Fare esperienza del compimento nell’eucaristia

 

Riflessioni sul cammino ecumenico

 

Reverendo Jaromír Zádrapa
Officiale della sezione orientale del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani

 

Dall’inizio del suo pontificato, e con maggiore insistenza proprio durante questi ultimi mesi, Papa Francesco ci richiama alla fede, ci invita a non accontentarci di visioni parziali, per riscoprire la bellezza di uno sguardo più ampio sul mistero, con una forza creatrice che può incidere in tempi anche difficili, come quello che stiamo attraversando adesso. La fede è la via della speranza per il mondo, perché testimonia la novità che viene da Cristo.

Propongo qui una riflessione partendo dalla lettura di alcuni appunti del Diario di Alexander Schmemann, noto teologo ortodosso e autore di molti libri sulla liturgia. In una delle pagine del suo Diario (17 dicembre 1973), a proposito della fede cristiana, Schmemann scrive: «La sua difficoltà consiste per l’appunto nel fatto che non si lascia racchiudere in nessun sistema, in nessuna “ricetta”, ad essa non consegue alcun sistema di regole per la vita, non la si può dedurre da niente di esteriore. Infatti, si tratta ancora una volta, appunto, di una percezione del reale, in cui sia centrale, essenziale e decisivo il “trasparire”, il “riferirsi” di ogni cosa ad “altro ”, di un escatologismo della vita stessa e di tutto ciò che è in essa, che in maniera antinomica rende tutto ciò che è in essa prezioso e significativo».

La fede mostra ogni cosa sullo sfondo vero, colloca ogni evento, ogni episodio della vita e della storia in quell’orizzonte a partire dal quale si vede l’esito della storia, e lo si vede in Cristo Gesù, nel suo compimento, quando, come dice la Lettera agli Efesini, 1, 23, «ogni cosa sotto ogni aspetto sarà riempita di Cristo». Per questo motivo la fede non elimina le cose, non le scarta, ma cerca di trovare il loro vero senso. Perciò, in tempi difficili, in tempi di prova per la storia dell’umanità, la fede aiuta a leggere gli eventi che accadono nella chiave della salvezza, nella chiave della redenzione. È solo in questa chiave che noi possiamo situare gli eventi nel giusto orizzonte, per comprendere la loro portata, e intuire il modo in cui si collegano al compimento finale. È partendo dalla fine che noi riusciamo a leggere la storia. Dal compimento noi capiamo l’importanza di ciò che avviene. È molto più problematico e rischioso proiettare l’oggi sul futuro, invece di fare l’esperienza del compimento e, nella chiave di questa esperienza e di questa conoscenza, leggere e valutare ciò che accade oggi.

Prosegue Schmemann: «La fonte di questo escatologismo, ciò che rende possibile questo “trasparire”, questa “corrispondenza”, è il sacramento dell’eucaristia, attraverso il quale la Chiesa si definisce dall’interno sia in riferimento a sé stessa che al mondo e a ciascuna persona e alla sua vita. “Passa la figura di questo mondo” (1 Corinzi, 7, 31) non significa che ogni figura sia cattiva o inutile, che si possa fare a meno di “figure”, forme, ritmi e così via, che il cristianesimo conduca a una sorta di astrazione dalla concretezza della vita quotidiana; significa invece che questa figura in Cristo è diventata “transitoria”, dinamica, “correlata ”, aperta. Che, desacralizzando i costumi di vita (il paganesimo), il cristianesimo ha reso possibile rendere tutto “costume di vita” nel senso superiore del termine, rendere tutto “figura”. E solo nella misura in cui essa “passa”, cioè si “relaziona” continuamente a ciò che ha alle spalle, al di sopra e davanti, può diventare realmente “figura”».

La storia spinge l’uomo o a concentrarsi sugli eventi accaduti — perché li ritiene di importanza fondamentale e dunque li vorrebbe sigillare affinché rimangano come sono stati vissuti — o a tendere continuamente verso un ideale, perché desidera che la storia si sviluppi secondo un progetto. Ma anche quando questo progetto ideale viene realizzato, l’uomo lo cristallizza nel suo compimento che però diventa ben presto storia, passato. C’è dunque un aspetto tragico della storia, un rimanere indietro, un rimanere alle spalle, mentre il futuro è una continua proiezione che si radica nel passato e tende al futuro. Nella liturgia eucaristica, noi vediamo invece che, per opera dello Spirito Santo, avviene un cambiamento del cosmo e del lavoro dell’uomo, così che queste realtà acquistano la capacità di esprimere e manifestare il corpo di Cristo, cioè l’umanità vissuta dal Figlio di Dio, un’umanità non solo redenta ma anche compiuta in Cristo. Nell’eucaristia noi vediamo dunque permanentemente il fatto che le cose, gli eventi si compiono non perché assumono una forma perfetta ed entrano a far parte di un mondo ideale, lontano dalla storia, ma perché diventano l’espressione dell’amore personale di Dio, così come l’umanità di Cristo è un’espressione personale, comunionale dell’amore trinitario. Si tratta pertanto di un passaggio che conferisce alla realtà della prima creazione e al lavoro in questa storia una novità appartenente a una creazione nuova, dove tutto ciò che esiste è manifestazione della pienezza in Cristo. La liturgia permette all’uomo di fare un’esp erienza del genere, in modo che egli torna in questo mondo dall’eucaristia, convinto che l’esperienza di ciò che passa diventa la forza della manifestazione e della rivelazione di ciò che si sta compiendo. Ciò che passa, pertanto, non è esperito come qualcosa che perisce e che si sta distruggendo, ma come qualcosa in via di compimento. Cambia allora l’atteggiamento, perché non si tratta più di aggrapparsi agli eventi (a quelli accaduti o a quelli che vorremmo accadessero); nasce un atteggiamento libero di fronte alla storia, che può essere creativo proprio perché libero, non soggetto a una necessità, legata a un’ideologia o a una passione. L’atteggiamento è libero solo quando è espressione di un dono d’amore.

Aggiunge Schmemann: «Ma perché quest’esperienza (“passa la figura di questo mondo”) diventi possibile e reale, occorre che anche in questo mondo venga offerta l’esp erienza di ciò a cui tutto “corrisp onde” e si relaziona, che “traspare” attraverso ogni cosa e dona a tutto significato, bellezza, profondità e valore: l’esp erienza del regno di Dio, il cui sacramento è l’eucaristia. (Non solo la “consacrazione dei doni”, ma la liturgia che rende presente il regno di Dio e si realizza nella comunione alla mensa di Cristo nel suo regno). La Chiesa permane nel mondo per celebrare l’eucaristia e salvare l’uomo, restaurando la sua dimensione eucaristica. Ma l’eucaristia è impossibile senza la Chiesa, cioè senza una comunità che conosca la propria vocazione unica, irriducibile a tutto ciò che esiste nel mondo: quella cioè di essere amore, verità, fede e missione, cioè tutto ciò che si compie e si svela nell’eucaristia, ovvero, per dirla in breve, la vocazione di essere il Corpo di Cristo. La Chiesa non ha altra vocazione, altro scopo, né una propria “vita religiosa” separata dal mondo. Altrimenti essa stessa si tramuta in “idolo”».

Potremmo dire, in un certo senso, che quanto più la Chiesa vive una relativizzazione delle strutture, delle forme costruite dall’uomo nella storia, tanto più è sicura della sua dimensione divino-umana, ovvero di appartenere a Cristo e dunque di essere già fondata nel compimento, nel regno del Padre. In questo senso, la Chiesa sperimenta eucaristicamente il dolore e l’asp etto drammatico della storia, poiché non possiamo sperimentare la totalità del Corpo di Cristo davanti al Padre: la ferita della separazione tra i cristiani non si accorda con l’eschaton, in quanto esso è il compimento in Cristo. Questa dimensione escatologica del compimento in Cristo non può avvenire senza che qualcosa delle nostre separazioni passi, venga meno, perché «Cristo non è diviso» (cfr. 1 Corinzi, 1, 13). È dunque la dimensione escatologica a spronare la Chiesa a una continua conversione affinché non divenga un idolo secondo le categorie umane, invece di essere la manifestazione del compimento dell’umanità in Cristo.

La Chiesa, sempre secondo Schmemann, «è la casa, da cui ognuno esce per andare “al lavoro” e dove ritorna con gioia, per trovare a casa la vita, la felicità, la gioia, dove ciascuno porta i frutti della propria fatica e dove tutto si traduce in festa, libertà e pienezza. Ma proprio la presenza, l’esperienza di questa casa — già fuori del tempo, immutabile, già compenetrata di eternità, già rivelatrice della sola eternità — solo questa presenza, dunque, può conferire significato e valore a tutto nella vita, “correlare” ogni cosa al suo interno a quest’esperienza e colmarla di essa. “Passa la figura di questo mondo”. Ma solo “passando”, il mondo e ogni cosa diventano sé stessi: dono di Dio, felicità di comunione con il contenuto di cui esso è forma, figura».

In questo momento storico, in cui crescono le tensioni, le radicalizzazioni provocate da tanti fattori, e vi sono forze negative che fanno leva sulle separazioni, sulle lacerazioni, sulle contrapposizioni, è evidente che lo Spirito parli alla Chiesa del rinnovamento e della trasfigurazione che avviene a partire dal compimento dell’unità in Cristo, affinché sia possibile testimoniare in questo mondo lacerato che c’è una Persona, il Figlio di Dio, che nel suo amore riesce ad abbattere i muri della divisione e a favorire realmente i passi dell’incontro e della comunione.

 

L'Osservatore Romano, 26 gennaio 2021