L’ECUMENISMO DEI MARTIRI

Per ricordare l’Enciclica “Ut unum sint” di Papa Giovanni Paolo II

 

Cardinale Kurt Koch

 

Un quarto di secolo fa, Papa Giovanni Paolo II pubblicò la sua incisiva Enciclica sull’impegno ecumenico, “Ut unum sint”. L’allora cardinale Joseph Ratzinger, esprimendo il suo apprezzamento, osservò che, con tale documento, il Papa era riuscito “con tutta la forza della sua passione ecumenica” a risvegliare l’urgenza della ricerca dell’unità dei battezzati “nella coscienza della Chiesa”[1]. Con “Ut unum sint”, il Papa intendeva incoraggiare i fedeli ad accogliere l’appello all’unità dei cristiani che era stato lanciato con grande forza dal Concilio Vaticano Secondo. Trent’anni dopo la conclusione del Concilio, Giovanni Paolo II rivolse la sua particolare attenzione a un fenomeno che, a suo avviso, stava impartendo una rinnovata energia all’esortazione espressa dal Concilio e che metteva la Chiesa davanti al suo dovere di assumere e di tradurre nella realtà concreta le richieste conciliari. Questo fenomeno era la “testimonianza coraggiosa di tanti martiri del nostro secolo”, appartenenti anche ad altre Chiese e Comunità ecclesiali non in piena comunione con la Chiesa cattolica. Là il Papa ravvisò “la prova più significativa che ogni elemento di divisione può essere trasceso e superato nel dono totale di sé alla causa del Vangelo”[2].

 

Un martirologio comune

Riferendosi a tale testimonianza già nell’introduzione dell’Enciclica, il Papa ricorda il doloroso fatto che alla fine del secondo millennio e all’inizio del terzo la cristianità è tornata ad essere una Chiesa di martiri, in una misura senza precedenti. I martiri di oggi sono infatti più numerosi rispetto a quelli che hanno subito le persecuzioni contro i cristiani nei primi secoli. L’ottanta per cento di coloro che vengono perseguitati a causa della loro fede oggi sono cristiani. La fede cristiana è la religione più perseguitata nel mondo odierno. Questo triste fenomeno ci ricorda che la Chiesa cristiana è sempre una Chiesa del martirio, dove il battesimo nel nome del Dio uno e trino si radicalizza nel battesimo del sangue. Poiché i martiri sono un fenomeno non marginale ma centrale nella Chiesa, il martirio è un’esperienza fondamentale della cristianità e fa parte della natura e della missione della Chiesa sin dal suo inizio.

Per Papa Giovanni Paolo II, è dunque particolarmente importante il riconoscimento del fatto che tutte le Chiese e le Comunità ecclesiali hanno i loro martiri. Oggi i cristiani non sono perseguitati perché appartenenti a una particolare comunità cristiana, perché ortodossi o cattolici, luterani o anglicani, ma perché cristiani. Il martirio è ecumenico e si deve parlare di un vero e proprio ecumenismo dei martiri. Tuttavia, malgrado la sua drammaticità, esso contiene anche un messaggio di speranza, secondo il quale “in una visione teocentrica, noi cristiani già abbiamo un Martirologio comune”, che mostra “come, ad un livello profondo, Dio mantenga fra i battezzati la comunione nell’esigenza suprema della fede, manifestata col sacrificio della vita”[3].

Nell’ecumenismo dei martiri Papa Giovanni Paolo II ravvisa già un’unità fondamentale tra noi cristiani, e nutre la speranza che i martiri dal cielo ci aiutino a ritrovare la piena unità. Mentre noi cristiani e noi Chiese su questa terra siamo ancora in una comunione imperfetta, i martiri nella gloria celeste vivono già in una comunione piena e compiuta. Il sangue che i martiri hanno versato per Cristo non ci separa, ma ci unisce. L’ecumenismo dei martiri conferma ancora una volta la convinzione della Chiesa primitiva, che Tertulliano riassunse affermando che il sangue dei martiri è il seme di nuovi cristiani: “Sanguis martyrum semen Christianorum”. Allo stesso modo, anche noi possiamo vivere oggi nella speranza che il sangue di così tanti martiri dei nostri giorni sarà il seme della piena unità ecumenica dell’unico Corpo di Cristo, lacerato da così tante divisioni. Possiamo essere certi che la sofferenza di così tanti cristiani crea un’unità più forte delle differenze che tuttora dividono le Chiese cristiane, e che, nel sangue dei martiri, siamo già diventati una cosa sola.

L’ecumenismo dei martiri è una delle ragioni più profonde del forte impegno ecumenico di Giovanni Paolo II, come egli stesso sottolineò dopo la celebrazione della Via Crucis al Colosseo, il Venerdì Santo del 1994: “Noi siamo uniti sullo sfondo dei martiri, non possiamo non essere uniti.” Per Giovanni Paolo II, l’ecumenismo dei martiri è la forma più credibile dell’ecumenismo di sempre: “L’ecumenismo dei santi, dei martiri, è forse il più convincente. La communio sanctorum parla con voce più alta dei fattori di divisione.”[4] Profondamente convinto di ciò, Giovanni Paolo II ha riconosciuto e apprezzato senza alcuna esitazione come martiri e dunque come testimoni della cristianità indivisa i cristiani di altre Chiese e Comunità ecclesiali che hanno dato la vita per la loro fede in Gesù Cristo.

 

La dimensione ecumenica del martirio

L’importanza teologica della pratica, diffusa oggigiorno nella Chiesa, del riconoscimento dei martiri cristiani in altre Comunità ecclesiali risulta evidente solo se si tiene conto del fatto che, nel corso della storia, ha prevalso a lungo la pratica opposta. Nel passato, veniva riconosciuto come martire solo il cristiano che aveva testimoniato con la vita la verità inalterata di Cristo. Non si poteva presumere che un’adesione così vitale alla piena verità di Cristo esistesse anche al di fuori della Chiesa cattolica. Di conseguenza, non era possibile accettare il martirio avvenuto in altre comunità cristiane. Già nei primi tempi del cristianesimo, solo i testimoni della fede della Chiesa cattolica erano riconosciuti come martiri, mentre il sacrificio della propria vita nelle comunità eretiche era considerato senza valore. Durante gli scontri con i donatisti, ad esempio, Cipriano e Agostino insistevano sul fatto che potessero esserci veri martiri soltanto nella Chiesa cattolica.

L’interpretazione del martirio si restrinse ulteriormente a causa delle successive divisioni nella Chiesa. Mentre i cristiani di varie Chiese facevano dono della vita, dimostrando fedeltà alla confessione di fede della denominazione di appartenenza, la qualifica religiosa del martirio fu riconosciuta solo ai testimoni della fede della propria comunità, e negata ai cristiani di altre comunità morti violentemente, sebbene tutti interpretassero la morte dei propri martiri come testimonianza resa a Cristo. Si arrivò a una confessionalizzazione del concetto di martirio persino maggiore con le lotte confessionali e con le guerre di religione del XV e XVI secolo, a causa del fatto che i cristiani si uccidevano a vicenda nelle diverse comunità cristiane e riconoscevano come martiri solo i propri morti.

Questa visione confessionalmente ristretta è stata superata soprattutto con il Concilio Vaticano Secondo, grazie a un rinnovato sguardo rivolto a quelle Chiese e Comunità ecclesiali cristiane che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica, ma con le quali essa “sa di essere per più ragioni congiunta”[5]. Il motivo di questo legame è ravvisato dal Decreto sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio” in primo luogo nel battesimo, che stabilisce un “vincolo sacramentale dell’unità che vige tra tutti quelli che per mezzo di esso sono stati rigenerati”[6], e che costituisce costoro in “una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”[7]. Il Decreto sottolinea quindi che molti degli “elementi o beni dal complesso dei quali la stessa Chiesa è edificata e vivificata” possono trovarsi “fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica”, come “la parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili”[8]. Tra questi elementi, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen gentium” annovera in modo speciale una “vera unione nello Spirito Santo”, poiché anche nei cristiani non cattolici “egli opera con la sua virtù santificante per mezzo di doni e grazie e ha dato ad alcuni la forza di giungere fino allo spargimento del sangue”[9]. Grazie a queste importanti dichiarazioni del Concilio, la realtà del martirio anche in altre Chiese cristiane è stata riconosciuta e apprezzata.

Su questo fondamento conciliare, ancora durante il Concilio, il Santo Papa Paolo VI confermò la visione ecumenica del martirio quando, nel corso della 103.ma Congregazione Generale, canonizzò i martiri dell’Uganda onorando anche gli anglicani che avevano subito le stesse sofferenze dei loro fratelli cattolici. Il riconoscimento dei martiri appartenenti ad altre Chiese e Comunità cristiane, insieme alla loro venerazione comune, fu in seguito un obiettivo particolarmente caro a Papa Giovanni Paolo II, che volle esprimere la dimensione ecumenica del martirio soprattutto con la celebrazione comune tenutasi al Colosseo nell’anno giubilare 2000. In tale occasione, il Papa, alla presenza di alti rappresentanti di varie Chiese e Comunità ecclesiali, commemorò i martiri del XX secolo, e ascoltò le varie testimonianze di fede, tra cui quella del Metropolita ortodosso Serafim, del Pastore protestante Paul Schneider e del sacerdote cattolico Maximilian Kolbe. Tale celebrazione permise di sperimentare nella fede la profonda comunione che unisce i cristiani nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali, nonostante le differenze e gli ostacoli tuttora esistenti. Di fatti, nella persecuzione comune - specialmente nei campi di concentramento nazisti e nei gulag comunisti - i cristiani e le comunità ecclesiali sono cresciuti insieme, hanno scoperto la loro comunione nella fede e hanno stretto un’amicizia ecumenica.

 

La continuità della visione ecumenica

Nell’ecumenismo dei martiri va ravvisato il nucleo più profondo dell’impegno ecumenico a favore dell’unità della Chiesa. Possiamo essere grati che questa visione ecumenica del martirio sia stata portata avanti dai successori di Papa Giovanni Paolo II sul soglio pontificio. Ciò vale innanzitutto per Papa Benedetto XVI, che ha sottolineato soprattutto la dimensione cristologica del martirio, particolarmente importante dal punto di vista ecumenico. Di fatti, “la forza per affrontare il martirio” nasce dalla “profonda e intima unione con Cristo”. Il martirio, pertanto, non è “il risultato di uno sforzo umano”, ma “la risposta ad un’iniziativa e ad una chiamata di Dio”, “un dono della Sua grazia, che rende capaci di offrire la propria vita per amore a Cristo e alla Chiesa, e così al mondo”[10]. Visitando nel 2008 la Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, dedicata alla memoria dei martiri del XX secolo, Papa Benedetto XVI ha evidenziato che “apparentemente sembra che la violenza, i totalitarismi, la persecuzione, la brutalità cieca si rivelino più forti, mettendo a tacere la voce dei testimoni della fede, che possono umanamente apparire come sconfitti della storia”, ma Gesù risorto illumina la loro testimonianza, così che la forza dell’amore, e dunque “la forza che sfida e vince la morte”, si rivela vittoriosa anche nell’apparente sconfitta[11]. Il martirio, anche e soprattutto nella sua dimensione ecumenica, è davvero la più alta testimonianza dell’amore.

Anche Papa Francesco ha più volte insistito sull’importanza dell’ecumenismo dei martiri o, come lui stesso lo ha definito, “l’ecumenismo del sangue”. Egli ha ben chiaro il fatto che oggi i cristiani sono perseguitati perché cristiani. E sono soprattutto gli stessi persecutori dei cristiani ad averci fatto comprendere il senso dell’ecumenismo del sangue. Infatti, “per i persecutori, noi non siamo divisi, non siamo luterani, ortodossi, evangelici, cattolici… No! Siamo uno! Per i persecutori siamo cristiani! Non interessa altro. Questo è l’Ecumenismo del sangue che oggi si vive.”[12] L’ecumenismo del sangue ci pone dunque davanti a una grande sfida, riassunta da Papa Francesco con questa domanda eloquente: “Se il nemico ci unisce nella morte, chi siamo noi per dividerci nella vita?”[13] Non è allora una vergogna che i persecutori dei cristiani abbiano spesso una visione ecumenica migliore dei cristiani stessi? Essi sanno che noi cristiani siamo, profondamente, una cosa sola. Per Papa Francesco, il riconoscimento dei martiri cristiani e la ricerca ecumenica dell’unità dei cristiani sono inscindibilmente legati: “I martiri appartengono a tutte le Chiese e la loro sofferenza costituisce un ‘ecumenismo del sangue’ che trascende le divisioni storiche tra cristiani, chiamando tutti noi a promuovere l’unità visibile dei discepoli di Cristo.”[14]

 

I martiri per l’unità dei cristiani

Nell’ecumenismo dei martiri, meritano una menzione speciale quei martiri cristiani che hanno consapevolmente dato la vita per la sacra causa dell’unità dei cristiani. Come rappresentante di molti altri, ricordiamo la figura di Max Metzger[15], sacerdote incardinato nell’arcidiocesi di Friburgo, che si impegnò a favore del movimento ecumenico già molto tempo prima del suo arresto da parte dei nazisti. Egli comprese la sua imminente esecuzione come offerta espiatoria resa al Signore per la pace del mondo e per l’unità della Chiesa, due cause che aveva particolarmente a cuore: “Sarei felice se, sacrificando la mia vita, fossi in grado di servire con efficacia la causa alla quale la mia vita ha aspirato senza certezza di successo”[16]. E poco prima della sua esecuzione, scrisse le parole che possono essere considerate il suo vero e proprio lascito: “Ora il Signore vuole che sacrifichi la mia vita. Pronuncio il mio felice Sì alla sua volontà. Gli ho offerto la vita per la pace del mondo e per l’unità della Chiesa. La vuole. Che la benedica!”[17]

Max Josef Metzger è uno di quei martiri cristiani riferendosi ai quali Papa Giovanni Paolo II ha affermato che “la comunione più vera che ci sia con Cristo che effonde il suo sangue e, in questo sacrificio, fa diventare vicini coloro che un tempo erano lontani (cfr. Ef 2,13)” permette anche una comunione più intensa tra i cristiani[18].  Come Gesù è andato incontro alla sua morte “per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52), così le figure ricordate hanno accettato consapevolmente il loro martirio per l’unità dei cristiani. Non solo sono diventati guide credibili verso l’unità visibile, ma con loro è stata completamente superata la visione riduttiva del martirio, chiusa confessionalmente, soprattutto grazie al fatto che le Chiese cristiane riconoscono ormai anche i martiri in altre comunità ecclesiali e li considerano testimoni comuni. Nei martiri dell’intera cristianità, infatti, “è presente la cristianità indivisa ed è stata superata la divisione della Chiesa”[19].

In questa “Una Sancta in vinculis”, come il teologo protestante e martire Dietrich Bonhoeffer ha definito lo stretto legame ecumenico tra i cristiani nelle diverse Chiese durante la loro resistenza al regime di violenza nazista e comunista, incontriamo la forma più credibile della testimonianza cristiana comune, che è il fondamento della speranza nell’unità del Corpo di Cristo e lo stimolo a continuare a costruire sulla base dell’unità che i martiri hanno posto per l’unità dei cristiani.

È del tutto evidente ormai che la sofferenza di così tanti cristiani nel mondo di oggi è un’esperienza cristiana comune, e che quindi l’ecumenismo dei martiri e del sangue è il segno più convincente dell’ecumenismo attuale. In esso ritroviamo un importante lascito ecumenico di Papa Giovanni Paolo II, il quale era convinto che il ministero affidato al successore di Pietro fosse il ministero dell’unità e si esplicasse “in particolare nel campo ecumenico”[20]. Papa Giovanni Paolo II ha vissuto nella stimolante speranza che dopo il primo millennio della storia cristiana, tempo della Chiesa indivisa, e dopo il secondo millennio, tempo di profonde divisioni nella Chiesa sia in Oriente che in Occidente, al terzo millennio spettasse il grande compito di ripristinare la perduta unità dei cristiani.

Un compito davanti al quale ci troviamo ancora oggi. L’anniversario della lungimirante Enciclica “Ut unum sint” di Papa Giovanni Paolo II, pubblicata 25 anni fa, è una proficua occasione per riprendere coscienza di questa sfida e per assumerla con passione, con rinnovata speranza nell’unità di tutti i battezzati, già donataci nell’ecumenismo dei martiri.

 

 

 

 

[1] J. Ratzinger – Benedetto XVI, La fede rifugio dell’umanità. Le 14 encicliche di Giovanni Paolo II, in: Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore (Cinisello Balsamo 2007) 33-49, cit. 43.

[2] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 1.

[3] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 84.

[4] Giovanni Paolo II, Tertio millennio adveniente, n. 37.

[5] Lumen gentium, n. 15.

[6] Unitatis redintegratio, n. 22.

[7] Unitatis redintegratio, n. 3.

[8] Unitatis redintegratio, n. 3.

[9] Lumen gentium, n. 15.

[10] Benedetto XVI, Discorso durante l’Udienza Generale dell’11 agosto 2010.

[11] Benedetto XVI, Omelia durante la Memoria dei Testimoni della fede del XX e XXI secolo nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, il 7 aprile 2008.

[12] Francesco, Discorso ai Membri della “Catholic Fraternity of Charismatic Covenant Communities and Fellowship”, il 31 ottobre 2014.

[13] Francesco, Discorso al Movimento del Rinnovamento dello Spirito, il 3 luglio 2015.

[14] Dichiarazione comune di Sua Santità Francesco e di Sua Santità Karekin II nella Santa Etchmiadzin, Repubblica di Armenia, il 26 giugno 2016.

[15] Cfr. J. Ernesti, Ökumene im Dritten Reich (Paderborn 2007) 182-219.

[16] M. J. Metzger, Christuszeuge in einer zerrissenen Welt. Briefe und Dokumente aus der Gefangenschaft 1934-1944, hrsg. von K. Kienzler (Freiburg i. Br. 1994) 137.

[17] Ibid 2018.

[18] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 84.

[19] E. Schockenhoff, Entschiedenheit und Widerstand. Das Lebenszeugnis der Märtyrer (Freiburg i. Br. 2015) 157.

[20] Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza (Milano 1994) 168.

 

Articolo pubblicato ne L'Osservatore Romano, 18 gennaio 2020, N° 13, p. 6.