CONFERENZA PRESSO L''ASSOCIAZIONE SVIZZERA INTERNAZIONALE "AMICI DI EUGENIO CORECCO, VESCOVO DI LUGANO"

 

Il ministero pastorale del vescovo
al servizio dell’unità ecumenica

 

Lugano, 23 marzo 2019

 

Poiché Gesù ha conferito a Pietro compiti pastorali consistenti nel “mantenere l’unità del gregge”, il ministero petrino è anche “ministero dell’unità”: “il compito di Pietro è di cercare costantemente le vie che servono al mantenimento dell’unità.” Il ministero petrino, dunque, “si esplica in particolare nel campo ecumenico”[1]. Con queste parole, il santo Papa Giovanni Paolo II, nel suo libro “Varcare la soglia della speranza”, ha espresso la propria visione dell’inscindibile legame esistente tra il suo ministero petrino al servizio dell’unità della Chiesa ed il suo impegno ecumenico a favore del ripristino dell’unità dei cristiani. Di fatti, era sua ferma convinzione che il ministero petrino andasse compreso e realizzato oltre i confini della Chiesa cattolica anche come servizio reso alla più ampia unità di tutti i cristiani. Ciò che Papa Giovanni Paolo II ha sottolineato a proposito del ministero papale sul piano universale della Chiesa vale in modo analogo per il ministero episcopale a livello locale. Come pastore del gregge affidatogli, il vescovo è “il visibile principio e fondamento di unità” della sua chiesa particolare[2] ed ha il compito specifico di radunare tutti i credenti nell’unità. Infatti, il ministero pastorale del vescovo al servizio dell’unità non èoltanto uno dei tanti incarichi che egli deve assolvere, ma rappresenta parte integrante del suo ministero. In questo servizio di unità della Chiesa, la sua sollecitudine dovrà estendersi “anche a quelli che non fanno ancor parte dell’unico gregge e li consideri come affidatigli dal Signore”[3].

 

1. L’ecumenismo come obbligo pastorale del vescovo

La responsabilità pastorale di promuovere e ricomporre l’unità dei cristiani è affidata in modo particolare al vescovo nel suo ministero di unità; si tratta di un obbligo giuridico. Nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium si legge infatti: “Poiché la sollecitudine di ristabilire l’unità di tutti quanti i cristiani spetta all’intera Chiesa, tutti i fedeli cristiani, ma specialmente i Pastori della Chiesa, devono pregare il Signore per questa desiderata pienezza di unità della Chiesa e darsi da fare partecipando ingegnosamente all’attività ecumenica suscitata dalla grazia dello Spirito Santo.”[4] E nel Codice canonico della Chiesa latina, si afferma a proposito del vescovo: “abbia un atteggiamento di umanità e di carità nei confronti dei fratelli che non sono nella piena comunione con la Chiesa cattolica, favorendo anche l’ecumenismo, come viene inteso dalla Chiesa”[5]. Queste parole tanto brevi quanto precise contengono gli aspetti essenziali della responsabilità ecumenica del vescovo. Il ministero episcopale comprende tre principali responsabilità, sui cui mi soffermerò qui di seguito più nel dettaglio.

 

a) Il ministero pastorale dell’unità ecumenica

Il compito di promuovere l’ecumenismo figura in primo luogo nel CIC là dove vengono descritti i doveri del vescovo diocesano e, più precisamente, l’esercizio del suo ministero pastorale. In questo contesto specifico, si fa presente che la promozione dell’ecumenismo nel ministero del vescovo diocesano non è né una questione di premura personale, né un esercizio pastorale opzionale che potrebbe e dovrebbe essere posto in seconda posizione davanti a priorità apparentemente più importanti. Esso non è una scelta arbitraria, ma un obbligo, o meglio un “sacro obbligo”[6]. Infatti, il compito di promuovere l’ecumenismo è implicito nel ministero pastorale del vescovo, che è essenzialmente un servizio all’unità, ovvero a quell’unità che deve essere intesa in maniera più ampia della semplice unità della propria comunità diocesana e che comprende anche e precisamente i battezzati non cattolici.

Il servizio reso dal vescovo all’unità della propria diocesi, della Chiesa universale e della comunità ecumenica rappresenta una sfida del tutto particolare ai nostri giorni, poiché oggi la ricerca dell’unità ed il discorso su di essa sono percepiti ampiamente come problematici se non addirittura come sospetti. A differenza di quanto avviene nella Tradizione, in cui, secondo l’assioma teologico “ens et unum convertuntur”, l’unità è intesa come senso e fondamento della realtà, oggi il pluralismo è diventato un concetto chiave nella percezione dell’esperienza della realtà. L’idea alla base della mentalità postmoderna consiste nella convinzione di non dovere e di non potere indagare col pensiero oltre la pluralità della realtà se non si vuole essere sospettati di propendere verso un pensiero totalitario; si è cioè convinti che la pluralità è l’unico modo in cui la totalità del reale ci si mostra, se mai lo fa[7]. Il rifiuto per principio del concetto di unità è tipico del postmodernismo, che è segnato dalla propensione verso il plurale e dal sospetto nei confronti del singolare e, di conseguenza, non solo accetta e tollera la pluralità, ma opta in modo fondamentale per il pluralismo[8]. In questo spirito, ogni ricerca di unità viene percepita come fuori moda ed antiquata.

Non stupisce che, nell’odierno spirito del tempo pluralistico e relativistico, divenuto sempre più plausibile, la ricerca ecumenica dell’unità della Chiesa sia esposta a un forte vento contrario. Ad aggravare la situazione, si aggiunge il fatto che la mentalità postmoderna si è fatta strada anche nel pensiero ecumenico di oggi ed ha il suo impatto all’interno di un pluralismo ecclesiologico sempre più diffuso, per il quale ogni ricerca di unità appare sospetta[9]. A quanto pare, ci si è abituati ormai al pluralismo delle Chiese e delle Comunità ecclesiali, sviluppatosi nella storia e tuttora in atto, tanto che la ricerca dell’unità non viene considerata né realistica, né auspicabile.

Non di rado si è tentato di giustificare la rinuncia alla ricerca dell’unità della Chiesa servendosi delle Sacre Scritture e basandosi soprattutto sulla tesi del teologo protestante esperto in Nuovo Testamento, Ernst Käsemann, con la quale egli ha cercato di legittimare anche le grandi divisioni nella Chiesa, affermando che il canone neotestamentario fornisce un fondamento non all’unità della Chiesa, ma alla pluralità delle confessioni[10]. Questa tesi rialza oggi la testa, quando ad esempio il Consiglio della Chiesa evangelica in Germania vi fa riferimento nel suo testo base per la Commemorazione della Riforma del 2017, interpretando le Chiese nate dalla Riforma come “parte della legittima pluralizzazione -in quanto conforme alle Scritture- delle Chiese cristiane” e vedendole come il risultato positivo prodotto a distanza di tempo dalla Riforma del XVI secolo[11]. Spingendosi ancora più in là, lo storico della Chiesa Cristoph Markschies, evangelico, osserva nel protestantesimo attuale, nell’ambito delle crescenti correnti liberali, la diffusione della tesi secondo la quale la Riforma e la conseguente divisione nella Chiesa hanno dato avvio infine a quella pluralizzazione del cristianesimo latino che ha preso forma nella concorrenza permanente di chiese confessionali indipendenti ed il cristianesimo, nella forma del protestantesimo, ha imparato a stare al passo con la modernità e non deve essere dunque rimesso in discussione con una nuova ricerca dell’unità[12].

Con ciò tocchiamo uno dei problemi principali dell’attuale situazione ecumenica, che chiama in campo in particolare la responsabilità ecumenica del vescovo. Questo problema consiste nel fatto che, nei vari dialoghi ecumenici, non si riesce più a pervenire ad un consenso sul significato di unità della Chiesa e, di conseguenza, sul modo di intendere l’obiettivo del movimento ecumenico.

La Chiesa cattolica, per definire i segni ed i criteri dell’unità della Chiesa, si riferisce all’immagine della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme tratteggiata negli Atti degli Apostoli (2,42), nella quale tre elementi appaiono come costitutivi dell’unità della Chiesa, ovvero l’unità nella fede, l’unità nella celebrazione liturgica e l’unità nella comunione fraterna. Su questo fondamento biblico, l’unità della Chiesa è intesa come unità visibile nella fede, nella vita sacramentale e nei ministeri ecclesiali. Non poche Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma hanno invece abbandonato questo originario e comune concetto di unità sempre più a favore del postulato del reciproco riconoscimento delle diverse realtà ecclesiali come Chiese e dunque come parti dell’unica Chiesa di Gesù Cristo. Con ciò, è vero, non si afferma una sostanziale invisibilità dell’unità della Chiesa, ma l’unità visibile della Chiesa risulta essere una mera somma delle varie realtà ecclesiali. Non si capisce però come si possa conciliare un simile pluralismo ecclesiologico, privilegiato nel protestantesimo odierno e basato sulla somma delle diverse parti, con i principi cattolici dell’ecumenismo, come ha affermato esplicitamente Papa Benedetto XVI: “La ricerca del ristabilimento dell’unità tra i cristiani divisi non può pertanto ridursi ad un riconoscimento delle reciproche differenze ed al conseguimento di una pacifica convivenza: ciò a cui aneliamo è quell’unità per cui Cristo stesso ha pregato e che per sua natura si manifesta nella comunione della fede, dei sacramenti, del ministero. Il cammino verso questa unità deve essere avvertito come imperativo morale, risposta ad una precisa chiamata del Signore.”[13]

È dunque evidente che, nella situazione ecumenica odierna, è nostro compito tornare a riflettere sugli inizi del nostro cammino, per riattualizzare gli orientamenti offerti dal Decreto conciliare sull’ecumenismo. “Unitatis redintegratio” fonda l’impegno ecumenico della Chiesa cattolica sulla convinzione teologica basilare che da Cristo la Chiesa è stata fondata “una ed unica”. A questa convinzione di fede contrappone il fatto, costatabile storicamente e percepibile anche oggi empiricamente, che esiste una pluralità di Chiese e Comunità ecclesiali che, davanti agli uomini, accampano la pretesa di rappresentare “la vera eredità di Gesù Cristo”. Poiché tutto ciò può causare un’erronea impressione “come se Cristo stesso fosse diviso”, il Concilio arriva alla conclusione che tale divisione nella Chiesa “non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo”, ma è anche “di scandalo al mondo” e “danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura”[14].

Se vogliamo rimanere fedeli alle convinzioni fondamentali contenute nel Decreto sull’ecumenismo, dobbiamo anche oggi mantenere sveglia, con benevola determinazione, la questione dell’unità della Chiesa. Di fatti, senza la ricerca dell’unità, la fede cristiana rinuncerebbe a se stessa, come sottolinea con ammirevole chiarezza la lettera dell’Apostolo Paolo agli Efesini[15]: “Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,4-6). La ricerca dell’unità della Chiesa, non la canonizzazione del pluralismo delle Chiese e, addirittura, delle separazioni, ha il suo fondamento nelle Sacre Scritture. Una rinnovata lettura del Decreto sull’ecumenismo richiede da noi oggi un energico sforzo affinché possiamo raggiungere un nuovo consenso ecumenico sul fatto che l’unità è una categoria fondamentale della fede cristiana e tale deve rimanere.

Nella situazione ecumenica odierna, sforzarsi di individuare un adeguato obiettivo del movimento ecumenico fa parte in modo particolare della responsabilità del vescovo, che deve porre il suo ministero pastorale al servizio dell’unità, ricordando l’importanza fondamentale dell’idea di unità nella fede cristiana. Questo è il compito del vescovo, poiché il suo ministero pastorale per l’unità della sua diocesi ed il suo ministero pastorale ecumenico per la ricomposizione dell’unità dei cristiani sono inscindibilmente legati.

 

b) La promozione spirituale del dialogo della carità

In secondo luogo, l’impegno ecumenico del vescovo è descritto, nel diritto canonico, tramite la menzione dell’ “atteggiamento di umanità e di carità” che egli deve avere “nei confronti dei fratelli che non sono nella piena comunione con la Chiesa cattolica”. Nel servizio ecumenico del vescovo si pone dunque chiaramente l’accento sul “dialogo della carità”. Questo dialogo non può naturalmente sostituire il “dialogo della verità”, ma ne costituisce lo spazio vitale organico ed il presupposto indispensabile.

Questo risulta particolarmente evidente nelle relazioni ecumeniche con le Chiese ortodosse, poiché, nel corso della storia, nel progressivo allontanamento tra Oriente ed Occidente che ha portato alla successiva divisione, erano in gioco, certamente, anche serie questioni teologiche, ma nel complesso sono state le diverse forme di spiritualità e le diverse interpretazioni ad aver provocato in gran parte la divisione nella Chiesa, come ha osservato giustamente il Cardinale Walter Kasper: “I cristiani non si sono allontanati principalmente a livello di discussioni e di dispute su differenti formulazioni dottrinali, ma si sono allontanati a livello di vita.”[16] Alla luce di questo processo di crescente allontanamento, che si è maggiormente acuito dopo la separazione nel secondo millennio, dobbiamo riconoscere come un grande passo in avanti il fatto che, già durante il Concilio Vaticano Secondo e soprattutto dopo, siano stati intrapresi intensi sforzi per giungere ad un’intesa e ad una riconciliazione. Questi sforzi sono iniziati in maniera promettente con l’incontro tenutosi a Gerusalemme nel gennaio 1964 tra il Patriarca Ecumenico Athenagoras di Costantinopoli ed il Vescovo di Roma, il santo Papa Paolo VI, evento –questo- che è stato commemorato ed approfondito tramite il nuovo incontro a Gerusalemme, nel maggio 2014, tra il Patriarca Ecumenico Bartolomeo e Papa Francesco[17]. Il memorabile incontro di Gerusalemme del 1964 preparò inoltre il terreno allo storico evento del 7 dicembre 1965, quando nella cattedrale del Fanar a Costantinopoli e nella Basilica di San Pietro a Roma, a nome dei due massimi rappresentanti di entrambe le Chiese, furono cancellate le reciproche sentenze di scomunica del 1054 “dalla memoria e dal mezzo della Chiesa”, affinché esse non rappresentassero più un “ostacolo al riavvicinamento nella carità”, come si legge nella Dichiarazione comune[18]. Riguardo a questo evento, il teologo Joseph Ratzinger osservava giustamente che con tale atto è stato tolto il “veleno” delle scomuniche dall’organismo della Chiesa ed il “simbolo della divisione” è stato sostituito con “il simbolo della carità”: “Il rapporto dell’ ‘amore raffreddato’, fatto di ‘opposizioni, diffidenza e antagonismi’ è stato sostituito innanzitutto dalla relazione di amore e di fraternità, il cui simbolo è il bacio fraterno.”[19]

Questi eventi storici naturalmente non hanno condotto ancora al raggiungimento dell’obiettivo della ricomposizione dell’unità della Chiesa e della comunione eucaristica, ma sono stati il punto di partenza di una nuova relazione fraterna tra le due Chiese. E mostrano che il “dialogo della carità” ecumenico contribuisce soprattutto alla riconciliazione tra le Chiese, riconciliazione che si concretizza nella richiesta di perdono per i peccati commessi nel passato e che spesso si accompagna a gesti pregnanti, non di rado più eloquenti di ogni altra lingua. Basti pensare a Papa Paolo VI, per il quale simili gesti facevano parte integrante del proprio vocabolario ecumenico. Ad esempio, il 24 marzo del 1966, durante l’incontro con il Primate degli anglicani, l’Arcivescovo Michael Ramsey di Canterbury, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, egli si tolse l’anello, simbolo del suo potere episcopale, e lo mise al dito dell’Arcivescovo Ramsey. Vanno poi ricordate le toccanti richieste di perdono del santo Papa Giovanni Paolo II, soprattutto quella espressa durante la liturgia della prima domenica di quaresima del Grande Giubileo dell’anno 2000. Un importante passo di riconciliazione è stato compiuto anche da Papa Francesco nel giugno 2015, quando il Pontefice si è recato a Torino per incontrare -primo tra i Papi- la comunità valdese nel tempio valdese locale, e ha sentito il dovere di chiedere perdono a tale comunità con queste commoventi parole: “Da parte della Chiesa Cattolica vi chiedo perdono. Vi chiedo perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani che, nella storia, abbiamo avuto contro di voi.”[20]

Questi gesti hanno permesso di riscoprire la fraternità cristiana, annoverata da Papa Giovanni Paolo II tra i frutti più significativi dell’impegno ecumenico[21]; grazie ad essa, i cristiani divisi non si percepiscono più come avversari di confessioni diverse o come vicini indifferenti, ma si incontrano come fratelli e sorelle nel battesimo comune. Tali gesti di riconciliazione hanno tradotto nella vita concreta una delle convinzioni fondamentali del Decreto conciliare sull’ecumenismo, secondo cui  non esiste un “vero ecumenismo” senza conversione: “il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento dell’animo, dall’abnegazione di se stessi e dal pieno esercizio della carità.”[22] Pertanto, la conversione non è primariamente quella degli altri, ma la propria, che comporta la disponibilità di riconoscere in maniera autocritica le proprie debolezze e le proprie mancanze, e di ammetterle con umiltà. Questa conversione presuppone soprattutto lo sforzo di prendere costantemente come proprio metro il Vangelo di Gesù Cristo e la volontà di ricomporre quell’unità che ci è già stata donata nella fede in Gesù Cristo. Il movimento ecumenico si rivela un movimento di conversione[23], e la conversione deve essere innanzitutto una conversione alla ricerca appassionata dell’unità della Chiesa. Questo è il vero senso di “unitatis redintegratio”.

Il cosiddetto ecumenismo di vita si dimostra soprattutto nell’agire conformemente alla regola di vita ecumenica, che consiste nella partecipazione dei cristiani e delle Chiese alla vita degli altri cristiani e delle altre Chiese, nella gioia come pure nella sofferenza, nel senso che là dove una Chiesa si rallegra anche le altre si rallegrano con lei e là dove una Chiesa soffre le altre soffrono con lei. Tale “sym-patheia” cristiano-ecumenica ci rivela anche il senso più profondo dei dialoghi ecumenici. Come sottolinea il Decreto sull’ecumenismo, il dialogo ecumenico non è soltanto uno scambio di idee, ma un molto più profondo scambio di doni[24], nel quale i vari partner ecumenici condividono le proprie ricchezze gli uni con gli altri e si arricchiscono così vicendevolmente. È allora fondamentale il fatto che questo scambio, nel quale non si comunica semplicemente “qualcosa”, ma si comunica qualcosa di noi stessi, non avviene in virtù di una liberalità filantropica, ma sulla base di un’unità già acquisita mediante l’unico battesimo[25]. Promuovere ed esperire tale ecumenismo di vita e di fede è il compito al quale è chiamato in modo particolare il vescovo, affinché l’ecumenismo non sia più tra i cristiani una nozione estranea, che suscita timore, ma diventi una realtà vissuta concretamente.

L’ecumenismo di vita ed il dialogo della carità trovano la loro più intensa espressione nell’ecumenismo spirituale, definito dal Decreto sull’ecumenismo “l’anima di tutto il movimento ecumenico”[26]. La preghiera per l’unità dei cristiani è e rimane la forma fondamentale dell’ecumenismo e il servizio pastorale del vescovo a favore dell’unità ecumenica è in prima linea un servizio di preghiera e di promozione della preghiera per l’unità dei cristiani. Questa convinzione ha trovato molto presto la sua visibile espressione, essendo stata la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani un impulso all’origine del movimento ecumenico e dunque, fin dagli inizi, un’iniziativa ecumenica. Essa fu promossa da Paul Wattson, un anglicano americano che poi passò alla Chiesa cattolica, e da Spencer Jones, appartenente alla Chiesa episcopaliana. L’idea fu introdotta in tutta la Chiesa cattolica da Papa Benedetto XV ed, in seguito, fu sviluppata dall’Abbé Paul Couturier, appassionato pioniere dell’ecumenismo spirituale che paragonò il movimento ecumenico a un monastero invisibile, nel quale i cristiani delle diverse Chiese in vari paesi e continenti pregano insieme. È la Preghiera per l’Unità dei Cristiani che ha aperto la strada al movimento ecumenico, che, fin dall’inizio, è stato un movimento di preghiera, come ha evidenziato Papa Benedetto XVI con questa bella immagine: “La barca dell’ecumenismo non sarebbe mai uscita dal porto se non fosse stata mossa da quest’ampia corrente di preghiera e spinta dal soffio dello Spirito Santo.”[27]

Se prendiamo sul serio questa dimensione spirituale, sarà facile capire che il movimento di preghiera cominciato oltre cento anni fa non è semplicemente un inizio che possiamo lasciarci alle spalle, ma è piuttosto un inizio che continua a camminare con noi e che deve accompagnare tutti i nostri sforzi ecumenici. Con la preghiera per l’unità dei cristiani, l’ecumenismo risponde nella maniera più profonda alla volontà del Signore comune a tutti i cristiani, che, nella sua preghiera sacerdotale, ha pregato per l’unità dei suoi discepoli. Dal punto di vista ecumenico, la preghiera di Gesù ha un’importanza fondamentale soprattutto perché, in essa, lo sguardo di Gesù si spinge oltre la comunità dei discepoli di allora e si volge anche alla comunità futura, come sottolinea espressamente Gesù stesso: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me” (Gv 17,20). Nella preghiera di Gesù “perché tutti siano una sola cosa”, colpisce innanzitutto il fatto che Gesù non comanda l’unità ai suoi discepoli, né la pretende da loro, ma prega per essa. Nella preghiera di Gesù, che abbraccia anche la situazione odierna, si può dunque individuare al meglio in cosa consiste e deve consistere la responsabilità ecumenica alla luce della fede. Se l’unità dei discepoli e della Chiesa futura era ciò che stava maggiormente a cuore a Gesù nella sua preghiera, l’ecumenismo cristiano potrà essere solo profonda adesione alla preghiera di Gesù da parte dei cristiani, che fanno proprio il desiderio del Signore. Se il motivo e il fondamento dell’ecumenismo non sono meramente filantropici e interpersonali, ma davvero cristologici, l’ecumenismo, in ultima analisi, non potrà essere altro che partecipazione alla preghiera sacerdotale di Gesù.

Dal punto di vista cristiano, non può esistere un ecumenismo che non sia radicato nella preghiera. Con la preghiera per l’unità, noi cristiani testimoniano la nostra profonda convinzione di fede, secondo la quale non possiamo noi stessi fare l’unità, né definire la sua forma e il momento in cui si realizzerà, ma possiamo solo riceverla in dono. Il lavoro ecumenico a favore dell’unità dei cristiani è soprattutto un compito spirituale, assolto nella convinzione che lo Spirito Santo, che ha iniziato l’opera ecumenica, la proseguirà anche e la porterà a compimento, indicandoci il cammino da seguire[28]. Specialmente al giorno d’oggi, saremo in grado di compiere ulteriori passi avanti nell’ecumenismo soltanto se ritorneremo alle sue radici spirituali e se ravviveremo la sua dimensione spirituale. L’ecumenismo può crescere in ampiezza solo se si radica nella sua profondità spirituale. La preghiera per l’unità dei cristiani è e rimane il cuore pulsante di tutto il cammino ecumenico. A dispetto di ogni attivismo e pragmatismo ecumenico costatabili attualmente, uno dei compiti principali del vescovo nel suo ministero pastorale ecumenico è quello di ricordare e promuovere la chiara centralità e priorità dell’ecumenismo spirituale.

 

c) Fiduciario dei principi cattolici dell’ecumenismo

L’ecumenismo spirituale non si sostituisce né tanto meno si contrappone al dialogo teologico della verità, il quale si occupa di studiare approfonditamente le differenze teologiche che sono fonte di divisione tra le Chiese, al fine di permettere la comunione ecclesiale e la comunione eucaristica. Il dialogo teologico della verità con le altre Chiese e Comunità ecclesiali, avviato e promosso dal Concilio Vaticano Secondo, può prosperare solo nell’atmosfera dell’ecumenismo spirituale. Il dialogo della vita e della carità non solo rappresenta il presupposto necessario che permette di condurre un dialogo teologico; esso ha bisogno di quest’ultimo. Pertanto, il dialogo della carità e il dialogo della verità sono inseparabili tanto quanto lo sono la carità e la verità. La carità senza verità è vuota, è mero sentimento; la verità senza la carità è cieca e fredda. Diverso dalla verità priva di carità e dalla carità priva di verità, si presenta il dialogo ecumenico contrassegnato dalla carità veritiera e dall’amore per la verità.

Questa dimensione è menzionata nel terzo orientamento contenuto nel diritto canonico circa la responsabilità ecumenica del vescovo. In esso viene definito infatti il modo in cui il vescovo deve promuovere l’ecumenismo, ovvero così “come viene inteso dalla Chiesa”. Cosa ciò significhi concretamente traspare innanzitutto dal fatto che, nel testo del Decreto sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio”, adottato dai padri conciliari a stragrande maggioranza, ovvero con 2137 voti favorevoli e 11 voti contrari, e promulgato dal santo Papa Paolo VI il 21 novembre 1964, non si parla più di un “ecumenismo cattolico”, come si leggeva nello schema “De Oecumenismo” del 1963, ma di “principi cattolici sull’ecumenismo”. Tale formulazione mostra che il Concilio non intendeva opporre al movimento ecumenico, sorto inizialmente all’interno del cristianesimo non-cattolico, un proprio ecumenismo, ovvero una via cattolica distinta o addirittura contrapposta, ma era convinto che esistesse un unico ecumenismo e desiderava immettersi nel processo del movimento ecumenico, alla cui origine vedeva la “grazia dello Spirito Santo”[29]. Dall’altro canto, tutto questo non rimette in discussione il fatto che, fin tanto che il ristabilimento dell’unità dei cristiani non sarà realizzato, non potrà esistere un ecumenismo neutro e neppure un’interpretazione ecumenica dell’ecumenismo davvero sostenibile. Piuttosto, ogni Chiesa e Comunità ecclesiale intende la sua responsabilità ecumenica alla luce del fondamento delle proprie convinzioni di fede. È in questo senso che il Concilio Vaticano Secondo, nel primo capitolo del suo Decreto sull’ecumenismo, ha formulato i “principi cattolici sull’ecumenismo”, che sono fondamentali per “l’esercizio dell’ecumenismo” descritto nel secondo capitolo e che costituiscono anche il quadro di riferimento cruciale per il compito ecumenico del vescovo.

Promuovere l’ecumenismo “come viene inteso dalla Chiesa” significa in prima linea mettere in luce l’autocomprensione della Chiesa cattolica, con la quale essa partecipa al movimento ecumenico. Questa autocomprensione si esprime nella convinzione basilare che la ricerca ecumenica dell’unità della Chiesa non sottintende assolutamente che la “Chiesa una ed unica” voluta da Gesù e professata nel simbolo della fede non esiste più o non esiste ancora. Piuttosto, la Chiesa cattolica è convinta che essa esiste nella realtà ma è stata ferita dalle varie divisioni, e che questa fondamentale convinzione di fede cattolica della Chiesa una ed unica deve essere ribadita e confermata anche e precisamente davanti alle divisioni che tuttora permangono nella Chiesa[30]. Il Concilio si trovò dunque, dal punto di vista ecumenico, davanti alla sfida basilare di rendere conto teologicamente sia dell’unicità che della concretezza storica dell’unica Chiesa di Gesù Cristo. Se si abbandonasse la convinzione dell’unicità della Chiesa, ne risulterebbe un “relativismo ecclesiale” nel senso che la Chiesa esisterebbe solo al plurale. Se, invece, si abbandonasse la convinzione della concretezza storica della Chiesa, la conseguenza sarebbe un “misticismo ecclesiale” nel senso che l’unica Chiesa esisterebbe soltanto come idea platonica[31].

Evitando questi due estremi, la Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano Secondo, ha espresso ed ha tentato di risolvere questa difficile questione con la famosa formula del “subsistit”, sul cui significato Gérard Philips, redattore della Costituzione sulla Chiesa, aveva predetto che si sarebbe versato ancora molto inchiostro[32], e che, secondo il giudizio dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger, cela in sé “l’intero problema ecumenico”[33]. Questa formula, nel suo nocciolo elementare, afferma che l’unica Chiesa di Gesù Cristo “sussiste” nella Chiesa cattolica, che vive in comunione con il vescovo di Roma e con gli altri vescovi; ciò significa che essa è presente concretamente e riscontrabile permanentemente[34]. Di conseguenza, l’unica Chiesa di Gesù Cristo non va intesa come un’entità celata dietro le diverse realtà ecclesiali, la quale poi si realizzerebbe in varie forme ecclesiali in modo differenziato; essa è piuttosto una realtà che già ora esiste ed ha un luogo concreto nella storia, nel quale è riconoscibile permanentemente. La formula ecclesiologica del “subsistit” esprime dunque “l’aspetto particolare e non moltiplicabile della Chiesa cattolica”: “la Chiesa esiste come soggetto nella realtà storica.”[35]

Con la formula fondamentale del “subsistit”, il Concilio Vaticano Secondo voleva mantenere unite, conciliandole, due convinzioni. Da un lato, voleva confermare e rinnovare la tradizionale affermazione che l’unica Chiesa di Gesù Cristo esiste in maniera indelebile nella Chiesa cattolica. Dall’altro, voleva far posto al riconoscimento dell’esistenza di elementi della vera Chiesa di Gesù Cristo anche in altre Chiese e Comunità ecclesiali, nella convinzione che, come ha sottolineato poi espressamente il santo Papa Giovanni Paolo II, oltre i limiti della Chiesa cattolica non c’è “il vuoto ecclesiale”: “Parecchi elementi di grande valore (eximia) che, nella Chiesa cattolica sono integrati alla pienezza dei mezzi di salvezza e dei doni di grazia che fanno la Chiesa, si trovano anche nelle altre Comunità cristiane.”[36] Sarà possibile capire come entrambe le convinzioni vanno di pari passo soltanto se, nella discussione ecumenica, la natura della Chiesa e della sua unità verrà studiata con maggiore precisione. Farsi avvocato di questa fondamentale tematica ecumenica e fiduciario dell’autocomprensione della Chiesa cattolica nelle discussioni ecumeniche è una particolare responsabilità del vescovo.

 

2. L’obbligo giuridico di tutta la Chiesa nei confronti dell’ecumenismo

Le tre dimensioni sopra accennate relative alla responsabilità ecumenica del vescovo acquisiscono un peso ancora maggiore se consideriamo che il Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano Secondo descrive l’ecumenismo come un dovere impellente di tutta la Chiesa: “La cura di ristabilire l’unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e tocca ognuno secondo le proprie possibilità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici e storici.”[37]

 

a) L’unità dei cristiani e il rinnovamento della Chiesa

Essenzialmente, l’accento posto sulla responsabilità ecumenica di tutta la Chiesa è dovuto anche al fatto che l’obiettivo ecumenico è strettamente legato al rinnovamento della Chiesa cattolica voluto dal Concilio. Questo nesso tra ricomposizione dell’unità dei cristiani e rinnovamento della Chiesa cattolica era già alla base della visione che ha spinto il santo Papa Giovanni XXIII a convocare un Concilio. Di fatti, il Pontefice era convinto che la Chiesa cattolica potesse essere rinnovata soltanto se fosse stato riconosciuto all’obiettivo ecumenico un ruolo prioritario. Dello stretto legame tra il rinnovamento della Chiesa e la promozione dell’unità dei cristiani era convinto anche il grande Papa conciliare, il santo Paolo VI. Riferendoci al suo ministero papale, dobbiamo parlare di una vera e propria interrelazione tra apertura ecumenica della Chiesa cattolica e rinnovamento della sua ecclesiologia[38]. Papa Paolo VI, già all’inizio della seconda sessione del Concilio, nel suo fondamentale discorso d’inaugurazione, sottolineò che l’avvicinamento tra i cristiani e le Chiese separati era uno degli intenti principali, ovvero il dramma spirituale, alla base della convocazione del Concilio[39]. E promulgando il Decreto sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio”, dichiarò esplicitamente che questo decreto delucidava e completava la Costituzione Dogmatica sulla Chiesa: “ea doctrina explicationibus completa”. Con questa formulazione, il Papa attribuiva al documento un’importanza teologica particolare.

Su questa duplice scia, anche i Pontefici che si sono susseguiti dopo il Concilio hanno continuato a promuovere ed hanno approfondito l’impegno a favore dell’ecumenismo. Ciò vale in modo particolare per il santo Papa Giovanni Paolo II il quale, nella sua lungimirante Enciclica sull’impegno ecumenico, “Ut unum sint”, ha affermato che il Decreto sull’ecumenismo si ricollega all’insegnamento sulla Chiesa della Costituzione Lumen gentium[40] ed ha sottolineato che il cammino ecumenico è il cammino della Chiesa e appartiene “organicamente alla sua vita e alla sua azione”[41], e che la decisione presa dalla Chiesa cattolica a favore dell’ecumenismo è irrevocabile, poiché la Chiesa, con il Concilio Vaticano Secondo, “si è impegnata in modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica, ponendosi così all’ascolto dello Spirito del Signore, che insegna come leggere attentamente i ‘segni dei tempi"[42]. Alla luce di questi chiari orientamenti, non sorprende che Papa Giovanni Paolo II ritenne fondamentale fare in modo che l’ecclesiologia del Concilio, e soprattutto l’obbligo della Chiesa cattolica di partecipare al movimento ecumenico stabilito dal Concilio, venisse ancorata nel nuovo codice di diritto canonico.

 

b) L’ecumenismo come dovere della Chiesa

Papa Giovanni Paolo II ha dunque tradotto nella realtà ciò che Papa Giovanni XXIII aveva previsto sessant’anni prima. Quando Giovanni XXIII, il 25 gennaio 1959, alla fine dell’Ottavario di Preghiera per l’Unità dei Cristiani a San Paolo Fuori le Mura annunciò un sinodo diocesano per la città e un Concilio ecumenico per la Chiesa universale, aggiunse che entrambi gli eventi avrebbero dovuto contribuire all’ “aggiornamento del Codex Iuris Canonici”. Impiegando i verbi “accompagnare e coronare”, egli suggerì il legame tra il Concilio e il rinnovamento del codice di diritto canonico della Chiesa, nella convinzione che quest’ultimo dovesse accompagnare e coronare il lavoro del Concilio al fine di rendere fruttuosi gli orientamenti conciliari per la vita, il governo e la disciplina della Chiesa[43].

In questo senso, Papa Giovanni Paolo II, nella sua Costituzione Apostolica per la promulgazione del nuovo Codex Iuris Canonici del 1983, “Sacrae disciplinae leges”, ha sottolineato che, dopo il Concilio, il rinnovamento del codice di diritto canonico doveva fare in modo che l’insegnamento del Concilio Vaticano Secondo, e più precisamente l’ecclesiologia conciliare, venisse “tradotto in un linguaggio canonico”[44]; egli affermò addirittura che il nuovo Codice faceva parte del Concilio stesso ed era “l’ultimo documento del Concilio”[45]. In questo contesto, è stato importante per Papa Giovanni Paolo II nella sua attività legislativa evidenziare il nesso inscindibile tra l’ecclesiologia conciliare e la codificazione del diritto della Chiesa universale anche in riferimento alla responsabilità ecumenica della Chiesa[46]. Conformemente a quanto già precisava la prima frase del Decreto sull’ecumenismo, dove si legge che “promuovere il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti del sacro Concilio ecumenico Vaticano II”[47], per Papa Giovanni Paolo II l’obiettivo della ricomposizione dell’unità dei cristiani era anche uno dei motivi decisivi per la codificazione del diritto canonico della Chiesa universale. Di conseguenza, nel CIC è contemplato esplicitamente l’obbligo giuridico della Chiesa cattolica di partecipare al movimento ecumenico. Quando vi si afferma espressamente che la Chiesa è tenuta a promuovere il ristabilimento dell’unità tra tutti i cristiani “per volontà di Cristo”[48], si riconosce il fondamento dell’obbligo ecumenico della Chiesa cattolica nel testamento di Gesù, e si deve pertanto parlare di un obbligo ecumenico iure divino.

L’obbligo giuridico della Chiesa di promuovere l’ecumenismo è formulato in maniera ancora più esplicita, rispetto al Codice del 1983 per la Chiesa latina, nel Codice promulgato nel 1990 da Papa Giovanni Paolo II per le Chiese cattoliche orientali, il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, e questo da un triplice punto di vista[49]: l’importanza fondamentale di tale Codice da una prospettiva ecumenica va individuata innanzitutto nel fatto che per la prima volta nella storia la Chiesa conosce due diversi codici ed ammette così una certa pluralità del diritto. In secondo luogo, diversamente dal CIC, che non contiene una parte sistematica vera e propria sulla responsabilità ecumenica della Chiesa, ma si riferisce alle questioni ecumeniche in varie norme, il CCEO, oltre a prevedere singoli canoni ecumenicamente rilevanti, dedica al compito ecumenico della Chiesa un titolo specifico, ovvero il titolo XVIII: “L’ecumenismo cioè la promozione dell’unità dei cristiani”[50]. In terzo luogo, da un punto di vista ecumenico, colpisce il limite temporale della validità del CCEO e dunque il suo carattere transitorio. Come già il Decreto sulle Chiese cattoliche orientali “Orientalium ecclesiarum” nella sua conclusione afferma che tutte le “disposizioni giuridiche” del Decreto sono valide soltanto “per le presenti condizioni”, “fino a che la Chiesa cattolica e le Chiese orientali separate si uniscano nella pienezza della comunione”[51], così anche Papa Giovanni Paolo II, nella sua Costituzione Apostolica “Sacri canones”, sottolinea che i canoni del CCEO hanno validità fino a che “saranno abrogati o verranno modificati dalle più alte autorità della Chiesa per giusti motivi”, il più importante dei quali è “la piena comunione di tutte le Chiese dell’Oriente con la Chiesa cattolica”[52]. Il chiaro limite temporale della validità del CCEO che ne deriva da un punto di vista ecumenico significa concretamente che quando sarà realizzata la piena comunione tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse e le Chiese ortodosse orientali, per il cui ripristino le Chiese cattoliche orientali hanno una responsabilità particolare, la funzione del CCEO sarà compiuta e si dovrà provvedere ad una nuova normativa.

Ricordare l’attività legislativa di Papa Giovanni Paolo II è importante anche perché essa ha contribuito grandemente, proprio da un punto di vista ecumenico, a riattualizzare e a promuovere uno dei principali obiettivi del Concilio Vaticano Secondo. Con i suoi due codici giuridici, Giovanni Paolo II ha ricordato a tutta la Chiesa che la sua responsabilità ecumenica deriva direttamente dall’ecclesiologia conciliare e che si tratta di un obbligo imprescindibile. Ciò che il Papa ha affermato a proposito della Chiesa, vale in modo particolare per l’impegno ecumenico del vescovo diocesano.

In questo contesto, una testimonianza davvero significativa è anche quella resa dalla vita e dall’opera di Mons. Eugenio Corecco, che ha esemplificato in prima persona lo stretto legame tra l’ecclesiologia conciliare e la codificazione del diritto canonico della Chiesa universale. Mons. Corecco non ha soltanto offerto un importante contributo alla preparazione del Codex Iuris Canonici, promulgato nel 1983, e alla sua verifica, al servizio di Papa Giovanni Paolo II, ma si è anche impegnato in maniera credibile a favore dell’ecumenismo nel contesto dell’ecclesiologia conciliare di communio[53]. Di ciò sono una prova eloquente sia le sue intense omelie, pronunciate durante la Settimana di Preghiera per l’unità dei cristiani, sia la sua amichevole corrispondenza con il grande esegeta protestante ed ecumenista Oscar Cullmann.  Questo scambio era contrassegnato da una reciproca stima e da uno spirito fraterno di comunione cristiana, di cui lo stesso Mons. Corecco parlò nei seguenti termini, in una lettera scritta il 24 febbraio 1992: “È una comunione nel Signore, che è più profonda e più forte della relazione umana… Essa risale alla comune appartenenza alla Chiesa di Cristo una ed unica.” Ho potuto conoscere di persona la sensibilità di Mons. Corecco nei confronti della causa ecumenica quando, negli anni ottanta, ero Segretario della Commissione di dialogo tra veterocattolici e romano-cattolici della Svizzera. Mons. Corecco fu da noi invitato a una sessione di dialogo, nella quale ci offrì il suo aiuto teologico e pastorale. Anche per questo sono lieto di aver potuto onorare la sua memoria nella sua diocesi, con questa conferenza sul ministero pastorale del vescovo al servizio dell’unità ecumenica. E di cuore ringrazio gli organizzatori per avermi invitato.

 

[1] Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza (Milano 1994) 168.

[2] Lumen gentium, n. 23.

[3] Lumen gentium, n. 27.

[4] CCEO, can 902.

[5] CIC, can 383 § 3.

[6] W. Kardinal Kasper, Priesterlicher Dienst an der Ökumene. Chancen und Grenzen, in: G. Augustin / J. Kreidler (Hrsg.), Den Himmel offen halten. Priester sein heute (Freiburg i. Br. 2003) 78-90, zit. 79.

[7] Vgl. W. Welsch, Unsere postmoderne Moderne (Weinheim 1987).

[8] Vgl. W. Kasper, Die Kirche angesichts der Herausforderungen der Postmoderne, in: Ders., Theologie und Kirche. Band 2 (Mainz 1999) 249-264, bes. 252-255; Ders., Die Kirche und der Pluralismus der Gegenwart, in: Ders., Wege der Einheit. Perspektiven für die Ökumene (Freiburg i. Br. 2004) 227-251.

[9] Vgl. K. Kardinal Koch, Lob der Vielfalt – Gerät den christlichen Kirchen die Einheit aus dem Blick? in: St. Kopp / W. Thönissen (Hrsg.), Mehr als friedvoll getrennt? Ökumene nach 2017 (Freiburg i. Br. 2017) 15-40.

[10] E. Käsemann, Begründet der neutestamentliche Kanon die Einheit der Kirche?, in: Ders., Exegetische Versuche und Besinnungen. Erster und zweiter Band (Göttingen 1970) 214-223.

[11] Rechtfertigung und Freiheit. 500 Jahre Reformation 2017. Ein Grundlagentext des Rates der Evangelischen Kirche in Deutschland (EKD) (Gütersloh 2014) 99.

[12] Ch. Markschies, Aufbruch oder Katerstimmung. Zur Lage nach dem Reformationsjubiläum (Hamburg 2017) 67.

[13] Benedetto XVI, Omelia durante i Vespri a conclusione della Settimana di Preghiera per l’unità dei cristiani nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, il 25 gennaio 2011.

[14] Unitatis redintegratio, n. 1.

[15] Vgl. K. Kardinal Koch, „Ein Herr, ein Glaube, eine Taufe, ein Gott und Vater aller“ (Eph 4, 5). Ein geistlicher Appell zur Einheit, in: St. Kopp / J. Werz (Hrsg.), Gebaute Ökumene. Botschaft und Auftrag für das 21. Jahrhundert (Freiburg i. Br. 2018) 17-38.

[16] W. Kasper, Ökumene und Spiritualität, in: Ders., Wege zur Einheit der Christen. Schriften zur Ökumene I = Gesammelte Schriften. Band 14 (Freiburg i. Br. 2012) 592-612, zit. 596.

[17] Cfr. Métropolite Emmanuel / Cardinal K. Koch, L’esprit de Jérusalem. L’orthodoxie et le catholicisme au XXIème siècle (Paris 2014).

[18] Déclaration commune du Pape Paul VI et du Patriarche Athénagoras exprimant leur décision d´enlever de la mémoire et du milieu de l`Église les sentences d´excommunication de l´année 1054, dans: Tomos Agapis. Vatican – Phanar (1958-1970) (Rome – Istanbul 1971), Nr. 127.

[19] J. Ratzinger, Rom und die Kirchen des Ostens nach der Aufhebung der Exkommunikation von 1054, in: Ders., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie (München 1982) 214-230, zit. 229.

[20] Francesco, Discorso durante la visita al tempio valdese di Torino, il 22 giugno 2015.

[21] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 41 e n. 42.

[22] Unitatis redintegratio, n. 7.

[23] Vgl. K. Kardinal Koch, Innere Reform und Umkehr als Voraussetzung für Ökumene, in: E. Dieckmann – K. Kardinal Lehmann (Hrsg.), Blick zurück nach vorn. Das Zweite Vatikanum aus der Perspektive der multilateralen Ökumene (Würzburg 2016) 161-186.

[24] Unitatis redintegratio, n. 4.

[25] Vgl. Th. F. Best (Ed.), Baptism Today. Understanding, Practice, Ecumenical Implications (Minnesota 2008); S. K. Wood, One Baptism. Ecumenical Dimensions of the Doctrine of Baptism (Minnesota 2009).

[26] Unitatis redintegratio, Nr. 8. Vgl. K. Koch, Wiederentdeckung der „Seele der ganzen Ökumenischen Bewegung“ (UR 8). Notwendigkeit und Perspektiven einer ökumenischen Spiritualität, in: Catholica 58 (2004) 3-21.

[27] Benedetto XVI, Omelia per la celebrazione dei Vespri a conclusione della Settimana di Preghiera per l’unità dei cristiani, il 25 gennaio 2008.

[28] Vgl. W. Pannenberg, Die Ökumene als Wirken des Heiligen Geistes, in: St. Leimgruber (Hrsg.), Gottes Geist bei den Menschen. Grundfragen und spirituelle Anstösse (München 1999) 68-77.

[29] Unitatis redintegratio, n. 1, cfr. anche n. 4.

[30] Vgl. K. Koch, „Die einige und einzige Kirche“. Ökumenische Perspektiven der Kircheneinheit, in: Communio. Internationale katholische Zeitschrift 43 (2014) 112-125.

[31] W. Thönissen, Katholizität als Strukturform des Glaubens. Joseph Ratzingers Vorschläge für die Wiedergewinnung der sichtbaren Einheit der Kirche, in: Ch. Schaller (Hrsg.), Kirche – Sakrament und Gemeinschaft. Zu Ekklesiologie und Ökumene bei Joseph Ratzinger = Ratzinger-Studien. Band 4 (Regensburg 2011) 254-275, zit. 263-264.

[32] G. Philips, L’Église et son mystère au deuxième Concile du Vatican. Tome 1 (Paris 1967) 119.

[33] J. Cardinal Ratzinger, Die Ekklesiologie der Konstitution Lumen gentium, in: Ders., Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio (Augsburg 2002) 107-131, zit. 127.

[34] Cfr Lumen gentium, n. 8 e Unitatis redintegratio, n. 4.

[35] J. Cardinal Ratzinger, Die Ekklesiologie der Konstitution Lumen gentium, in: Ders., Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio (Augsburg 2002) 107-131, zit. 127.

[36] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 13.

[37] Unitatis redintegratio, n. 5.

[38] Vgl. H. J Pottmeyer, Die Öffnung der römisch-katholischen Kirche und die ekklesiologische Reform des 2. Vatikanums. Ein wechselseitiger Einfluss, in: Paolo VI e l‘Ecumenismo. Colloquio Internazionale di Studio Brescia 1998 (Brescia – Roma 2001) 98-117.

[39] Ench. Vat. Vol 1 Documenti del Concilio Vaticano II, 104. f.

[40] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 8.

[41] Ibid, n. 20.

[42] Ibid, n. 3.

[43] Johannes XXIII, Sollemnis Allocutio ad Emos Fratres Cardinales in Urbe praesenta habita, Die XXV Ianuarii Anno MCMLIX, in: AAS 51 (1959) 65-69, cit. 68.

[44] Johannes Paul II., Sacrae disciplinae leges.

[45] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al corso sul nuovo codice di diritto canonico, il 21 novembre 1983.

[46] Vgl. K. Koch, L’attività legislativa di Giovanni Paolo II e la promozione dell’unità dei cristiani, in: L. Gerosa (ed.), Giovanni Paulo II: Legislatore della Chiesa. Fondamenti, innovazioni e aperture. Atti del Convegno di Studio (Città del Vaticano 2013) 160-177.

[47] Unitatis redintegratio, n. 1.

[48] Canone 755 - § 1 CIC 1983.

[49] Cfr. K. Koch, L’incidenza del CCEO sul dialogo ecumenico, in: Pontificio Consiglio per i testi legislativi (ed.), Il Codice delle Chiese orientali. La storia, le legislazioni particolari, le prospettive ecumeniche. Atti del convegno di studio tenutosi nel XX anniversario della promulgazione del Codice dei Canoni delle Chiese orientali (Città del Vaticano 2011) 43-50.

[50] Canoni 902-908 CCEO.

[51] Orientalium ecclesiarum, n. 30.

[52] Giovanni Paolo II, Constitutio Apostolica “Sacri Canones” del 18 ottobre 1990.

[53] E. Corecco. Un Vescovo e la sua Chiesa. I Volume. A cura di E. W. Volonté (Siena 2005), bes. 253-263: Ecumenismo.