppata nell’insegnamento di ogni disciplina teologica. Naturalmente i due compiti sono interdipendenti. Un corso specifico sull’ecumenismo, infatti, potrà essere fruttuoso soltanto se parte dalla dimensione ecumenica esistente in ciascuna disciplina teologica, e l’approfondisce. Dal canto loro, le varie discipline teologiche hanno bisogno di una sistematizzazione e di una valorizzazione della loro dimensione ecumenica all’interno di un corso specifico, ai fini di una promozione dell’attività ecumenica concreta.

Nel mio presente intervento, non mi concentrerò sullo sviluppo di un corso specifico sull’ecumenismo, ma mi soffermerò piuttosto sulla dimensione ecumenica delle discipline teologiche. Invece di esporre i principi di fondo, che possono essere rintracciati nei documenti sopramenzionati, tenterò di parlare di ciò che si richiede concretamente a due discipline teologiche, proprio a quelle in cui non ci si aspetterebbe di trovare una spiccata dimensione ecumenica, ma che devono invece svolgere un compito importante: mi riferisco alla scienza liturgica e alla teologia del diritto canonico.

 

2. La dimensione ecumenica delle discipline teologiche

Il fatto che le discipline storiche presentino una dimensione ecumenica di fondo dovrebbe risultare evidente dalla costatazione che, senza la conoscenza storica delle varie divisioni nella Chiesa e del movimento ecumenico, l’ecumenismo in sé non sarebbe comprensibile. Nelle discipline storiche devono essere indagati anche i fattori non-teologici che hanno condotto alle divisioni nella Chiesa. In questo senso, già Yves Congar sottolineava che il processo di estraniamento culturale è in gran parte responsabile della divisione nella Chiesa tra Oriente e Occidente, tanto che i cristiani non si sono divisi principalmente intorno a formulazioni dottrinali, ma si sono allontanati gli uni dagli altri a causa del loro diverso modo di vivere.[6] Alla luce di ciò, il Decreto sull’ecumenismo afferma: “L’insegnamento della sacra teologia e delle altre discipline, specialmente storiche, deve essere impartito anche sotto l’aspetto ecumenico, perché abbia sempre meglio a corrispondere alla verità dei fatti.”[7] Altrettanto chiaro dovrebbe essere il fatto che nelle discipline di teologia sistematica è presente una dimensione ecumenica di base, che potrebbe essere valorizzata facendo riferimento ai diversi dialoghi ecumenici, nei quali, nel corso degli ultimi cinquant’anni, sono stati prodotti e pubblicati molti documenti di convergenza e di consenso su questioni attinenti alla fede cristiana e all’ordinamento ecclesiale, testi che sono diventati dei “documenti di crescente intesa”[8], a dimostrazione del grande contributo apportato dalla teologia sistematica alla ricomposizione dell’unità dei cristiani. Ciò che vale per la teologia in senso generale, può essere detto, dal punto di vista ecumenico, anche dell’ecclesiologia in modo particolare.[9]

 

a) La dimensione ecumenica della scienza liturgica

A mio avviso, ancora più importante della dimensione ecumenica della teologia sistematica è quella della dossologia, della lode liturgica a Dio, nella quale i cristiani delle varie Chiese si avvicinano gli uni agli altri più di quanto non facciano con la sola teologia. Proprio alla luce della liturgia, si capisce il modo in cui l’impegno ecumenico concepisce se stesso, secondo la convinzione fondamentale espressa dal Concilio Vaticano Secondo: “Si devono conoscere lo spirito e il pensiero dei fratelli separati.” Questa convinzione è il prerequisito di ogni dialogo ecumenico di cui parla concretamente il Decreto sull’ecumenismo: i cattolici devono acquisire “una migliore conoscenza della dottrina e della storia, della vita spirituale e liturgica, della psicologia religiosa e della cultura propria dei fratelli”[10]. Ad esempio, basandosi su questo fondamento conciliare, le “Linee guida per la crescita della collaborazione tra le Chiese in Europa”, che hanno assunto il nome di “Charta ecumenica”, esprimono in maniera particolarmente riuscita l’impegno consistente nell’ “imparare a conoscere e ad apprezzare le celebrazioni e le altre forme di vita spirituale delle Chiese”[11].

Non è dunque sorprendente che la riflessione teologica sulla liturgia porti alla luce la vera essenza del dialogo ecumenico, che non consiste semplicemente in uno scambio di idee, di pensieri e di teorie, ma è uno scambio arricchente di doni. Poiché le varie Chiese e Comunità ecclesiali preservano i loro doni più belli proprio nella loro vita liturgica e, nelle loro liturgie, attingono alla loro più grande ricchezza spirituale, lo scambio di doni liturgici tra le diverse comunità di fede cristiane è anche uno dei compiti della scienza liturgica.[12]

Ciò appare chiaramente se gettiamo un rapido sguardo alla storia, nella quale un simile scambio di doni liturgici ha già avuto luogo. Se ripensiamo ai principi della Costituzione conciliare sulla sacra liturgia “Sacrosanctum concilium” e a quelli della riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano Secondo, riconosceremo inevitabilmente che la Chiesa cattolica si è ispirata alle liturgie di altre Chiese. Le liturgie delle Chiese e delle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma hanno avuto un forte impatto sulla riscoperta dell’importanza specifica della Parola di Dio e del suo ruolo all’interno della liturgia della Chiesa cattolica. Dal Concilio Vaticano Secondo in poi, la centralità della Parola di Dio nella liturgia della Chiesa cattolica è un aspetto indiscusso; essa ha trovato espressione in modo particolare nella Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione “Dei verbum”, che sottolinea il legame naturale tra l’annuncio della Parola di Dio e la liturgia, e soprattutto l’eucaristia: “La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli.”[13]

La teologia e la forma liturgica nella Chiesa cattolica sono state influenzate in maniera fruttuosa anche dalle liturgie delle Chiese ortodosse e ortodosse orientali, come risulta evidente se consideriamo ad esempio i rispettivi modi di comprendere la liturgia. Nella prassi e nella scienza liturgica della tradizione occidentale l’enfasi è posta principalmente sull’assemblea della comunità e, di conseguenza, sulla forma che la liturgia deve assumere per corrispondere in maniera più adeguata alla consapevolezza della fede della comunità. Diversamente da quanto accade nella tradizione occidentale con questa marcata accentuazione della prospettiva comunitaria, la liturgia nella tradizione orientale è concepita primariamente come un evento cosmico, nel senso che la liturgia, e soprattutto l’eucaristia, è un’anticipazione del canto di lode escatologico di tutto il cosmo; la liturgia celeste s’immette già nella liturgia terrena della Chiesa, è presente in essa, di modo che cielo e terra si tocchino. Nella concezione delle Chiese orientali, la liturgia è molto più della semplice assemblea di una comunità di fedeli – grande o piccola che sia. Essa viene piuttosto celebrata nelle grandezze del cosmo, abbraccia sia la storia che la creazione e rende trasparente la parete divisoria tra la liturgia celeste e quella terrena. Accogliendo questa visione orientale della liturgia, soprattutto Papa Benedetto XVI ha voluto rivitalizzare, come elemento centrale di un rinnovamento liturgico all’interno della Chiesa cattolica, la dimensione cosmica della liturgia: “La liturgia cristiana è un evento cosmico – nella preghiera il creato si unisce a noi e noi al creato; in tal modo, si dischiude il cammino verso quella nuova creazione attesa da tutte le creature.”[14]

Gli esempi sopracitati testimoniano gli influssi esercitati dalle liturgie di altre Chiese sulla liturgia della Chiesa cattolica. Naturalmente, lo scambio di doni liturgici avviene anche nell’altro senso. Dopo il Concilio Vaticano Secondo, la teologia e la prassi liturgica della Chiesa cattolica hanno notevolmente agevolato, nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, un’interpretazione ed una definizione – meno gravate da retaggi storici – della cena del Signore come eucaristia, rivalorizzando la preghiera eucaristica all’interno della liturgia della cena del Signore come aspetto centrale di tale celebrazione. Quale conseguenza positiva di questi sviluppi, definiti giustamente da F. Schulz “frutto di una convergenza ecumenica”[15], va costatato il fatto che l’antica preghiera eucaristica della costituzione ecclesiastica di Sant’Ippolito è stata accolta dagli anglicani inglesi e americani, dai luterani degli Stati Uniti e dai riformati della Svizzera francese nelle loro raccolte di preghiere eucaristiche ed è diventata dunque de facto una preghiera eucaristica ecumenica. Strettamente legato a quanto appena detto, il modo in cui viene compreso il sacrificio nella teologia e nella liturgia della Chiesa cattolica, ispirato al concetto orientale di anafora, ha fatto sì che anche nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, all’interno delle quali, soprattutto al tempo della Riforma, la dimensione sacrificale dell’eucaristia era molto controversa, ci si sia avvicinati in modo nuovo al concetto di sacrificio e ne sia stata rivitalizzata l’interpretazione biblica, secondo la quale Dio dona ciò che noi uomini gli doniamo, ma anche noi uomini doniamo realmente a Dio, o meglio restituiamo a Dio, ciò che egli stesso ci ha dato.[16]

Questo scambio ecumenico di doni liturgici fa affiorare anche l’intima corrispondenza tra la vita liturgica e l’ecumenismo spirituale, che rappresenta il fulcro più profondo dell’impegno ecumenico e che, definito dal Concilio “l’anima di tutto il movimento ecumenico”[17], si merita un’attenzione particolare nella formazione ecumenica. Alla luce di ciò, la scienza liturgica potrebbe e dovrebbe facilitare in maniera ancora più intensa il riavvicinamento ecumenico tra i cristiani.

La fondatezza di quanto appena detto risulta soprattutto dalla costatazione che il dolore causato dalle divisioni tuttora esistenti nella Chiesa e dalla mancanza di una piena comunione tra i cristiani viene percepito in maniera più acuta proprio nella vita liturgica delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, e soprattutto nella sua forma sacramentale-eucaristica. Questo dolore fu espresso con parole pregnanti dal Cardinale Augustin Bea, il primo Presidente dell’allora Segretariato per l’unità dei cristiani, il quale osservò che il “sacramentum unitatis” era diventato “il segno dell’unità perduta”. Poiché nelle liturgie delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali traspare chiaramente anche la disunità tra i credenti, è legittimo parlare di “epifania di empie divisioni”[18].  Una simile costatazione costituisce un solido motivo per sviluppare la dimensione ecumenica della scienza liturgica al servizio dell’unità dei cristiani, i cui primi approcci sono già molti incoraggianti.[19]

 

b) La dimensione ecumenica del diritto canonico

Passiamo ora alla seconda disciplina teologica, che presenta una dimensione ecumenica altrettanto essenziale, ovvero la teologia del diritto canonico. Già il Santo Papa Giovanni XXIII, nell’annunciare il Concilio Vaticano Secondo il 25 gennaio 1959 nella Basilica di San Paolo fuori le mura, prospettò anche una riforma del diritto canonico e usò i verbi “accompagnare e coronare” per descrivere il legame tra Concilio e rinnovamento del diritto canonico, convinto che tale rinnovamento dovesse accompagnare e coronare il lavoro del Concilio, al fine di poter tradurre gli orientamenti derivati dal Concilio nella vita, nella guida e nella disciplina della Chiesa.[20] Su questa stessa scia, il Santo Papa Giovanni Paolo II, nella sua Costituzione apostolica “Sacrae disciplinae leges” del 1983 per la promulgazione del nuovo codice di diritto canonico, sottolineò che il rinnovamento postconciliare del diritto canonico doveva prefissarsi come obiettivo quello di “tradurre in linguaggio canonistico” l’ecclesiologia conciliare[21]. Egli affermò persino che il nuovo codice era parte integrante del Concilio, era l’ “ultimo documento conciliare”[22].

È dunque facilmente comprensibile che a Papa Giovanni Paolo II premesse molto il legame tra l’ecclesiologia conciliare e la codificazione del diritto della Chiesa universale anche e precisamente in riferimento all’impegno ecumenico della Chiesa cattolica. Egli riteneva infatti che l’obiettivo della ricomposizione dell’unità dei cristiani fosse uno dei motivi centrali anche della codificazione del diritto canonico della Chiesa universale.[23] In marcato contrasto con il Codice del 1917, il quale non tratta i non-cattolici come un tema a se stante, e vieta essenzialmente gli incontri tra cattolici e non cattolici, e i dialoghi condotti tra di loro[24], il CIC prevede l’obbligo giuridico esplicito della Chiesa cattolica di partecipare al movimento ecumenico.[25] Di fatti, si sottolinea espressamente che “la Chiesa è tenuta a promuovere per volontà di Cristo”[26] il ristabilimento dell’unità tra tutti i cristiani, ed il fondamento dell’impegno ecumenico è ravvisato nel testamento di Gesù; ciò consente di parlare di un dovere ecumenico de iure divino.

Il dovere di assumersi come impegno la promozione dell’obiettivo ecumenico, inserito dal legislatore nella normativa riguardante la Chiesa universale, risulta evidente anche alla luce di ciò che viene raccomandato al Vescovo diocesano[27]: “Abbia un atteggiamento di umanità e di carità nei confronti dei fratelli che non sono nella piena comunione con la Chiesa cattolica, favorendo anche l’ecumenismo, come viene inteso dalla Chiesa.”[28] Questo dovere ecumenico figura all’interno della descrizione dei compiti del Vescovo diocesano e, più precisamente, dell’esercizio del suo ministero pastorale. Ciò dimostra chiaramente che la promozione dell’ecumenismo nel ministero del Vescovo diocesano non è né una questione di predilezione personale, né un esercizio pastorale opzionale che può essere rinviato davanti a priorità apparentemente più importanti. Piuttosto, il compito di promuovere l’ecumenismo è implicito nel ministero pastorale stesso del Vescovo, che è essenzialmente un servizio all’unità, ovvero a quell’unità che deve essere intesa in maniera più ampia della semplice unità della propria comunità diocesana e che comprende anche i battezzati non cattolici. Poiché, conformemente al diritto canonico, il Vescovo deve favorire l’ecumenismo “come viene inteso dalla Chiesa”, è chiaro che egli deve richiamarsi a quella formazione ecumenica avuta nel corso dei suoi studi teologici.

Ancora più esplicito di quello contenuto nel Codice del 1983 per la Chiesa latina è l’obbligo giuridico ecclesiologico di partecipare al movimento ecumenico formulato nel Codice dei Canoni delle Chiese cattoliche orientali, il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium (CCEO), che, promulgato nel 1990 da Papa Giovanni Paolo II, è importante da un triplice punto di vista[29]. La sua rilevanza fondamentale a livello ecumenico va individuata innanzitutto nel fatto che la Chiesa cattolica dispone, per la prima volta nella storia, di due codici canonici diversi e riconosce così una certa pluralità giuridica, come aveva già prospettato papa Giovanni XXIII al momento della proclamazione del Concilio. In secondo luogo, mentre il CIC non contiene una sezione specifica e sistematica sulla responsabilità ecumenica, ma vi fa riferimento con varie norme, situandola soprattutto all’interno del servizio di annuncio evangelico della Chiesa, nel CCEO, accanto a singoli canoni significativi a livello ecumenico, è dedicato al compito ecumenico della Chiesa un titolo a parte, ovvero il Titolo XVIII, che si chiama “L’ecumenismo cioè la promozione dell’unità dei cristiani”[30]. Nel canone fondamentale n. 902, tutti i cristiani ed in particolare i pastori della Chiesa sono esortati a “pregare il Signore per questa desiderata pienezza di unità della Chiesa” e ad adoperarsi partecipando all’opera ecumenica “suscitata dalla grazia dello Spirito Santo”.

In terzo luogo, sempre da un punto di vista ecumenico, colpisce il limite temporale della validità del CCEO e dunque il suo carattere transitorio. Già il Concilio Vaticano Secondo, nel suo Decreto sulle Chiese cattoliche orientali “Orientalium ecclesiarum”, aveva riconosciuto, nell’affermazione conclusiva, che tutte le sue disposizioni giuridiche erano valide “per le presenti condizioni, fino a che la Chiesa cattolica e le Chiese orientali separate si uniscano nella pienezza della comunione”[31]. Anche Papa Giovanni Paolo II, nella sua Costituzione apostolica “Sacri canones”, osservava che i canoni del CCEO hanno validità “fino a quando non vengono abrogati o modificati dalla massima autorità della Chiesa per giusti motivi”, il più importante di questi motivi essendo la “piena comunione di tutte le Chiese d’oriente con la Chiesa cattolica”[32]. Da ciò risulta chiaro che il limite temporale della validità del CCEO è legato a una prospettiva ecumenica, e che le Chiese cattoliche orientali hanno una particolare responsabilità ecumenica, definita esplicitamente nel Decreto conciliare sulle Chiese cattoliche orientali: “Alle Chiese orientali aventi comunione con la Sede apostolica romana, compete lo speciale ufficio di promuovere l’unità di tutti i cristiani, specialmente orientali, secondo i principi del Decreto «sull’ecumenismo» promulgato da questo santo Concilio.”[33] Pertanto, il limite temporale della validità del CCEO significa concretamente che quando sarà realizzata la piena comunione tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse e ortodosse orientali, il compito del CCEO sarà esaurito e dovrà essere messa a punto una nuova normativa.

Con ciò, si dischiude una prospettiva incoraggiante, ovvero quella dell’elaborazione di un diritto canonico ecumenico. Nella situazione attuale, questo non è ancora realizzabile, poiché occorrerà giungere prima all’unità della Chiesa. Al momento si può parlare soltanto di una giurisdizione della Chiesa cattolica sull’ecumenismo. Ma se prendiamo sul serio il dovere fondamentale di tutti i battezzati di partecipare al movimento ecumenico sancito dal diritto canonico, è evidente che gli sviluppi futuri nella convivenza ecumenica tra i cristiani condurranno anche a ulteriori sviluppi a livello di norme giuridiche. Questo dovere giuridico rappresenta comunque fin da oggi, dal punto di vista ecumenico, un grande contributo nel mantenere sveglia e nel promuovere una delle priorità centrali del Concilio Vaticano Secondo. Entrambi i codici di diritto canonico mostrano che l’impegno ecumenico deriva dall’ecclesiologia stessa del Concilio e che si tratta di un dovere vincolante.

Ciò che è stato ricordato a proposito del diritto della Chiesa vale anche per la teologia nel suo complesso: essa assolve il proprio compito e la propria missione ecclesiale soltanto se si pone al servizio della ricomposizione dell’unità della Chiesa, e se vi apporta il suo insostituibile contributo. Questo potrà avvenire soltanto se, da un lato, le facoltà di teologia offriranno corsi specifici di teologia ecumenica e se, dall’altro, le singole discipline cureranno ed approfondiranno la loro dimensione ecumenica. Di fatti, la formazione ecumenica è la garanzia grazie alla quale l’ecumenismo potrà essere considerato, anche in futuro, come un sacro dovere, ed il movimento ecumenico potrà raggiungere il suo obiettivo, consistente nell’unità visibile in una pluralità riconciliata.

Sono molto lieto che la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino abbia assunto tra i suoi impegni quello della promozione dell’ecumenismo, ed abbia deciso di offrire, in collaborazione con il nostro Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, il corso “Ut unum sint” per la formazione continua in ecumenismo, mettendo in evidenza la dimensione ecumenica delle discipline teologiche e dedicando a questo importante tema l’odierna cerimonia. Di questo vi sono sinceramente riconoscente. E vi ringrazio per la vostra attenzione.

 

 

 

[1].       Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 20.

[2].       Unitatis redintegratio, n. 5.

[3].       J. Cardinal Ratzinger, Vom geistlichen Grund und vom kirchlichen Ort der Theologie, in: Ders., Wesen und Auftrag der Theologie. Versuche zu ihrer Ortsbestimmung im Disput der Gegenwart (Einsiedeln 1993) 39-62, zit. 41.

[4].       Unitatis redintegratio, n. 1.

[5].       Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo, n. 58.

[6].       Vgl. Y. Congar, Zerstrittene Christenheit. Wo trennten sich Ost und West (Wien 1959).

[7].       Unitatis redintegratio, n. 10.

[8].       Vgl. H. Meyer u. a. (Hrsg.), Dokumente wachsender Übereinstimmung. Sämtliche Berichte und Konsenstexte interkonfessioneller Gespräche auf  Weltebene. Band 1: 1931-1982 (Paderborn – Frankfurt a. M. 1983), Band 2: 1982-1990 (Paderborn – Frankfurt a. M. 1992); Band 3: 1990-2003 (Paderborn – Frankfurt a. M. 2003); J. Oeldemann u. a. (Hrsg.), Band 4: 2001-2010 (Paderborn – Leipzig 2012).

[9].       Vgl. H. Destivelle, L´Oecuménisme n´est pas une spécialité. Enseignement de l´oecuménisme et oecuménisme de l´enseignement: le cas de l´ecclésiologie, dans:  Idem, Conduis-la vers l´unité parfaite. Oecuménisme et synodalité (Paris 2018) 199-209.

[10].      Unitatis redintegratio, n. 9.

[11].      N. 5.

[12].      Vgl. K. Kardinal Koch, Liturgiereform und Einheit der christlichen Kirchen, in:  G. W. Lathrop / M. Stuflesser (Hrsg.), Liturgiereformen in den Kirchen. 50 Jahre nach Sacrosanctum concilium  = Theologie der Liturgie. Band 5 (Regensburg 2013) 111-124, Ders., Gabe und Aufgabe. Roms Liturgiereformen in ökumenischer Perspektive, in: St. Heid (Hrsg.), Operation am lebenden Objekt. Roms Liturgiereformen von Trient bis zum Vaticanum II (Berlin 2014) 11-26.

[13].      Dei verbum, n. 21.

[14].      J. Ratzinger, Geleitwort zur koreanischen Ausgabe von „Der Geist der Liturgie“, in: R. Voderholzer – Ch. Schaller – F.-X. Heibl (Hrsg.), Mitteilungen Institut-Papst-Benedikt XVI. Band 2 (Regensburg 2009) 53-55, zit. 54.

[15].      F. Schulz, Das Eucharistiegebet in den Kirchen der Reformation als Frucht ökumenischer Konvergenz. Rezeption und Revision, in: K. Schlemmer (Hrsg.), Gemeinsame Liturgie in getrennten Kirchen (Freiburg i. Br. 1991) 82-118.

[16].      Vgl. K. Lehmann und E. Schlink (Hrsg.), Das Opfer Jesu Christi und seine Gegenwart in der Kirche. Klärungen zum Opfercharakter des Herrenmahles = Dialog der Kirchen. Band 3 (Freiburg i. Br. – Göttingen 1983).

[17].      Unitatis redintegratio, n. 8. Cfr. K. Koch, Rediscovering the soul of the whole ecumenical movement (UR 8). Necessity and perspectives of an ecumenical spirituality, in: The Pontifical Council for Promoting Christian Unity (Ed.), Information Service Nr. 115 (2004) 31-39.

[18].      T. Berger, Prolegomena für eine ökumenische Liturgiewissenschaft, in:  Archiv für Liturgiewissenschaft 29 (1987) 1-18, zit. 2.

[19].      Vgl. K. Schlemmer (Hrsg.), Gottesdienst – Weg zur Einheit. Impulse für die Ökumene (Freiburg i. Br. 1989); Ders. (Hrsg.), Gemeinsame Liturgie in getrennten Kirchen (Freiburg i. Br. 1991). Vgl. ferner K.-H. Bieritz, Chancen einer ökumenischen Liturgik, in: Zeitschrift für Katholische Theologie 100 (1978) 470-483; H. –J. Feulner, „Ut omnes unum sint“. Zur ökumenischen Bedeutung einer vergleichenden Liturgiewissenschaft, in: Ders., Liturgies in East and West. Ecumenical Relevance of Early Liturgical Development (Wien 2013).

[20].      Giovanni XXIII, Questa festiva ricorrenza il 25 gennaio 1959, in: AAS 51 (1959) 65-69.

[21].      Giovanni Paolo II, Sacrae disciplinae leges.

[22].      Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al corso sul nuovo codice di diritto canonico, il 21 novembre 1983.

[23].      Cfr. K. Koch, L’attività legislativa di Giovanni Paolo II e la promozione dell’unità dei cristiani, in: L. Gerosa (ed.), Giovanni Paolo II: Legislatore della Chiesa. Fondamenti, innovazioni e aperture. Atti del Convegno di Studio (Città del Vaticano 2013) 160-177.

[24].      Can 325 § 3 CIC/1917.

[25].      Vgl. W. Aymanns, Ökumenische Aspekte des neuen Gesetzbuches der Lateinischen Kirche Codex Iuris Canonici, in: AfrKR 151 (1982) 479-489, bes. 479-484; H. Hallermann (Hrsg.), Ökumene und Kirchenrecht – Bausteine oder Stolpersteine? (Mainz 2000); W. Kasper, Diritto canonico ed ecumenismo, in: M. Graulich (Hrsg.), Il Codice di Diritto canonico al servizio della missione della Chiesa (Roma 2008) 53-69.

[26].      Can. 755 §1 CIC 1983.

[27].      Cfr. Card. K. Koch, Il Vescovo e l’ecumenismo, in: Congregazione per i Vescovi (ed.), Duc in altum. Pellegrinaggio alla Tomba di San Pietro. Incontro di riflessione per i nuovi Vescovi (Città del Vaticano 2001) 263-281.

[28].      Can. 383 §3 CIC 1983.

[29].      Cfr. K. Koch, L’incidenza del CCEO sul dialogo ecumenico, in: Pontificio Consiglio per i testi legislativi (ed.), Il Codice delle Chiese orientali. La storia, le legislazioni particolari, le prospettive ecumeniche. Atti del convegno di studio tenutosi nel XX anniversario della promulgazione del Codice dei Canoni delle Chiese orientali (Città del Vaticano 2011) 43-50.

[30].      Canones 902-908 CCEO.

[31].      Orientalium ecclesiarum, n. 30.

[32].      Giovanni Paolo II, Constitutio Apostolica “Sacri canones” del 18 ottobre 1990.

[33].      Orientalium ecclesiarum, n. 24.