L’IDENTITÀ SPIRITUALE DEL VESCOVO IN UNA CHIESA SINODALE

 

Conferenza per il Corso annuale di formazione per i nuovi Vescovi
organizzato dal Dicastero per i Vescovi nel quadro del ritiro spirituale
“La santità episcopale nella Comunione Cattolica”

 

Roma, 7 settembre 2022

 

Vi saluto con affetto, cari fratelli Vescovi, in questa giornata dedicata alla riflessione spirituale sulla “Santità episcopale nella Comunione cattolica”. La ricerca della santità è anche la chiave per comprendere l’identità spirituale del Vescovo in una Chiesa sinodale. Lo sforzo del Vescovo di raggiungere la santità è motivato, in modo più profondo, dal fatto che Gesù Cristo può operare attraverso il Vescovo. I Vescovi che si adoperano in questo senso si rendono conto che la loro santità consiste proprio nel sentirsi poveri e manchevoli di fronte al loro compito, che è quello di servire Cristo e l’opera di Cristo nella Chiesa. Vivere in questa consapevolezza non rappresenta solo l’ascesi spirituale vera e propria nella vita e nel ministero del Vescovo, ma anche la ragione più profonda della vicinanza solidale tra il Vescovo e il popolo di Dio a lui affidato. Ecco qual è il vero fulcro di una Chiesa sinodale e di una interpretazione sinodale del ministero. Per approfondire il concetto di identità spirituale del Vescovo in una Chiesa sinodale, occorre innanzitutto ricordare cosa si intende per Chiesa sinodale.

 

1. I dati teologico-spirituali fondamentali della sinodalità

Quando i cattolici, e in particolare i Vescovi cattolici, sentono parlare di sinodalità pensano soprattutto ai sinodi diocesani e ai sinodi dei Vescovi. Per quanto importanti siano queste istituzioni ecclesiali, la Chiesa deve essere consapevole che la sinodalità comprende molto di più, come ha chiaramente affermato Papa Francesco in un discorso tenuto davanti ai rappresentanti della Chiesa greco-cattolica in Ucraina: “Essere Chiesa è essere comunità che cammina insieme. Non basta avere un sinodo, bisogna essere sinodo. La Chiesa ha bisogno di una intensa condivisione interna: dialogo vivo tra i Pastori e tra i Pastori e i fedeli.”[1] Questa definizione contiene le dimensioni essenziali di una Chiesa sinodale, sulle quali vogliamo ora riflettere.

 

a) Ascoltando lo Spirito Santo in modo sinodale: la sinodalità come dimensione costitutiva della Chiesa

La prima cosa che risulta evidente è che la sinodalità è una dimensione essenziale della Chiesa. Nel 2015, durante il cinquantesimo anniversario del Sinodo dei Vescovi istituito da Papa Paolo VI, Papa Francesco ha affermato, in maniera programmatica, che percorrere con fermezza e approfondire il cammino della sinodalità è ciò “che Dio aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”[2]. Questa idea è già contenuta nella parola “synhodos”. La parola “sinodo” comprende i termini greci “hodos” (cammino) e “syn” (con) ed esprime il fatto di mettersi in cammino insieme ad altri. Nell’accezione cristiana, la parola “sinodo” designa la via comune di coloro che credono in Gesù Cristo, il quale ha rivelato e chiamato se stesso “Via”, e più precisamente “Via, Verità e Vita” (Gv 14,6). All’origine, la fede cristiana era infatti designata come “Via” e i cristiani nella sequela di Cristo erano detti “seguaci della Via” (At 9,2). Se prendiamo il termine alla lettera, risulta che la sinodalità è antica e fondamentale quanto la parola “chiesa”. In questo senso, anche l’importante Dottore della Chiesa d’Oriente Giovanni Crisostomo sottolinea che Chiesa è un nome “che significa un cammino comune” e che, pertanto, Chiesa e sinodo sono “sinonimi”[3]. La Chiesa è fondamentalmente un “cammino di fede”[4].

In questo contesto va anche ricordato con gratitudine che la riscoperta della sinodalità è un’intuizione condivisa a livello ecumenico. Ciò emerge in particolare dallo studio pubblicato dalla Commissione Fede e Costituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese, intitolato “La Chiesa verso una visione comune”. Questo documento, che mira a una visione multilaterale ed ecumenica della natura, dello scopo e della missione della Chiesa, presenta la seguente affermazione ecclesiologica comune: “Tutta la Chiesa è sinodale/conciliare a tutti i livelli della vita ecclesiale – locale, regionale e universale – sotto la guida dello Spirito Santo. Il mistero della vita trinitaria di Dio si riflette nel carattere sinodale o conciliare della Chiesa, e le strutture della Chiesa danno forma a questo carattere per realizzare la vita della comunità come comunione.”[5]

Questa visione positiva è condivisa anche dalla Commissione Teologica Internazionale nel suo documento programmatico “La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa”, dove si constata con gioia che il dialogo ecumenico è progredito sino al punto di riconoscere nella sinodalità una “dimensione rivelatrice della natura della Chiesa”, avvicinandosi alla “concezione della Chiesa come koinonia”, “che si attua in ogni chiesa locale e in relazione alle altre Chiese, attraverso specifiche strutture e processi sinodali”[6]. È dunque facilmente comprensibile che anche nel processo sinodale avviato da Papa Francesco al livello della Chiesa universale, chiamato “Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione”, la dimensione ecumenica svolga un ruolo di grande rilievo, come si legge nel “Vademecum del Sinodo”: “Il dialogo tra cristiani di diverse confessioni, uniti da un unico battesimo, occupa un posto speciale nel cammino sinodale”[7].

Nel quadro ecumenico generale, vale la pena ricordare che la Chiesa nascente si era già data il nome di “ekklesia”, accanto alla sinagoga ebraica.[8] Nella terminologia greca profana, questa parola si riferiva all’assemblea popolare di una comunità politica; nel linguaggio della fede, indica la comunità dei credenti riuniti. Quest’ultima comunità differisce dalla prima principalmente per il fatto che, nella polis greca, gli uomini si radunavano per prendere decisioni importanti, mentre la comunità di fede si riuniva non per decidere da sé, ma per ascoltare quello che Dio aveva deciso, per dare a ciò il proprio consenso e per tradurlo nella quotidianità.

Seguendo la tradizione di questa interpretazione ecclesiologica, Papa Francesco, per ravvivare e per approfondire la sinodalità, non si preoccupa primariamente delle strutture e delle istituzioni, ma ha a cuore la sua dimensione spirituale, in cui il ruolo dello Spirito Santo e il comune ascolto dello Spirito sono di fondamentale importanza: “Ascoltiamo, discutiamo in gruppo, ma soprattutto prestiamo attenzione a ciò che lo Spirito ha da dirci”.[9] Alla luce di questa forte enfasi spirituale si comprende anche la differenza fondamentale tra sinodalità e parlamentarismo, che Papa Francesco ha più volte evidenziato: mentre il processo democratico serve principalmente a determinare le maggioranze, la sinodalità è un evento spirituale che mira a trovare un’unanimità solida e convincente nella fede e negli stili di vita da essa derivanti del singolo cristiano e della Comunità ecclesiale, sulla via del discernimento spirituale. Pertanto il sinodo, nelle parole di Papa Francesco, “non è un parlamento, dove per raggiungere un consenso o un accordo comune si ricorre al negoziato, al patteggiamento o ai compromessi, ma l’unico metodo del Sinodo è quello di aprirsi allo Spirito Santo, con coraggio apostolico, con umiltà evangelica e con orazione fiduciosa; affinché sia Lui a guidarci”.[10]

 

b) Il processo decisionale e la decisione: il principio sinodale e gerarchico nella Chiesa

Per poter delineare l’identità spirituale del Vescovo in una Chiesa sinodale, è necessario approfondire la natura spirituale di una Chiesa sinodale. Il suo archetipo paradigmatico è stato ravvisato nel corso della storia nel cosiddetto Concilio apostolico di Gerusalemme, dove, dopo dettagliate discussioni all’interno della comunità di Gerusalemme e dopo aver ascoltato l’autorevole testimonianza e il credo di Pietro, la decisione fu presa da Giacomo, capo della Chiesa di Gerusalemme, in questi termini: “È stato deciso, dallo Spirito Santo e noi” (At 15,28). La questione importante fu decisa da Giacomo in forza dello Spirito Santo; poi tale decisione fu accettata da tutta l’assemblea di Gerusalemme e in seguito anche da quella di Antiochia.

L’evento del Concilio apostolico mostra che la sinodalità non si contrappone alla gerarchia nella Chiesa; piuttosto, sinodalità e gerarchia si esigono e si promuovono a vicenda. Anche a questo proposito, Papa Francesco è convinto che la sinodalità, come “dimensione costitutiva della Chiesa”, offra “la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico”, in quanto coloro che esercitano l’autorità nella Chiesa si chiamano “<ministri> secondo il significato originario della parola”[11]. Papa Francesco ritiene che questo valga anche e precisamente per lo stesso ministero petrino, che potrà ricevere maggiore luce in una Chiesa sinodale: “Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come Successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese.”[12] Ciò che il Papa ha evidenziato in merito al proprio ministero vale in modo analogo anche per il ministero episcopale.

L’inscindibile legame tra sinodalità e gerarchia è particolarmente evidente se si considera la parola “gerarchia” dal punto di vista etimologico, e quindi non la si traduce con “santa signoria” ma con “santa origine”[13]. La missione della gerarchia nella Chiesa è dunque proteggere e tramandare la “santa origine” dell’evento di Cristo, affinché possa compiere la sua opera liberatoria anche nell’attuale situazione della Chiesa. Il ministero gerarchico deve essere rappresentante, garante e pastore del Vangelo come dono rivolto a tutti e non strumentalizzabile, e deve fare in modo che la Chiesa esista in virtù di Gesù Cristo quale suo capo e che non crei un proprio ordinamento o addirittura un proprio vangelo. Tuttavia, la gerarchia non può intraprendere questa missione da sola; essa è chiamata e tenuta a percorrere il cammino insieme a tutti i credenti e i battezzati, e quindi in maniera sinodale. Il syn-hodos indica infatti la via comune nella comunità di fede della Chiesa. Affinché questa interazione abbia successo, deve essere presa in considerazione la delicata distinzione tra il processo di ricerca della verità e la decisione sulla verità.[14] Mentre il maggior numero possibile di credenti dovrebbe essere coinvolto nella ricerca della verità, secondo il principio che era già seguito nella Chiesa primitiva, ovvero che ciò che riguarda tutti dovrebbe avere anche il consenso di tutti[15], e che quindi anche il Magistero ecclesiale è un membro della Chiesa in dovere di ascolto, la decisione sulla verità è di competenza indelegabile del Magistero ecclesiale e di coloro che sono a capo della Chiesa.

In merito alla necessaria interazione tra sinodalità e gerarchia, le Chiese cristiane possono imparare l’una dall’altra in uno spirito di apertura ecumenica. Per Papa Francesco, “l’attento esame di come si articolano nella vita della Chiesa il principio della sinodalità ed il servizio di colui che presiede” rappresenta un contributo significativo alla riconciliazione ecumenica tra le Chiese cristiane[16]. Lo sforzo teologico e pastorale di edificare una Chiesa sinodale ha infatti forti implicazioni ecumeniche, come dimostra in modo particolare il dialogo tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme.[17] Nel documento presentato dalla Commissione Mista Internazionale durante l’Assemblea Plenaria di Ravenna del 2007, dal titolo “Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Communio ecclesiale, conciliarità e autorità”[18], si è giunti a un consenso ecumenico sul fatto che sinodalità e primato sono interdipendenti, nel senso che il primato deve essere sempre considerato e realizzato nel contesto della sinodalità e, viceversa, la sinodalità deve essere sempre considerata e realizzata nel contesto del primato, e che questo deve avvenire a tutti i livelli della vita ecclesiale - locale, regionale e universale.

Affinché questo passo promettente possa aprire la strada a un futuro costruttivo, la relazione tra sinodalità e primato deve essere ulteriormente approfondita nel dialogo ecumenico. Non si tratta affatto di puntare a un compromesso sul minimo comune denominatore. Occorre piuttosto mettere a confronto i rispettivi punti di forza delle due Comunità ecclesiali, come ha osservato sinteticamente il gruppo di lavoro cattolico-ortodosso Sant’Ireneo nel suo studio “A servizio della comunità”: “Le Chiese devono soprattutto adoperarsi affinché venga raggiunto un migliore equilibrio tra sinodalità e primato a tutti i livelli della vita ecclesiale, attraverso un rafforzamento delle strutture sinodali nella Chiesa cattolica e attraverso l’accettazione da parte della Chiesa ortodossa di un certo primato all’interno della comunione mondiale delle Chiese.”[19]

Per poter compiere ulteriori passi su questo cammino, è necessaria una volontà di apprendimento da entrambe le parti. Per quanto riguarda la parte cattolica, Papa Francesco ha sottolineato in maniera autocritica che nel dialogo con i fratelli ortodossi noi cattolici abbiamo l’opportunità “di imparare qualcosa di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità”[20]. Da un lato, la Chiesa cattolica deve ammettere di non aver ancora sviluppato, nella sua vita e nelle sue strutture ecclesiali, quel grado di sinodalità che sarebbe teologicamente possibile e necessario, e che un legame credibile tra il principio gerarchico e il principio sinodale-comunale agevolerebbe notevolmente il futuro dialogo ecumenico con l’ortodossia. Il rafforzamento della sinodalità va senza dubbio considerato come il contributo maggiore che la Chiesa cattolica potrà apportare al riconoscimento ecumenico del primato.

Dall’altro lato, ci si può aspettare che, nel dialogo ecumenico, le Chiese ortodosse imparino da noi cattolici che un primato, anche al livello universale della Chiesa, non contraddice il principio della sinodalità, essendo non solo possibile e teologicamente legittimo, ma anche necessario. In ogni caso, le tensioni intra-ortodosse dovrebbero far comprendere la necessità di riflettere su un ministero di unità anche al livello universale della Chiesa, che ovviamente dovrebbe essere qualcosa di più di un semplice primato d’onore e includere anche elementi giurisdizionali. Un simile primato non sarebbe in contrasto con l’ecclesiologia eucaristica, ma sarebbe del tutto compatibile con essa.

 

2. Il Vescovo nella sua responsabilità sinodale, collegiale e personale

Da una prospettiva ecumenica, per la comprensione cattolica del concetto di Chiesa è di importanza fondamentale che il principio sinodale e il principio gerarchico interagiscano in modo tale che la vera natura della Chiesa divenga visibile, come afferma il teologo dogmatico cattolico Medard Kehl: “La Chiesa cattolica concepisce se stessa come il <sacramento della Comunio di Dio>; come tale, è la comunità dei credenti uniti dallo Spirito Santo, conformati al Figlio Gesù Cristo, e chiamati a entrare nel Regno di Dio del Padre insieme a tutta la creazione, una comunità costituita al contempo sinodalmente e ‘gerarchicamente’.”[21] Nell’appena citata definizione, il modo in cui viene compreso e attuato questo “al contempo” è di particolare rilevanza soprattutto per la riflessione sull’identità spirituale del Vescovo in una Chiesa sinodale.

 

a) La relazione fondamentale tra “essere con” ed “essere per” nel ministero episcopale

Sant’Agostino formula così il rapporto tra la vita sinodale della Chiesa e il ministero gerarchico nella Chiesa alla luce della propria consacrazione episcopale: “Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano”. Ciò significa che il Vescovo, da un lato, si situa all’interno della Chiesa come uno dei suoi membri battezzati, e dall’altro opera davanti alla comunità ecclesiale come segno sacramentale del primato di Gesù Cristo. La sfida spirituale per il Vescovo è quindi bilanciare il legame di fondo tra l’“essere con” in virtù del battesimo comune e l’“essere per” in virtù della sua consacrazione. Se un Vescovo vuole solo essere “per”, corre il rischio di negare l’“essere con” proprio al sacerdozio comune battesimale e di diventare un monarca cristomonista, al quale è estraneo il concetto di sinodalità. Ma se un Vescovo vuole solo essere “con”, corre il rischio di negare la sua missione ministeriale come vicario sacramentale di Gesù Cristo e di diventare un democratico pneumatomonista o, per usare le parole del famoso Vescovo Johann Michael Sailer, un ministro che si conforma allo spirito del tempo e che equipara la sinodalità alla democrazia.

In entrambi i casi non si rende giustizia alla natura teologica della Chiesa, descritta in questi termini da Hugo Aufderbeck, che fu Vescovo dell’ex Repubblica Democratica Tedesca[22]: “La Chiesa non è una democrazia, perché siamo tutti sotto il Signore. Ma non è neppure una monarchia, perché siamo tutti fratelli e sorelle”. Di conseguenza, il ministero episcopale deve bilanciare trinitariamente in maniera credibile l’“essere-con” pneumatologico e l’“essere-per” cristologico. Le due dimensioni sono inscindibilmente legate, ma la sfida vera e propria va ravvisata nell’ “essere per” del Vescovo; al riguardo, è opportuno citare per intero le parole di sant’Agostino: “Mentre ciò che mi spaventa è quello che sono per voi, ciò che sono con voi mi conforta. Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Il primo indica il ministero, il secondo la grazia. Quello il pericolo, questo la salvezza.”[23]

 

b) La triplice dimensione del ministero episcopale

Per comprendere ulteriormente questo legame di fondo, è importante ricordare che il ministero episcopale deve essere realizzato e deve dar prova di sé in tre modi: sinodale, collegiale e personale. Per la credibilità del ministero episcopale all’interno della Chiesa, è di fondamentale importanza che nessuna modalità di questa triplice dimensione venga isolata o addirittura tralasciata, perché le tre responsabilità sono indissolubilmente legate, come formula e riassume il famoso vescovo africano della Chiesa primitiva, Cipriano di Cartagine: “Nihil sine episcopo, nihil sine consilio presbyterii, nihil sine consensu plebis”[24]. Con questa formula, Cipriano prende anche di mira quei comportamenti che vanno esclusi perché mettono in pericolo la fruttuosa convivenza nella Chiesa, e che sono tuttora rilevanti[25].

In primo luogo, sono esclusi i vari tipi di clericalismo, respingendo i quali Cipriano formula il principio sinodale: “nihil sine consensu plebis”. Questo principio sinodale non mette in alcun modo in discussione il dogma del ministero episcopale, ma esige una pragmatica sinodale da parte del ministero episcopale. Il ministero all’interno della Chiesa può essere esercitato in maniera ecclesiologica e fruttuosa solo se è in cammino insieme a tutto il popolo di Dio in una comunione vincolante. La dimensione sinodale trova il suo fondamento evangelico nella convinzione di fede che il popolo santo di Dio è partecipe “dell’ufficio profetico di Cristo”, nella promessa che lo Spirito Santo venga effuso a ogni credente e che “la totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo” “non può sbagliarsi nel credere”[26]. Tale sinodalità corrisponde al mistero della Chiesa come “sacramento della comunio di Dio”, in cui tutti i credenti si assumono la responsabilità della vita di fede e dell’edificazione della Chiesa sulla base del sacramento del battesimo e del sacramento della cresima, e il ministero episcopale si concepisce e si realizza come servizio reso al sacerdozio comune, affinché tutti i credenti possano adempiere la loro missione battesimale.

In secondo luogo, sono escluse le iniziative solitarie di vescovi autocratici, contro le quali Cipriano formula il principio collegiale: “nihil sine consilio presbyterii”. In virtù della sua consacrazione, il vescovo è ammesso al collegio episcopale mondiale, che rappresenta il ministero dei dodici all’interno del popolo di Dio e nel quale il singolo vescovo deve comportarsi in maniera collegiale, tanto più che deve assumersi anche la responsabilità al livello della Chiesa universale. Solo se comprende se stesso e dimostra di essere “l’anello della cattolicità”[27] che unisce la Chiesa locale affidatagli alla Chiesa universale, il Vescovo può far valere in modo credibile questa dimensione collegiale anche nella Chiesa locale di cui è a capo, soprattutto in relazione ai suoi presbiteri. È indubbiamente uno dei grandi meriti del Concilio Vaticano Secondo aver riscoperto la realtà del presbiterio e aver creato al riguardo condizioni costituzionali e liturgiche favorevoli, introducendo l’istituzione del Consiglio dei Presbiteri come istituzione vincolante e valorizzando nuovamente la concelebrazione eucaristica. La comunione tra il Vescovo e i suoi presbiteri è considerata una “fraternità sacramentale”[28]. La collegialità ha così un fondamento sacramentale, ma deve anche manifestarsi nella vita di tutti i giorni in quanto il Vescovo, per la comunione nello stesso sacerdozio e ministero, deve considerare i presbiteri come “fratelli e amici”, e deve essere pronto “ad ascoltarne il parere”, “a consultarlo e a esaminare assieme i problemi riguardanti le necessità del lavoro pastorale e il bene della diocesi”[29].

In terzo luogo, è esclusa la formazione di gruppi separatisti nella Chiesa e specialmente nel clero, contro cui Cipriano richiama il principio personale: “nihil sine episcopo”. Questo principio scaturisce dalla consacrazione e dalla missione conferita al Vescovo di annunciare la Parola di Dio, presiedere alle celebrazioni dei sacramenti e governare la Chiesa dietro mandato e nel nome di Gesù Cristo. Il compito indelegabile del Vescovo è quindi rendere visibile e testimoniare il fatto che la Chiesa esiste in virtù di Cristo e che Cristo ne è il capo. Poiché fa parte della struttura fondamentale della fede cattolica non solo la dimensione comunitaria all’interno della storia della salvezza operata da Dio, “ma anche la responsabilità personale, la responsabilità della persona”[30], la struttura personale-martirologica del ministero episcopale implica che il Vescovo deve rispondere “a nome personale e per responsabilità personale”[31], nella sua coscienza, della Chiesa locale affidatagli. La Chiesa, dal canto suo, deve riconoscere questa responsabilità personale del Vescovo e, di conseguenza, deve rispettare il fatto che anche il Vescovo ha una propria coscienza che non può delegare a nessuno, e che egli deve testimoniare la fede della Chiesa nella sua responsabilità personale, “che gli convenga oppure no”.

Niente senza il consenso del popolo di Dio, niente senza il consiglio dei presbiteri e niente senza l’indelegabile responsabilità personale del Vescovo. Solo là dove questi tre “nihil sine” sono ugualmente rispettati, e vengono così attuati il principio sinodale, il principio collegiale e il principio personale, nell’armonia tra “tutti”, “alcuni” e “uno” – come è stato sottolineato nei vari dialoghi ecumenici – la vita ecclesiale conosce un sano equilibrio.

 

3. Le prospettive spirituali del ministero episcopale

“Il vescovo è nella chiesa e la chiesa nel vescovo.”[32] Con queste parole pregnanti, Cipriano riassume l’indissolubile legame tra la Chiesa sinodale e il compito del Vescovo. Naturalmente, l’esperienza mostra che, per conseguire e mantenere un sano equilibrio tra le due realtà, va compiuto uno sforzo continuo. Sarà pertanto opportuno soffermarsi qui di seguito su alcuni aspetti utili all’approfondimento dell’identità spirituale del Vescovo in una Chiesa sinodale.

 

a) Rivolgere uno sguardo sinodale agli altri dalla prospettiva di Dio

Un primo orientamento spirituale ci viene dal termine greco usato per designare il Vescovo, “episkopos”. Questo termine contiene il verbo “vedere”, motivo per cui è solitamente tradotto come “supervisore” o “sorvegliante”. Pensiamo istintivamente a una persona che ha il compito di vigilare sugli altri e di sorvegliare la comunità di cui è responsabile. Ma “episkopos” non si riferisce a una sorveglianza esterna, come, per esempio, quella di una guardia carceraria, sebbene la parola greca sia spesso resa con “sorvegliante”. Papa san Gregorio Magno ha aperto una pista più utile traducendo il termine “episkopos” non come “sorvegliante” ma come “speculator” (“osservatore”). Così facendo, ha suggerito che il Vescovo deve essere prima di tutto una persona che vede, e che ha il compito di predicare il Vangelo. Annunciare presuppone infatti una visione d’insieme e uno sguardo che parte da un luogo più alto. Chi è chiamato a essere “specualtor” della Chiesa deve avere un punto di osservazione più alto attraverso la sua vita e la sua parola, per servire con lungimiranza e per indicare la via. Gregorio Magno, che ha dovuto sopportare il pesante fardello del ministero pontificio a Roma in un tempo difficile e che quindi sapeva quanto fosse impegnativo il compito di vedere, ha ricercato il significato del termine “episkopos” anche nella tragedia greca, nella quale Dio stesso appare come “episkopos”, come colui che vede le buone e le cattive azioni dell’uomo. E il filosofo ellenistico Filone chiama Mosè stesso “episkopos”, perché la sua vita dipende da Dio e perché egli guarda le persone dalla prospettiva di Dio.

In questa tradizione, Gesù Cristo è indicato nel Nuovo Testamento, specialmente nella prima lettera di Pietro, come “pastore e custode (episkopos) delle vostre anime” (2,25). Da ciò risulta chiaro che si tratta di uno sguardo interiore, di un vedere dalla prospettiva di Dio. Dalla prospettiva di Dio, si vede l’essere umano nella sua interiorità e quindi nella sua essenza. Si tratta di una visione d’amore che vuole servire gli altri e aiutarli a essere se stessi. Come Cristo, anche il Vescovo deve essere un “episkopos di anime”, e considerare Cristo episkopos come modello del suo amore pastorale. Il concetto di “sorvegliante”, che a primo impatto sembra superficiale, acquista così una profondità completamente diversa. Essere Vescovo significa allora vedere dalla prospettiva di Dio e vedere con Dio coloro che ci sono stati affidati, per trasmettere l’amore che Dio ha per gli uomini, come ha sottolineato Papa Benedetto XVI: “assumere la posizione di Cristo. Pensare, vedere ed agire a partire dalla sua posizione elevata. A partire da Lui essere a disposizione degli uomini, affinché trovino la vita”[33].

L’episkopos deve vedere con gli occhi di Dio. Deve poter vedere sia il singolo che l’insieme, e quindi anche ciò che è importante nel suo tempo e ciò che invece è solo lo spirito del tempo. Questa enfasi sullo sguardo esprime la stessa cosa che Papa Francesco suggerisce parlando di ascolto come prerequisito di una Chiesa sinodale. Gli organi più importanti del Vescovo in una Chiesa sinodale sono infatti le orecchie e gli occhi; solo se questi sono ben allenati spiritualmente, anche la bocca sarà credibile. Questo è l’orientamento fondamentale per l’identità spirituale del Vescovo in una Chiesa sinodale.

Da ciò derivano altri segnavia spirituali per il ministero episcopale, che si ritrovano soprattutto nella tradizione monastica. Nel nostro contesto, ricordare tale tradizione non ha lo scopo di trasformare i Vescovi in ​​monaci, ma ha un senso perché la tradizione monastica dispone di un più ricco patrimonio di esperienze per quanto riguarda la vita sinodale e il sano equilibrio tra il principio gerarchico e il principio sinodale nella Chiesa, esperienze da cui possiamo imparare molto per l’esercizio del ministero episcopale. Ciò vale soprattutto per la tradizione benedettina, in cui l’abate ha una missione simile a quella del Vescovo nella chiesa locale a lui affidata.

 

b) Provvedere come presiedere: l’arte spirituale della delega

“Nessuno deve fare tutto, ognuno dovrebbe fare solo ciò che gli compete, questa è l’idea della Chiesa cattolica.” Johann Adam Möhler, importante teologo della scuola cattolica di Tubinga del XIX secolo, descrive così la natura della Chiesa cattolica. Legato a questa definizione è un ulteriore orientamento spirituale per il Vescovo, che può essere formulato con il principio secondo il quale il compito di guida del Vescovo implica l’arte della delega. Chi vuole assumere la guida ecclesiale in modo responsabile non può assolutamente fare tutto da solo, né deve averne l’intenzione. Piuttosto, deve essere disposto a delegare. Dopotutto, anche la prima e ultima responsabilità è la responsabilità di guida, che implica la capacità di riporre una grande fiducia nei subordinati. Guidare la Chiesa può quindi essere inteso anche come “far partecipare gli altri al proprio agire”[34].

Cosa ciò significhi concretamente traspare nella preghiera di consacrazione di un abate secondo la spiritualità benedettina: “Permettigli di comprendere che il suo compito non è tanto presiedere agli altri, quanto procurare ciò che è loro utile”. Questa preghiera è attribuita a sant’Aelred, che nella sua “Oratio pastoralis” si rivolge a Dio pensando ai fratelli affidati alle sue cure: “Tu sai, Signore, quanto li amo; sai che desidero, nel mio affetto, provvedere più che presiedere, assisterli con umiltà e stare insieme a loro nell’amore come uno di loro.”[35] Questa preghiera è una descrizione molto profonda del compito di guida del Vescovo nella Chiesa: il “presiedere” autorevole si realizza nello spirito sinodale come un “provvedere” pastorale.

Il primato del provvedere sul presiedere implica innanzitutto il compito di rendere accessibile tutto ciò che è utile al bene della comunità, sostenendo e promuovendo la crescita umana e spirituale dei battezzati, coordinando i vari doni e talenti in modo tale che si completino a vicenda per il bene dell’intera comunità che si presiede. La regola di San Benedetto ravvisa in ciò la prova concreta della vera fraternità in un monastero e quindi anche nella Chiesa. La fraternità realmente vissuta non solo è in grado di far fronte alle differenze tra le persone e tra i loro servizi, ma li considera come vicendevole arricchimento. San Benedetto ritiene molto importante saper riconoscere e apprezzare queste differenze. Ecco perché si aspetta che l’abate guidi tutti e valorizzi la specificità di ognuno: “si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza.”[36]

 

c) Servire nell’obbedienza: una relazione umile con il potere

La regola di san Benedetto richiama l’attenzione su un altro prerequisito necessario all’assunzione, in modo spirituale, del compito di guida della Chiesa, vale a dire un sano rapporto con il potere, che è strettamente legato alla responsabilità dirigenziale, anche nella Chiesa. In una comunità monastica benedettina, l’abate occupa una posizione così centrale che la regola benedettina potrebbe essere definita la “regola dell’abate”. Questo emerge già nel breve riferimento alla vita monastica comune con il quale Benedetto inizia la sua regola, dicendo dei fratelli: “vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate.”[37] Da un lato, la regola benedettina conferisce all’abate molto potere e molto potere decisionale. Dall’altro, san Benedetto è un così buon conoscitore della natura umana che nella sua regola non lascia dubbi sul fatto che il potere nel monastero come nella Chiesa non può e non deve essere altro che servizio, e ricorda costantemente all’abate che dovrà rispondere davanti al Giudizio Universale. Questo è anche il motivo per cui la regola benedettina prevede anche che l’abate possa agire in modo sbagliato; di conseguenza, proprio all’abate è rivolta la maggior parte dei moniti.

Alla base di tutto ciò vi è il grande realismo di Benedetto, da cui noi Vescovi possiamo sempre imparare molto. Benedetto è realisticamente consapevole che il compito di guida è sempre associato al potere, ma che ciò che conta è chi viene servito e con quale potere. In questo senso, anche noi Vescovi dobbiamo sempre rendere conto in maniera autocritica di quanto potere è stato messo nelle nostre mani e di come lo usiamo. Solo il potere utilizzato al servizio degli altri, e il cui criterio non è il dominio ma la cura, può essere concepito ed esercitato in modo sinodale. I responsabili della Chiesa che invece usano il potere solo per se stessi verranno subito percepiti come pastori che nutrono i propri interessi.

Un simile potere non ha ragione di esistere nella Chiesa, perché in essa può esserci potere solo nel senso di partecipazione all’exousia di Gesù. Ma l’exousia di Gesù è servizio disinteressato, anche capace di sacrificarsi per gli altri, e quindi è potere umile, così come lo ha interpretato il teologo cattolico Romano Guardini: “L’intera esistenza di Gesù è la traduzione del potere in umiltà... in obbedienza alla volontà del Padre. Per Gesù l’obbedienza non è qualcosa di secondario, ma costituisce l’essenza della sua natura.”[38] Come l’exousia di Gesù è un potere che deriva dall’obbedienza, così il potere del Vescovo è quello conferitogli affinché si ponga in modo sinodale al servizio della comunità ecclesiale affidatagli. E solo quando promuove una Chiesa sinodale, il potere è anche autorità intesa nel senso originario di auctoritas.

 

d) La comunione nella preghiera: le radici spirituali della guida

Come successore degli apostoli, il Vescovo deve essere sempre cosciente che il potere derivato dal suo ministero non è mai “suo”, e che egli è solo “agente di un altro”, “che a sua volta è agente”[39]. Ciò significa che il compito di guida nella Chiesa presuppone una profonda spiritualità, il cui fulcro risiede nella consapevolezza che chi è alla guida deve rispondere in ultima analisi a un’istanza soprannaturale. San Benedetto esprime questo concetto chiamando la comunità monastica “casa di Dio”. Poiché “casa di Dio” è un’antica definizione che designa simbolicamente la Chiesa, chi guida la Chiesa ha la responsabilità speciale di fare in modo che la Chiesa si mostri come casa di Dio. Ciò significa soprattutto riconoscere e valorizzare il primato di Gesù Cristo come Signore e Proprietario di questa casa. Benedetto dice pertanto dei monaci: “non antepongano assolutamente nulla a Cristo”.[40]

Questa prospettiva cristocentrica percorre come un filo rosso la regola di san Benedetto: Cristo risorto è il vero fulcro della comunità monastica, partendo dal quale e sulla base del quale è costruita l’intera casa di Dio. Spazio, tempo e intera vita in questa casa sono organizzati e regolati secondo Cristo. Che si tratti di preghiera o di lavoro, di cibo o di digiuno, tutto si deve orientare a Cristo, che ha il “primato” su tutte le cose (Col 1,18). Per questo san Benedetto presuppone che l’abate stesso sia un cristiano spirituale, ovvero un cristiano che si orienta al Risorto e che vive nello spirito di preghiera e nella forza pregnante della Parola di Dio. Lo stesso vale, naturalmente, per il Vescovo.

Che la preghiera sia senza dubbio il presupposto fondamentale del ministero di guida della Chiesa in uno spirito sinodale è confermato da un altro grande testimone della fede, ovvero san Francesco di Sales, che, Vescovo di Ginevra tra il XVI e il XVII secolo, è giustamente chiamato “Carlo Borromeo della Savoia” ed è conosciuto come “la guida più saggia delle anime”. Egli parla dell’esperienza spirituale vissuta durante la sua consacrazione episcopale in questi termini: “Dio mi ha tolto a me stesso per prendermi e poi mi ha restituito agli altri. Mi ha trasformato da ciò che ero per me stesso a ciò che dovevo essere per gli altri.”[41] San Francesco di Sales descrive magnificamente la trasformazione che avviene nella preghiera a chi vive il proprio compito di guida come servizio. Nello spirito salesiano, la guida inizia nella silenziosa intimità e unità con Cristo nella preghiera, quando si chiede che i credenti possano riconoscere nella guida ecclesiale ancora una volta il Cristo che si inginocchia davanti a loro e lava loro i piedi.[42] Questo è il fondamento cristologico dell’esercizio sinodale della guida della Chiesa.

Tale preghiera non distoglie in alcun modo dal compito di guidare, ma lo abilita e lo orienta. Il tempo che un Vescovo dedica all’ascolto della Sacra Scrittura e alla preghiera non è quindi minimamente un tempo pastorale perso o sottratto alla comunità affidatagli. Piuttosto, la preghiera è parte integrante e intima dello stesso compito di guida della Chiesa: solo così guidare la Chiesa non è un semplice incarico gestibile funzionalmente e sociologicamente, ma è un evento profondamente spirituale, come ha sottolineato Papa Benedetto XVI nel suo primo incontro con i sacerdoti e i diaconi della diocesi di Roma: “il tempo per stare alla presenza di Dio nella preghiera è una vera priorità pastorale, non è una cosa accanto al lavoro pastorale; stare davanti al Signore è una priorità pastorale, in ultima analisi la più importante.”[43]

Anche noi Vescovi dobbiao far nostro questo orientamento. La preghiera è infatti il banco di prova del ministero di guida del Vescovo nella sua chiesa locale. La preghiera conduce allo spirito sinodale, che non solo allevia il compito della guida, ma ha anche un effetto liberatorio sulla comunità affidata al Vescovo. Ecco perché, nell’ambito delle promesse pronunciate da un candidato all’episcopato prima della sua consacrazione, una domanda importante è: “Vuoi insieme con noi implorare la divina misericordia per il popolo a te affidato, dedicandoti assiduamente alla preghiera, come ha comandato il Signore?”

 

e) Il legame liturgico tra sinodalità e gerarchia

Quanto è stato detto sulla dimensione sinodale della Chiesa nella preghiera del Vescovo, vale a maggior ragione per l’Eucaristia come fonte e culmine dell’opera della Chiesa. Lo stretto legame tra sinodalità e gerarchia nella vita della Chiesa è più chiaramente visibile nella celebrazione dell’Eucaristia. Ma questo avviene solo se si parte dalla comprensione della liturgia del Concilio Vaticano Secondo, che sottolinea innanzitutto che il Cristo risorto e glorificato è il soggetto vero e proprio della liturgia e il vero celebrante. Naturalmente, tale enfasi non significa che Cristo sia il soggetto esclusivo della liturgia. Piuttosto, il Cristo presente realmente e personalmente nella liturgia include l’intera Chiesa nel suo agire liturgico. La Chiesa nel suo insieme, come Corpo sacramentale di Cristo, è dunque “il soggetto secondario della commemorazione liturgica dipendente da Cristo e a lui totalmente subordinato.”[44] Da qui si comprende l’affermazione fondamentale della Costituzione liturgica “Sacrosanctum concilium”, ripresa anche dal Catechismo della Chiesa cattolica: “Nella celebrazione liturgica tutta l’assemblea è ‘liturgica’, ciascuno secondo la propria funzione. Il sacerdozio battesimale è quello di tutto il Corpo di Cristo.”[45]

Il Catechismo aggiunge poi: “alcuni fedeli sono ordinati mediante il sacramento dell’Ordine per rappresentare Cristo come Capo del Corpo.” Tale aggiunta intende ricordare espressamente all’intera Chiesa, quale soggetto secondario della liturgia, che la liturgia non è semplicemente un’iniziativa ecclesiale, che, di conseguenza, non la Chiesa ma il Cristo risorto e glorificato è il soggetto primario della celebrazione liturgica, e che la Chiesa ha bisogno del Vescovo e dei presbiteri come soggetto terziario della liturgia. Nella liturgia, il ministro ordinato non è solo il rappresentante della comunità ecclesiale che presiede, ma è anche il rappresentante di Cristo che si pone davanti all’assemblea. L’aspetto centrale del suo ministero è dunque la “funzione iconografica, che consiste nel rappresentare concretamente per i suoi fratelli e per le sue sorelle il Signore che, non visibile, è presente e operante come sacerdote, e nel renderlo accessibile- sacramentalmente- ai sensi.”[46]

Si chiude così il cerchio, dove il sacerdote, come soggetto terziario della liturgia, fa rivolgere l’intera Chiesa, quale soggetto secondario, a Cristo che è il soggetto primario. Parlare di questi tre soggetti può sembrare astratto e complicato. Ma è necessario farlo, se vogliamo preservare fedelmente l’interpretazione ampia e differenziata della liturgia fatta dal Concilio Vaticano Secondo, che può essere riassunta in questi termini, seguendo quanto scritto dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger: “Né il sacerdote da solo, né l’assemblea da sola sono i soggetti della liturgia, ma l’intero Cristo, Capo e membra; lo sono il sacerdote, l’assemblea e i singoli, fin tanto che sono uniti a Cristo e lo rappresentano nella comunione di Capo e membra. In ogni celebrazione liturgica, l’intera Chiesa, cielo e terra, Dio e uomo sono partecipi non solo teoricamente ma in maniera del tutto reale.”[47] Poiché la Chiesa non solo celebra l’Eucaristia, ma da essa nasce continuamente, il Vescovo serve la Chiesa sinodale in modo speciale quando, nella comunità affidatagli, assume la sua responsabilità di capo della liturgia.

Si comprende allora chiaramente il carattere profondamente liturgico-eucaristico del legame che unisce sinodalità e primato. Anche la parola “ekklesia” usata dalla Chiesa primitiva non indica solo la Chiesa universale e la chiesa locale, ma anche il culto cristiano e quindi il raduno della comunità di fede convocata per l’Eucaristia. L’essenza più profonda della Chiesa come sinodo è l’assemblea eucaristica. La Chiesa quale sinodo vive soprattutto là dove i cristiani si radunano per celebrare l’Eucaristia, come giustamente sottolinea la Commissione Teologica Internazionale: “Il cammino sinodale della Chiesa è configurato e alimentato dall’Eucaristia.”[48] La sinodalità ha la sua origine e anche il suo culmine nella partecipazione consapevole e attiva all’assemblea eucaristica; per questo, essa presenta una dimensione spirituale fondamentale. Ciò trova ancora oggi espressione visibile nell’usanza di dare inizio alle assemblee sinodali, come i concili o i sinodi dei Vescovi, con la celebrazione dell’Eucaristia e con l’intronizzazione del Vangelo, come già prescritto a partire dai Concili di Toledo nel VII secolo fino al Ceremoniale Episcoporum del 1984.

 

f) L’amicizia personale con Cristo: l’amore come criterio

Nella Chiesa primitiva l’Eucaristia era chiamata “agape” - amore. Nell’Eucaristia, infatti, può essere sperimentato l’amore di Cristo per la sua Chiesa nel modo più profondo: nell’Eucaristia, Cristo è cibo per noi quale amore. Le prospettive finora menzionate confluiscono così in un dato cruciale: il fatto che il profondo amore per Cristo rappresenti il fondamento spirituale essenziale dell’esercizio sinodale del ministero episcopale. È quanto ci viene suggerito dal significativo incontro tra il Cristo risorto e Pietro sul lago di Tiberiade, che vorrei raccomandarvi, cari confratelli, per la meditazione durante il ritiro spirituale.

Prima che il Cristo risorto affidi a Pietro la missione di pascere le sue pecore, gli pone la domanda personale: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami?” (Gv 21,15). Quanto sia serio Gesù riguardo a questa domanda è dimostrato dal fatto che la ripete tre volte. Ciò rivela in maniera inequivocabile che l’amore per Cristo è il criterio più importante per la vocazione particolare al discepolato. Alle orecchie istruite dei cristiani moderni, l’enfasi posta sull’unico criterio dell’amore suonerà probabilmente strana: un po’ spiritualista e distaccata. Ma possiamo stravolgere e capovolgere il testo biblico a nostro piacimento - non potremo evitare di giungere a questa conclusione: il Cristo risorto non chiede a Pietro il suo futuro programma pastorale e certamente non la politica ecclesiale che intende seguire. Il Cristo risorto non chiede a Pietro nemmeno se gli altri discepoli e il popolo di Dio lo accetteranno. No. Cristo interroga Pietro solo sul suo amore per lui: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”

Cristo ha posto questa domanda cruciale anche a noi quando siamo stati ordinati Vescovi, e ce la pone ogni giorno di nuovo. Il brano biblico ci invita a guardare indietro e a riflettere sulla nostra vita. La scena presso il Lago di Tiberiade ci mostra chiaramente che il Vescovo deve realizzare nella sua vita quanto gli è stato dato come sacramento con la sua consacrazione e con il ministero conferitogli in quel momento importante. Il Vescovo può far avvicinare gli altri a Cristo solo se vive con Cristo in un’amicizia personale e se viene percepito come “Cristoforo”, portatore di Cristo. Solo così potrà essere un testimone amorevole del Cristo risorto, e potrà esercitare il suo compito di guida nello spirito della sinodalità. L’essenza dell’identità spirituale del Vescovo in una Chiesa sinodale risiede nell’amore per Cristo e quindi per la Chiesa come Corpo di Cristo.

                                                                                                                                    

[1] Francesco, Discorso ai Presuli della Chiesa greco-cattolica ucraina, il 5 luglio 2019.
[2] Francesco, Discorso in occasione della Commemorazione del 50.mo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, il 17 ottobre 2015.
[3] J. Chrysostomos, Exlicatio in Ps 149, in: PG 55, 493.
[4] J. Cardinal Ratzinger, Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio (Augsburg 2002).
[5] Die Kirche. Auf dem Weg zu einer gemeinsamen Vision. Eine Studie der Kommission für Glauben und Kirchenverfassung des Ökumenischen Rates der Kirchen (ÖRK) (Gütersloh – Paderborn 2015), Nr. 53.
[6] Internationale Theologische Kommission, Die Synodalität in Leben und Sendung der Kirche, Nr. 116.
[7] Vademecum del Sinodo, n. 5.3.7.
[8] Vgl. R. Pesch, Gott ist gegenwärtig. Die Versammlung des Volkes Gottes in Synagoge und Kirche (Augsburg 2006).
[9] Franziskus, Wage zu träumen! Mit Zuversicht aus der Krise, Im Gespräch mit Austen Ivereigh (München 2020) 111.
[10] Francesco, Introduzione al Sinodo per la famiglia, il 5 ottobre 2015.
[11] Francesco, Discorso per la Commemorazione del 50.mo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, il 17 ottobre 2015.
[12] Ibid.
[13] L. Scheffczyk, Das Petrusamt in der Kirche: Übergeordnet – eingefügt, in: A. Brandenburg / H. J. Urban (Hrsg.), Petrus und Papst. Evangelium – Einheit der Kirche – Papstdienst. Band II: Neue Beiträge (Münster 1978) 142-158, bes. 146.
[14] Zu dieser wichtigen Unterscheidung vgl. H. J. Pottmeyer, Wahrheit „von unten“ oder Wahrheit „von oben“? Zum verantwortlichen Umgang mit lehramtlichen Aussagen, in: U. Struppe und J. Weismayer (Hrsg.), Öffnung zum heute. Die Kirche nach dem Konzil (Innsbruck – Wien 1991) 13-30.
[15] Cfr. Y. Congar, Quod omnes tangit, ab omnibus tractari debet, in: Revue historique et droit francais et étranger 36 (1958) 210-259.
[16] Francesco, Discorso alla Delegazione ecumenica del Patriarcato di Costantinopoli, il 27 giugno 2015.
[17] Vgl. K. Cardinal Koch, Auf dem Weg zur Wiederherstellung der einen Kirche in Ost und West, in: D. Schon (Hrsg.), Dialog 2.0 - Braucht der orthodox-katholische Dialog neue Impulse? (Regensburg 2017) 19-41.
[18] Dokumentiert in: J. Oeldemann, F. Nüssel, U. Swarat, A. Vletsis (Hrsg.). Dokumente wachsender Übereinstimmung. Band 4: 2001-2010. (Paderborn – Leipzig 2012) 833-848.
[19] Im Dienst an der Gemeinschaft. Das Verhältnis von Primat und Synodalität neu denken. Eine Studie des Gemeinsamen orthodox-katholischen Arbeitskreises St. Irenäus (Paderborn 2018) 94.
[20] Francesco, Evangelii gaudium, n. 246.
[21] M. Kehl, Die Kirche. Eine katholische Ekklesiologie (Würzburg 1992) 51.
[22] Vgl. H. Mondschein, Bischof Hugo Aufderbeck. Lebenszeugnis (Heiligenstadt 1996).
[23] Augustinus, Sermo 240, 1 = PL 38, 1483.
[24] CSEK III, 2, 512.
[25] Vgl. K. Koch, Synodale Kirche und Bischofsamt, in: Ders,., Zeit-Zeichen. Kleine Beiträge zur heutigen Glaubenssituation (Freiburg / Schweiz 1998) 83-92.
[26] Lumen gentium, n. 12.
[27] J. Kardinal Ratzinger, Gesamtkirche und Teilkirche. Der Auftrag des Bischofs, in: Ders., Zur Gemeinschaft gerufen. Kirche heute verstehen (Freiburg i. Br. 1991) 70-97.
[28] Vgl. A. Cattaneo, Das Presbyterium. Ekklesiologische Grundelemente und kirchenrechtliche Auswirkungen , in: Archiv für Katholisches Kirchenrecht 161 (1992) 42-67.
[29] Presbyterorum ordinis, n. 7.
[30] J. Ratzinger, Der Primat des Papstes und die Einheit des Gottesvolkes, in: Ders. (Hrsg.), Dienst an der Einheit. Zum Wesen und Auftrag des Petrusamtes (Düsseldorf 1978) 165-179, zit. 168.
[31] Ibid, 171.
[32] Cipriano, ep. 66,8.
[33] Benedetto XVI, Omelia durante la Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, 29 giugno 2009.
[34] Vgl. R. Siebenrock / M. Scharer / J. Panhofer, Ein Blick in unsere Leitungswerkstatt, in: Dies., Erlöstes Leiten. Eine kommunikativ-theologische Intervention (Mainz 2007) 11-20, zit. 12.
[35] Aelred von Rievaulx, Oratio pastoralis, n. 8.
[36] Regula Benedicti, 2. 32.
[37] Regula Benedicti, I.2.R.
[38] R. Guardini, Die Macht. Versuch einer Wegweisung (Würzburg 1952) 38.
[39] P. Henrici, Vollmacht in Ohnmacht: die Macht der Kirche, in: Ders., Glauben – Denken – Leben. Gesammelte Aufsätze (Köln 1993) 11-19, zit. 14.
[40] Regula Benedicti 72, 11.
[41] Deutsche Ausgabe der Werke des hl. Franz von Sales. Band 5, 247.
[42] Vgl. Internationale Kommission für salesianische Studien der Oblaten des heiligen Franz von Sales (Hrsg.), Salesianisch leiten (Eichstätt 2002).
[43] Benedetto XVI, Discorso al Clero di Roma, Basilica di San Giovanni in Laterano, 13 maggio 2005.
[44] O. Nussbaum, Die Liturgie als Gedächtnisfeier, in: J. Schreiner (Hrsg.), Freude am Gottesdienst. Aspekte ursprünglicher Liturgie (Stuttgart 1983) 201-214, zit. 211-212.
[45] Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1188.
[46] M. Kunzler, Leben in Christus. Eine Laienliturgik zur Einführung in die Mysterien des Gottesdienstes (Paderborn 1999) 119.
[47] J. Kardinal Ratzinger, “Im Angesicht der Engel will ich dir singen”. Regensburger Tradition und Liturgiereform, in: Ders., Ein neues Lied für den Herrn. Christusglaube und Liturgie in der Gegenwart (Freiburg i. Br. 1995) 173.
[48] Internationale Theologische Kommission, Die Synodalität in Leben und Sendung der Kirche, Nr. 47.