LA PREGHIERA COME ANIMA DELLA TEOLOGIA E DELL’ECUMENISMO

Sul rapporto tra riflessione teologica e prassi spirituale

 

Prolusione per l'inaugurazione dell´Anno Academico alla Pontificia Facoltà Teologica
Roma, 4 ottobre 2022

 

Vi ringrazio di cuore per il gentile invito a tenere la “Prolusione” per l’inaugurazione di questo anno accademico. Essendo la spiritualità carmelitana particolarmente centrale nella vostra Pontificia Facoltà Teologica, mi sembra opportuno esaminare il rapporto tra riflessione teologica e pratica spirituale, il cui fulcro è la preghiera. La preghiera, in quanto incarnazione essenziale della spiritualità cristiana, è anche l’anima della teologia. Il criterio decisivo della teologia cristiana è dunque la sua compatibilità con la preghiera. In termini concreti, ciò significa che nel pensiero teologico su Dio, in definitiva, conta solo ciò che si può dire davanti a Dio nella preghiera. D’altro canto, ciò che non può essere formulato nella preghiera davanti a Dio non può diventare il contenuto della teologia cristiana. In questo senso, la preghiera è il purgatorio del pensiero teologico. La questione fondamentale non può quindi essere quale posto occupa la preghiera nella teologia; piuttosto, dobbiamo chiederci quale posto abbia e debba avere la teologia nella preghiera.

 

1. La reciproca dipendenza di fede e teologia

Per approfondire la questione del rapporto tra riflessione teologica e pratica spirituale, dobbiamo partire dalla questione ancor più fondamentale del rapporto tra teologia e fede. Si tratta di una mutua dipendenza di fede e teologia, nel duplice senso che la teologia presuppone la fede e la fede ha bisogno della teologia.[1]

 

a) La teologia cristiana presuppone la fede della Chiesa

Iniziamo ancora una volta con la preghiera. La preghiera non è semplicemente un’attività cultuale dell’essere umano, ma l’attuazione della fede cristiana in generale, come esprime in modo basilare il riformatore Martin Lutero. Alla domanda su cosa sia la fede “oltre alla vana preghiera”, egli risponde: “Come un calzolaio fa una scarpa e un sarto fa una gonna, così un cristiano deve pregare. Il mestiere del cristiano è pregare.”[2] La preghiera cristiana è vita basata sulla fede e quindi realizzazione originaria della fede cristiana stessa. La preghiera è, più precisamente, “fede che parla”[3], fede che si esprime apertamente al cospetto di Dio.

La preghiera è fede che parla soprattutto perché, nella prospettiva cristiana, essa risponde a un Dio che non è muto ma che interloquisce, un Dio che ha parlato al suo popolo Israele e che si è manifestato in maniera definitiva in suo figlio Gesù di Nazaret, come confessa inequivocabilmente la Lettera agli Ebrei: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo” (Ebrei 1,1-2).

Qui emerge il motivo più profondo per cui la teologia cristiana presuppone la fede. La teologia è preceduta infatti da quella parola che Dio ha pronunciato e che porta il nome di “rivelazione”. La teologia cristiana è essenzialmente teologia della rivelazione, ovvero riflessione sulla rivelazione di Dio, che non trova in sé il suo contenuto, ma che lo riceve dalla rivelazione “per poi comprenderlo nel suo contesto interiore e nella sua pregnanza di senso”[4]. Ne consegue che la prima risposta alla rivelazione di Dio non è la teologia, ma la fede della Chiesa, e che la teologia può comprendere se stessa correttamente solo se si compie come servizio alla fede della Chiesa e quindi come servizio alla Chiesa. Di fatti, la verità che la teologia cristiana cerca ci è accessibile solo nella fede della Chiesa. Pertanto, non è la teologia che può essere misura e criterio della fede e del suo annuncio, ma, viceversa, è la fede battesimale vissuta e meditata che deve essere misura e criterio della teologia.

Questo primato della fede sulla teologia mostra chiaramente che cosa è la teologia cristiana e come si differenzia da tutti gli altri sforzi intellettuali scientifici e, in definitiva, anche da ogni essere umano pensante. L’essere umano è caratterizzato dal fatto che il pensare precede il parlare e quindi il pensiero precede la parola. A ragione, non definiamo particolarmente intelligenti e saggi coloro che prima devono sentire parlare se stessi per sapere cosa pensare. Nel caso del teologo cristiano, le cose stanno però diversamente. Ciò non significa che gli manchi un pensiero solido, al contrario. Ma se il teologo cristiano comprende bene se stesso e la sua responsabilità, allora la parola precederà sempre il pensiero. Non si tratta tuttavia della parola del teologo, ma della Parola di Dio, che giunge al teologo e che il teologo deve ricevere e accogliere prima di meditarla e di trasmetterla. La teologia non può infatti inventare la Parola di Dio; la può solo trovarlo, o meglio, lasciarsi da lei trovare.

Poiché, nella teologia, la Parola di Dio precede sempre il pensiero, la teologia è da intendersi come riflessione disciplinata su ciò che Dio ha pensato e detto prima di noi; in questo senso essa parte da una risposta che non ha trovato da sola, e che, molto più ampia del proprio pensiero, deve in continuazione prendere come suo punto di riferimento e sua misura. Tale misura ci è data nella fede della Chiesa. L’annuncio della fede della Chiesa ha quindi un primato fondamentale sulla riflessione teologica di questa fede. E questo primato rende evidente che la teologia non può realizzarsi nel vuoto e neppure secondo l’arbitrio privato del singolo teologo. Piuttosto, essa deve essere intesa solo all’interno della comunione della Chiesa e al servizio del suo annuncio credibile; troveremo conferma di ciò anche semplicemente gettando un breve sguardo alla storia. Le grandi innovazioni della teologia cattolica tra le due guerre mondiali testimoniano che le nuove e feconde svolte della teologia non sono mai nate dal distacco della teologia dalla Chiesa, ma sempre dalla sua capacità di orientarsi nuovamente verso di essa; d’altro canto, laddove la teologia si è allontanata dalla comunità ecclesiale, ha rischiato di appiattirsi e impoverirsi.

Alla base del primato dell’annuncio della fede della Chiesa c’è il primato ancora più fondamentale della Chiesa in generale sulla teologia. La Chiesa non è primariamente oggetto di riflessione teologica; piuttosto, essa è lo spazio vitale naturale in cui la teologia concepisce sé stessa e si realizza, e quindi il soggetto stesso della teologia, come giustamente sottolinea il Cardinale Walter Kasper: “Il Noi onnicomprensivo della Chiesa è il soggetto della fede e il luogo della verità.”[5] Il fatto che la Chiesa sia il vero soggetto della fede e della teologia è dovuto in primo luogo al fatto che la Chiesa, prima di essere oggetto della teologia, è oggetto del credo, come sviluppo più dettagliato della professione di fede nello Spirito Santo: noi cristiani crediamo alla Chiesa perché crediamo nello Spirito Santo!

La teologia cristiana è un “credere-con”, insieme alla fede della Chiesa, e quindi “pensare-con”, insieme a questa fede. Il rapporto tra fede della Chiesa e riflessione teologica si rivela sano solo quando entrambe si arricchiscono vicendevolmente e si sforzano insieme di avvicinarsi alla verità della fede, come ha affermato esplicitamente Joseph Ratzinger: “Una Chiesa senza teologia diventa povera e cieca, ma una teologia senza Chiesa si sgretola nell’arbitrarietà. Per questo, la questione dell’intima connessione tra le due deve essere ripensata dal principio e riportata alla luce”, vale a dire “per amore dell’integrità della teologia e, in definitiva, dell’integrità della nostra stessa fede”[6]. Sarà dunque opportuno continuare a esaminare questa “intima connessione”, soffermandoci ora sul secondo aspetto di tale relazione, ovvero il fatto che la fede della Chiesa ha bisogno di una riflessione teologica.

 

b) La fede della Chiesa richiede e risveglia la teologia

La fede cristiana è convinta della verità della rivelazione di Dio, alla quale risponde. Fa quindi parte della natura della fede il fatto che essa cerchi la propria ragione e, in essa, la razionalità di tutto ciò che è reale, e che dunque pretenda di essere vera. Chi affronta questa pretesa di base − ed è questo il compito intrinseco della teologia cristiana − deve occuparsi della credibilità della verità e della ragionevolezza della fede e quindi del dialogo interiore tra fede e ragione.

La fede è, secondo la formulazione classica di Anselmo di Canterbury, fides quarens intellectum: una fede che cerca la propria ragione. Su questa affermazione si basa il fatto che la coscienza di fede della Chiesa debba aprirsi alle possibilità del pensiero, come già espresso in modo esemplare nella teologia della Chiesa primitiva. La grandezza di tale teologia consisteva anche nell’essere ispirata dalla convinzione che la fede cristiana e la ragione umana non possono contraddirsi, e che la fede è strettamente legata alla ragione. La teologia deve essere all’altezza di questo compito, anche e soprattutto nella situazione odierna in cui fede e Chiesa sono esposte all’opinione pubblica, motivo per cui il teologo protestante Wolfhart Pannenberg ha osservato: “Nella nostra Chiesa dobbiamo recuperare qualcosa di quella fiducia nel potere della riflessione su Dio, anche e precisamente sul Dio biblico come Dio trinitario, una riflessione capace di dischiudere un comprensione più ampia e più profonda della nostra realtà, e con essa recuperare l’apertura e il coraggio di affrontare in tutta la loro portata le questioni spirituali del nostro tempo, che non sono sempre identiche a ciò che altri fanno passare per attualità del giorno. Noi cristiani dobbiamo contribuire anche nella riflessione spirituale in maniera lungimirante, per il bene del mondo in cui viviamo.”[7]

La teologia è tenuta ad assolvere questo importante compito già a motivo del suo nome, che collega il theos a un logos e suggerisce così che la teologia deve essere intesa e realizzata come pensiero e come parola su Dio, e più precisamente come scienza su Dio. In fondo, la teologia ha un unico tema, nella misura in cui Dio è al suo inizio, alla sua fine, e al suo centro. La realtà vivente di Dio è, per così dire, il tema esclusivo della responsabilità teologica della fede cristiana. Naturalmente, questo non è nel senso di uno Specialissimum astratto. Piuttosto, la responsabilità intellettuale della fede, nel riconoscere il suo unico tema, ovvero Dio, è quella di riconoscere e di spiegare tutta la realtà, e quindi tutto ciò che è in qualche modo il contenuto dell’esperienza umana della realtà, come determinata da Dio, e di tematizzare la realtà, sperimentata in modo generale e studiata anche in modo extra-teologico, nel suo rapporto con Dio, ovvero “sub specie aeternitatis Dei”. La teologia può rendere giustizia in modo credibile al suo tema esclusivo, cioè alla realtà di Dio, solo tematizzando contemporaneamente e in maniera inclusiva tutto ciò che è oggetto dell’esperienza e della conoscenza della realtà. Di fatti, chi ha a che fare con Dio come realtà che tutto determina e tutto racchiude ha a che fare con ogni cosa, come sottolinea eloquentemente san Tommaso d’Aquino nella sua “Summa contra gentiles”: “multa praecognoscere theologus oportet.”[8] Poiché la teologia si realizza come esplicazione del tema esclusivo di Dio, essa si costruisce anche come teologia della realtà universale.

Questo rapporto di esclusività e di inclusione nel discorso teologico su Dio fa sì che l’esistenza della teologia rientri così tanto nella specificità del cristianesimo da rendere il cristianesimo inconcepibile senza di essa. Tale specificità del cristianesimo traspare già, nella storia, dal fatto che le prime università in Europa furono fondate su iniziativa della Chiesa e la facoltà madre era sempre la facoltà di teologia. La teologia sotto forma di riflessione scientifica ha raggiunto in ambito cristiano uno status molto elevato, al di sopra dello status generalmente conseguito in altre religioni. Nella teologia viene quindi alla luce la specificità della pretesa cristiana di verità e quindi l’essenza stessa del cristianesimo nel concerto della storia delle religioni, come ha affermato giustamente Joseph Ratzinger: “Il fenomeno della teologia in senso stretto è un fenomeno esclusivamente cristiano, che non esiste altrove, in ugual maniera.”[9]

 

2. Il rapporto tra teologia e spiritualità

Per quanto importante sia il lavoro razionale della teologia, essa non può e non deve essere semplicemente una questione di testa; non potrebbe rimanere fedele, altrimenti, al suo tema. Se questo aspetto viene trattato in maniera unilaterale o addirittura viene assolutizzato, c’è il rischio che il tema vero e proprio della teologia sia dimenticato nonostante tutti i dibattiti scientifici e che si giunga alla situazione così diagnosticata dal sociologo Franz-Xaver Kaufmann: “Invece di parlare con Dio si inizia a parlare di Dio, poi a parlare su Dio e presto solo a parlare del parlare su Dio – il parlare della teologia e della riflessione”. Quando la teologia non è più alimentata dal sacro fuoco della fede in Dio, ma riesce solo ad asserire che da qualche parte dovrebbe esserci un tale fuoco, essa diventa sterile.

 

a) Il primato della dossologia sulla teologia

La teologia cristiana deve sempre ricordare che la sua importanza dipende essenzialmente dal fatto che tale importanza deriva da una spiritualità cristiana concretamente vissuta, nella quale è presente a suo modo il citato rapporto di esclusività e di inclusione[10]: secondo sant’Ignazio di Loyola, la vita cristiana consiste nel cercare e nel trovare Dio in tutte le cose. Il motto della vita spirituale di san Benedetto è lodare Dio in tutto: “ut in omnibus glorificetur Deus”. Ciò emerge più chiaramente nel capitolo LVII della sua Regola, dove compare per la prima volta questo motto di vita, ovvero dove il fondatore dell’ordine parla dei monaci che praticano un mestiere e poi prosegue: “nei prezzi dei suddetti prodotti non deve mai insinuarsi l’avarizia, ma bisogna sempre venderli un po’ più a buon mercato dei secolari ‘affinché in ogni cosa sia glorificato Dio’”. Per san Francesco d’Assisi, la vita evangelica di povertà comprende una professione di fede permanente nel Dio Creatore che dona a tutto essenza e vita, affinché la vita del cristiano, che deve tutta la sua vita a Dio, possa diventare un’unica preghiera eucaristica. Santa Teresa d’Avila è convinta persino che Dio sia tra le pentole e i tegami, e che possa essere trovato lì. E santa Teresa di Lisieux ha potuto sperimentare Dio nelle “délicatesses du Bon Dieu” quotidiane.

Tutti questi testimoni della fede mostrano cosa comporti la spiritualità cristiana: non si tratta semplicemente di un interesse speciale per le cose spirituali, ma di una dimensione permanente che riguarda e che plasma tutta la vita e l’opera del cristiano. La spiritualità cristiana non può essere intesa semplicemente come un dono specifico dello Spirito tra tanti altri, ma deve essere compresa come il segno distintivo di tutto l’essere umano, che dà forma concreta alla sua vita di fede e, soprattutto, al suo rapporto con Dio. Nello stesso senso, non può bastare che all’interno della teologia vi sia una materia specifica chiamata “teologia spirituale”. Piuttosto, la teologia deve essere una “teologia spirituale” nel suo insieme, una teologia che presuppone sempre una spiritualità vissuta e che su di essa riflette. Il senso di una materia specifica chiamata “teologia della spiritualità” può essere soltanto quello di richiamare esplicitamente l’attenzione su questo orientamento permanentemente spirituale di tutta la teologia.[11]

Per il lavoro teologico, queste considerazioni significano che la principale attuazione pratica del lavoro teologico risiede nello sviluppo e nella promozione della spiritualità personale di coloro che sono impegnati nella teologia. Uno sguardo alla storia della Chiesa mostra che i grandi progetti e disegni teologici sono sempre andati di pari passo con i nuovi risvegli spirituali. San Tommaso d’Aquino, ad esempio, non può essere compreso senza la spiritualità dell’Ordine dei Predicatori. Lo stesso vale per teologi gesuiti come Henri de Lubac e Karl Rahner, nella cui teologia traspare la spiritualità ignaziana. E alla Pontificia Facoltà Teologica Theresianum, la teologia respira certamente lo spirito dei grandi santi della comunità carmelitana.

Oggi è necessario recuperare questo nesso vitale tra teologia e spiritualità, se il pensiero teologico non vuole solo rispondere al compito che spetta ai futuri pastori, ma vuole anche rendere (maggiormente) giustizia al tema che gli compete. Se lo stesso filosofo tedesco Martin Heidegger parla di pietà del pensiero, tanto più si addice alla teologia, che si occupa della realtà di Dio, considerare pensiero e pietà, razionalità e spiritualità non come neutre controparti, ma come elementi necessariamente complementari, e ricordare continuamente che il colloquio con Dio è molto più importante e autentico del discorso su Dio, e che la teologia può essere un credibile discorso su Dio solo se proviene sempre dal colloquio con Dio e sfocia nella dossologia, nella lode gratuita di Dio.

Il primato della dossologia sulla teologia ricentra l’attenzione sulla preghiera come lingua della fede. La fede non esiste in primo luogo per essere interpellata in maniera critica o addirittura per essere messa in discussione. Piuttosto, esiste per essere meditata nella preghiera e per essere celebrata nella liturgia. La fede non vuole essere solo vissuta nella quotidianità e interpretata nella riflessione teologica. Possiamo percepire la bellezza della fede solo se preghiamo e celebriamo la fede. In nessun luogo, quindi, la fede è tanto nel suo elemento quanto nella preghiera.

 

b) La preghiera come atteggiamento di fondo nei confronti della vita

Questo è stato testimoniato in modo esemplare dalla vita terrena di Gesù. La sua vita fu così tanto incentrata sulla preghiera che possiamo dire che la sua intera esistenza e la sua intera opera furono un’unica preghiera. La sua predicazione, le sue guarigioni, la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione sono radicate nella preghiera. Senza questo atteggiamento orante nei confronti della vita non è possibile comprendere la figura di Gesù. Nel Nuovo Testamento è soprattutto l’evangelista Luca a ritrarre Gesù come il Figlio di Dio costantemente orante, il cui centro è il dialogo con il Padre celeste, con il quale vive un’intima unità, e al quale si rivolge sempre nella preghiera quando si tratta di prendere decisioni importanti[12]. Mentre qui di seguito evidenziamo questo aspetto tramite alcuni episodi della vita di Gesù, ci chiediamo al contempo quale sia il suo significato e la sua importanza per il nostro lavoro teologico.

(1) La chiamata nella preghiera: nel capitolo sesto del Vangelo di Luca leggiamo: “In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli” (Lc 6,12-13). La chiamata dei dodici apostoli nasce dalla notte di preghiera di Gesù. Nella notte Gesù anticipa ciò che farà di giorno. La preghiera notturna sul monte e il dialogo con il Padre che vi si svolge è, in senso stretto, il luogo teologico della chiamata e il luogo interiore dell’apostolato.

Questa osservazione deve farci riflettere anche oggi. Tramite la chiamata dei dodici, Gesù ha costituito la Chiesa come popolo di Dio, con un gesto simbolico e molto reale. Come la chiamata dei dodici è nata dalla preghiera, dal dialogo del Figlio con il Padre, in cui il Figlio ha accordato la sua volontà alla volontà del Padre, così la Chiesa anche oggi è essenzialmente una comunità di fede unita nella preghiera a Gesù, e il primo prerequisito per le nuove vocazioni nella Chiesa è proprio la preghiera, che è e che resta il più intimo fulcro di tutta la pastorale vocazionale.

(2) La confessione di fede nella preghiera: nel capitolo 9 del Vangelo di Luca leggiamo ancora: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: ‘Le folle, chi dicono che io sia?’” (Lc 9,18). In seguito chiese loro personalmente: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Lc 9,29a). Come è noto, Pietro, come portavoce dei discepoli, risponde con la confessione di fede che riconosce Gesù quale Messia, Figlio del Dio vivente, confessione che originò poi lo stesso credo cristiano.

In questo testo colpisce soprattutto un fatto: la confessione di fede in Cristo fatta da Pietro nasce dalla preghiera di Gesù e risponde a questa preghiera. Luca lo formula in modo paradossale: quando Gesù prega in un luogo solitario, i discepoli sono con lui. Questo paradosso è consapevolmente voluto dall’evangelista, perché con ciò egli suggerisce che coloro che non sperimentano la solitudine della preghiera di Gesù credono che egli possa essere tutto: Giovanni Battista, Elia o un altro profeta. Solo i discepoli che hanno iniziato a prendere parte al mistero della preghiera di Gesù riescono a capire chi è Gesù. È solo perché entrano nella solitudine di Gesù e partecipano al suo dialogo con il Padre celeste che penetrano nell’identità di Gesù e comprendono l’essenza del suo mistero.

Chi vuole veramente conoscere Gesù − anche nel lavoro teologico odierno − deve vedere Gesù in preghiera, nella sua unione con il Padre. Come la confessione di fede di Pietro è nata dalla partecipazione alla preghiera di Gesù, così la confessione cristologica oggi non può essere semplicemente una formulazione neutra o un’affermazione teologicamente obiettiva; essa deve germogliare dalla preghiera, ed essere essa stessa preghiera. Anche oggi, nella teologia, la confessione cristologica può crescere solo nella partecipazione orante alla solitudine di Gesù e nello stare con lui là dove è solo con il Padre. Anche oggi, la teologia diventa una confessione di fede solo se nasce dalla preghiera e riconduce alla preghiera.

(3) La trasfigurazione nella preghiera: più avanti nel capitolo 9 leggiamo: “Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante” (Lc 9,28-29). L’evangelista Luca inizia così il racconto della trasfigurazione di Gesù. Ancora una volta, è importante che anche questo evento si svolga “sul monte”. Nella tradizione dei Vangeli, “il monte” è sempre lo spazio della preghiera, dello stare di Gesù con il Padre. Su questo monte Gesù porta i tre, che rappresentano il nucleo della comunità dei dodici. La trasfigurazione avviene durante la preghiera di Gesù e durante la partecipazione dei discepoli alla preghiera di Gesù.

Nella preghiera emerge di nuovo il fulcro del mistero interiore di Gesù. In questo senso, la trasfigurazione non fa che rendere visibile ciò che comunque già accade nella preghiera di Gesù, ovvero il profondo immergersi di ciò che è veramente Gesù nel suo dialogo con il Padre, che è allo stesso tempo una partecipazione allo splendore di Dio. Questo è ulteriormente sottolineato dal fatto che gli evangelisti vedono nella trasfigurazione di Gesù un’anticipazione della Pasqua, ed esprimono in modo molto bello il fulcro del mistero di Gesù: il vero motivo per cui Gesù non può rimanere nella morte è la sua intima e intensa comunicazione con il Padre, già visibile nella preghiera della trasfigurazione.

Anche oggi possiamo riconoscere veramente Gesù solo se prendiamo parte alla sua trasfigurazione, coscienti che tutta la vita di Gesù è in definitiva preghiera, e che, di conseguenza, la nostra fede in Cristo può essere solo un’interpretazione teologica della preghiera di Gesù. Non si può capire Gesù Cristo, nemmeno il cosiddetto Gesù storico, se non nella preghiera. L’evangelista Luca vuole mostrarci che è proprio attraverso la preghiera che Gesù si rivela pienamente come il “Figlio”. Luca eleva la preghiera di Gesù al rango di “categoria cristologica centrale”, partendo dalla quale egli “descrive il mistero del Figlio”[13].

(4) La passione nella preghiera: ciò è particolarmente evidente sul Monte degli Ulivi, che diventa per Gesù, nell’ora della passione incipiente, il monte della sua solitudine con il Padre, e sul quale il dialogo orante con il Padre deve attraversare la sua difficile prova: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42). È eloquente il fatto che, proprio in questo contesto, nel Vangelo di Marco si trovi l’appellativo “abba” rivolto da Gesù a Dio, a indicare che Gesù è andato oltre il solito modo di pregare. Questo termine familiare esprime infatti il nuovo e unico rapporto tra Gesù e il Padre nella preghiera.

In questo rapporto Gesù vuole introdurre anche oggi i suoi, se essi glielo chiedono come fecero i discepoli quando uno di loro chiese a Gesù, che si trovava in un luogo a pregare: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11, 1). Gesù ha donato loro il “Padre nostro” e così li ha fatti entrare nel suo rapporto filiale con il Padre. Allo stesso modo, oggi possiamo invocare Dio come nostro Padre solo partecipando al rapporto filiale di Gesù con suo Padre. Poiché abbiamo ricevuto la grazia di poter invocare Dio con le parole della preghiera di Gesù, non possiamo più metterci davanti a Dio come fosse semplicemente un oggetto di conoscenza: piuttosto, Dio è vicino a noi personalmente, perché questa preghiera si situa all’interno della comunione del Figlio con il Padre. A ciò si lega l’invito rivoltoci ad assolvere il lavoro teologico come partecipazione alla preghiera di Gesù e quindi come preghiera stessa.

(5) Morire nella preghiera: pregando, Gesù non solo ha vissuto e sofferto, ma è anche morto. Questo è ciò che narrano tutti gli evangelisti, anche se riportano in modi diversi le ultime parole di Gesù. Secondo Luca, Gesù recita il grande Salmo 31 della passione: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23, 46). Giovanni collega i Salmi 21 e 58 e fa dire a Gesù: “È compiuto!” (Gv 19,30). Secondo Matteo e Marco, Gesù grida a gran voce quelle parole con cui inizia il Salmo 21, il grande salmo dei giusti sofferenti e salvati: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46 e Mc 15, 34). Con queste parole, Gesù si unisce alla preghiera messianica del grande Salmo delle sofferenze e delle speranze di Israele, che sfocia nella sazietà dei poveri e nella conversione al Signore di tutti i confini della terra. Matteo e Marco notano anche che le parole di Gesù non furono comprese dai presenti, che interpretarono piuttosto il grido di Gesù come un’invocazione rivolta ad Elia. In tal modo, suggeriscono in maniera significativa che solo la fede è in grado di rendersi conto che, tramite la recita del salmo, Gesù viene riconosciuto come il vero orante, che, proprio perché abbandonato, percepisce sé stesso come colui che è stato accolto e glorificato dal Padre.

La morte di Gesù mostra la grande profondità della sua preghiera, sempre vissuta come dialogo con il Padre celeste, come osserva concisamente la lettera agli Ebrei: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito” (Ebr 5,7). Poiché la preghiera è il fulcro più intimo della vita e dell’opera e quindi della persona di Gesù, una vera comprensione della sua persona è possibile solo se noi teologi assumiamo l’atteggiamento orante di Gesù e entriamo in quella sua disposizione d’animo che si esprime nella sua preghiera, ovvero l’approccio di fondo proprio dell’amore, del dono di sé a Dio e quindi anche del dono di sé al prossimo.

Proprio come la filosofia può essere acquisita solo filosofando con gli altri, e come la medicina può essere appresa non solo dai libri, ma soprattutto operando guarigioni, così la fede può essere realmente riconosciuta solo attraverso la fede. Poiché l’atteggiamento fondamentale della fede è la preghiera, la fede in Cristo può compiersi in definitiva solo nella preghiera. La preghiera, infatti, rende capaci di vedere, come sottolineava molto eloquentemente il teologo medievale Riccardo di San Vittore: chi prega comincia a vedere, perché “l’amore è occhio”[14]. Se la teologia è radicata in una sana spiritualità, è evidente che essa può essere studiata e insegnata solo nell’amore per il suo stesso tema, per il suo tema originario, ovvero il Dio vivente.

Ricordare questa responsabilità della teologia è di particolare attualità nel tempo e nella società di oggi, in cui molti non riescono più a percepire Dio come realtà presente e vivono quindi come se Dio non esistesse: “etsi Deus non daretur”. Molti difficilmente possono concepire che Dio è il “creatore del cielo e della terra”, che si prende cura delle sue creature e che agisce nel mondo. In questa situazione, in cui si è perso ampiamente l’udito o addirittura si è diventati sordi davanti a Dio, il compito particolare della teologia consiste nel mantenere viva la passione e la sensibilità per la questione di Dio nella società e nella Chiesa di oggi, ponendosi così al servizio di ciò che è umano nell’essere umano, che noi come cristiani crediamo creato per una relazione con Dio e quindi animato dalla sete di infinito.

 

3. Il fondamento spirituale del movimento ecumenico

Oggi la teologia può adempiere questo compito solo nella comunione ecumenica, come ha osservato Papa Benedetto XVI ricordando l’opera di Martin Lutero nella Riforma: “Il nostro primo servizio ecumenico in questo tempo deve essere di testimoniare insieme la presenza del Dio vivente e con ciò dare al mondo la risposta di cui ha bisogno.”[15] Ciò che viene detto della teologia vale quindi anche per il movimento ecumenico, ovvero che anch’esso ha il suo fondamento nella preghiera.

Con la preghiera per l’unità dei cristiani, l’ecumenismo tenta di conformarsi alla volontà del Signore, che è comune a tutti i cristiani, il Signore che, nella sua preghiera sacerdotale, la vigilia della sua passione e della sua morte, ha pregato per l’unità dei suoi discepoli, “che tutti siano una sola cosa”. Dal punto di vista ecumenico questa preghiera di Gesù è di fondamentale importanza anche perché in essa lo sguardo di Gesù va oltre la comunità dei discepoli di allora e abbraccia anche la comunità dei discepoli futuri, come dice Gesù espressamente: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola” (Gv 17,20). Nella preghiera sacerdotale di Gesù, colpisce anche che Gesù non comandi l’unità ai suoi discepoli, né la esiga da loro, ma preghi per essa, rivolgendo la sua invocazione al Padre.

La preghiera di Gesù mostra quindi, nella maniera più chiara, in cosa consiste e deve consistere la ricerca ecumenica dell’unità alla luce della fede.[16] Se l’unità dei discepoli e della futura Chiesa era l’oggetto centrale della preghiera di Gesù, allora l’ecumenismo non potrà essere altro che partecipazione comune alla preghiera del Signore da parte di tutti i cristiani, che dovranno lasciarsi condurre all’interno di questa preghiera, che è il luogo profondo dell’unità ecumenica. Se il fondamento e la motivazione dell’ecumenismo sono di natura non semplicemente filantropica e interpersonale, ma realmente cristologica, allora l’ecumenismo potrà essere inteso e realizzato solo come “partecipazione alla preghiera sacerdotale di Gesù”[17]. In questo senso, la preghiera per l’unità dei cristiani è e resta il segno distintivo di ogni sforzo ecumenico teso all’unità. Non può quindi esserci ecumenismo che non sia radicato nella preghiera, come ci ricorda sempre Papa Francesco: “L’impegno ecumenico risponde, in primo luogo, alla preghiera dello stesso Signore Gesù e si basa essenzialmente sulla preghiera.”[18]

Con la preghiera per l’unità, noi cristiani esprimiamo la nostra convinzione di fede secondo la quale l’unità della Chiesa non può essere conseguita primariamente, e ancora meno esclusivamente, tramite i nostri soli sforzi ecumenici, e che noi uomini non creiamo noi stessi l’unità, né possiamo stabilire la forma e il tempo in cui si realizzerà. Piuttosto, noi cristiani produciamo divisioni; lo dimostra la storia sia passata che presente. Tuttavia, possiamo ricevere l’unità in dono. E il modo migliore per prepararci a ricevere il dono dell’unità dallo Spirito Santo è la preghiera per l’unità. Noi cristiani infatti sappiamo, nella fede, che l’unità “è primariamente un dono di Dio per il quale dobbiamo incessantemente pregare”, e siamo consapevoli che “a noi tutti spetta il compito di preparare le condizioni, di coltivare il terreno del cuore, affinché questa straordinaria grazia venga accolta”[19].

La centralità della preghiera rende evidente che l’impegno ecumenico è soprattutto un compito spirituale, che è stato tale fin dall’inizio. All’origine del movimento ecumenico troviamo infatti la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che fu un’iniziativa ecumenica nella misura in cui venne in gran parte promossa da Paul Wattson, un anglicano americano passato in seguito alla Chiesa cattolica, e da Spencer Jones, appartenente alla Chiesa episcopale, e venne accolta ed estesa a tutta la Chiesa cattolica da Papa Benedetto XV. Questa iniziativa ecumenica mostra che il movimento ecumenico è stato sin dall’inizio un movimento di preghiera. Fu la preghiera per l’unità dei cristiani ad aprire la strada al movimento ecumenico, come sottolinea Papa Benedetto XVI con questa immagine eloquente: “La barca dell’ecumenismo non sarebbe mai uscita dal porto se non fosse stata mossa da quest’ampia corrente di preghiera e spinta dal soffio dello Spirito Santo.”[20]

Nella chiara consapevolezza che la preghiera per l’unità deve essere al centro di ogni sforzo ecumenico e che, di conseguenza, ecumenismo e spiritualità sono inscindibilmente legati[21], il decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II “Unitatis redintegratio” definisce l’ecumenismo spirituale “l’anima di tutto il movimento ecumenico”[22]. A questa visione si riferisce Papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica sull’impegno ecumenico, “Ut unum sint”, quando sottolinea il “primato della preghiera”, che deve essere “particolarmente presente nella vita della Chiesa ed in ogni attività che abbia lo scopo di favorire l’unità dei cristiani”[23]. Sulla base di questo fondamento magisteriale, il Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo pone l’accento sulla preghiera comune, che dovrebbe avere “come oggetto innanzi tutto la ricomposizione dell’unità dei cristiani”[24].

Il Direttorio richiede un contributo speciale alle comunità religiose tradizionali, come pure alle nuove comunità e ai movimenti spirituali di oggi, aspettandosi da essi che vivano il loro “impegno battesimale nel mondo”, che siano “animati da un forte spirito ecumenico”[25] e che si dimostrino così protagonisti di un vero ecumenismo spirituale. In questo senso, l’abbé Paul Couturier, appassionato pioniere dell’ecumenismo spirituale, aveva già paragonato il movimento ecumenico a un monastero invisibile in cui cristiani di diverse Chiese in diversi paesi e continenti pregano insieme per la ricomposizione dell’unità dei cristiani. Anche oggi le comunità religiose sono chiamate a coltivare la preghiera per l’unità come via regale dell’ecumenismo, impegnandosi a favore di una rinnovata spiritualità ecumenica. E una comunità religiosa che vive e opera nella tradizione carmelitana, che conosce bene la preghiera vicaria nella notte oscura della fede, può dare risalto, nella sua facoltà di teologia, al legame tra teologia e spiritualità, affinché la preghiera si mostri in maniera credibile come anima della teologia.

 

 

 

[1] Vgl. Bischof Kurt Koch, Argumentative Rechenschaft über den Glauben. Vom kirchlichen Interesse an wissenschaftlicher Theologie, in: E. Arens und H. Hoping (Hrsg.), Wieviel Theologie verträgt die Öffentlichkeit? (Freiburg i. Br. 2000) 127-147.
[2] M. Luther, Tischreden 6751 = WAT 6, 162, 36.
[3] O. Pesch, Das Gebet (Augsburg 1972) 10.
[4] J. Kardinal Ratzinger, Glaube, Philosophie und Theologie, in: Ders., Wesen und Auftrag der Theologie. Versuche zu ihrer Ortsbestimmung im Disput der Gegenwart (Einsiedeln 1993) 11-25, zit. 14.
[5] W. Kasper, Vorwort. Zur gegenwärtigen Situation und zu den gegenwärtigen Aufgaben der Systematischen Theologie, in: Ders., Theologie und Kirche (Mainz 1987) 7-22, zit. 13.
[6] J. Kardinal Ratzinger, Vom geistlichen Grund und vom kirchlichen Ort der Theologie, in: Ders., Wesen und Auftrag der Theologie. Versuche zu ihrer Ortsbestimmung im Disput der Gegenwart (Einsiedeln 1993) 39-62, zit. 41f.
[7] Wie von Gott reden? Ein Gespräch mit Professor Wolfhart Pannenberg, in: Herder Korrespondenz 35 (1981) 182-189, zit. 189.
[8] Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles I 4.
[9] J. Kardinal Ratzinger, Vom geistlichen Grund und vom kirchlichen Ort der Theologie, in: Ders., Wesen und Auftrag der Theologie. Versuche zu ihrer Ortsbestimmung im Disput der Gegenwart (Einsiedeln 1993) 39-62, zit. 48.
[10] Vgl. G. Greshake, Gott in allen Dingen finden. Schöpfung und Gotteserfahrung (Freiburg i. Br. 1986).
[11] Vgl. J. Weismayer, Spirituelle Theologie oder Theologie der Spiritualität, in: G. Virt (Hrsg.), Spiritualität in Moral. Festschrift für K. Hörmann zum 60. Geburtstag (Wien 1975).
[12] Vgl. J. Kardinal Ratzinger, Christologische Orientierungspunkte, in: Ders. Schauen auf den Durchbohrten. Versuche zu einer spirituellen Christologie (Einsiedeln 1984) 13-40, bes. 19-25.
[13] J. Ratzinger, Der Gott Jesu Christi. Betrachtungen über den Dreieinigen Gott (München 1976) 67.
[14] Patrologia Latina 196, 1203.
[15] Benedetto XVI, Discorso durante la celebrazione ecumenica nella chiesa dell’ex-convento degli agostiniani di Erfurt, il 23 settembre 2011.
[16] Vgl. K. Kardinal Koch, Christliche Ökumene im Licht des Betens Jesu. „Jesus von Nazareth“ und die ökumenische Sendung, in: J.-H. Tück (Hrsg.), Passion aus Liebe. Das neue Jesus-Buch des Papstes in der Diskussion (Mainz 2011) 19-36.
[17] W. Kardinal Kasper, Ökumene und Spiritualität, in: Ders. Wege der Einheit. Perspektiven für die Ökumene (Freiburg i. Br. 2005) 203-226, zit. 204.
[18] Francesco, Discorso ai partecipanti al colloquio ecumenico di religiosi e religiose promosso dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, il 24 gennaio 2015.
[19] Francesco, Discorso alla delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, il 28 giugno 2013.
[20] Benedetto XVI, omelia per la celebrazione dei Vespri nella festa della Conversione di San Paolo a conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, il 25 gennaio 2008.
[21] Vgl. W. Kardinal Kasper, Wegweiser Ökumene und Spiritualität (Freiburg i. Br. 20007); G. Augustin, Die Seele der Ökumene. Einheit der Christen als geistlicher Prozess (Ostfildern 2017); P.-W. Scheele, Ein Leib – ein Geist. Einführung in den geistlichen Ökumenismus (Paderborn 2006).
[22] Unitatis redintegratio, n. 8.
[23] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 23.
[24] Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo, n. 110.
[25] Direttorio, n. 69.